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Il giovane Zingaretti: romanzo di formazione di un futuro Ieader a cavallo tra il Partito, Ingrao, Bettini e il muro di Berlino

Immagine di copertina
Nicola Zingaretti. Credit: Matteo Nardone/Pacific Press/Ansa

Un ritratto del segretario del PD, raccontato da chi ha condiviso con lui gli anni della formazione politica. Di Luca Telese

Io me lo ricordo Nicola Zingaretti con i capelli folti e ricci, magrissimo. Il maglione a girocollo blu un po’ esistenzialista portato senza camicia, i jeans, e il megafono della Fgci in mano (scrostato, pieno di adesivi e la scritta a pennarellone rosso, “FGCI!”) a piazza del Pantheon il giorno in cui gli Autonomi buttarono il compagno Stefano Ciccone dentro una fontana di Roma.

Se rievoco quel tempo proprio oggi non è (solo) per fare un Amarcord nostalgico dei primi anni Ottanta, ovvero del luogo dove – tra paninari, Commodores 64 e i primi videogiochi – si è formata l’ultima generazione di giovani comunisti partorita dalla storia (poi cadde il muro e finì tutto).

Lo faccio perché quel turbine è stato il romanzo di formazione di Nicola Zingaretti, la sua scuola di formazione politica. Una istruzione primaria, secondaria e universitaria impartita tutta insieme, a lui e a tanti altri, prima che si chiudessero inesorabili le saracinesche della storia.

Per capire cosa può lui, oggi, bisogna tornare a quella stagione lontana, e ricordare cosa faceva lui, all’epoca. A proposito, per dirla nello zingarettese dell’epoca: “Badate compagni, che in questi anni abbiamo fatto a botte più con gli Autonomi che con i fasci!”. Ed era vero.

Gli Autonomi erano il nemico da combattere per la testa dei cortei, erano il massimalismo che noi figgiciotti detestavamo, erano la violenza che noi aborrivano e “i Volsci” (dal collettivo di via dei Volsci di San Lorenzo, la loro storica sede) non erano una popolazione dell’età antica ma una minaccia, mani che scrivevano sui muri vicino all’università: “Zingaro, il prossimo che finisce nella fontana sei tu!”.

Il megafono aveva la scritta rossa perché quando si finiva male il loro obiettivo era trafugarlo, come per le bandiere dei ragazzi della via Pal. E Stefano Ciccone era un nonviolento totale: era rimasto immobile durante una carica, con fermezza guardiana, era stato sollevato dai Volsci per mani e piedi e buttato in acqua.

Nei momenti più duri Zingaretti diventava per un attimo (anche) un discreto capo militare, e diceva: “Adesso mandiamo avanti i compagni della Settima”. Non il settimo cavalleggeri, ma la settima circoscrizione, il Quarticciolo, dove il PCI prendeva il 70 per cento, e i compagni dei Circoli territoriali erano particolarmente coriacei.

Postilla autobiografica. Sono nato nel 1970. Mi ero iscritto alla FGCI nel 1984, nella sezione del quartiere dove abitavo e non avevo fatto mai nulla, attività politica zero, se si esclude una leggendaria marcia della pace Perugia-Assisi sotto una pioggia torrenziale con il pullman del partito (al ritorno, del tutto fradici, discussione appassionate su Martin Luther King, Malcom X e la Roma di Pruzzo).

La tessera dei giovani comunisti mi veniva rinnovata d’ufficio da un compagno settantenne della sezione che la consegnava direttamente a mio padre, che me la recapitava orgoglioso, punto.

Poi nel 1985 tutto cambia a partire da Napoli; dopo un focoso congresso nazionale la FGCI era passata in mano ad un gruppo dirigente di rinnovatori, “giovani leoni” eterodossi e alternativi (il segretario nazionale era diventato Pietro Folena) e si era rifondata dividendosi in leghe, proclamando autonomia politica rispetto al Pci (facile a dirsi, difficile a farsi).

La struttura più importante di questa galassia era la Lega Studenti medi, poi c’erano i Circoli territoriali (nel gergo “Uccittì”), poi alcune strutture verticali di opinione come i “Centri di iniziativa per la pace” (nel gergo “Cip” nel tempo della guerra fredda, c’era chi lavorava solo su questi temi, come l’eroico Ciccone), quindi i Centri di iniziativa contro le Tossicodipendenze (la stagione del buco non era ancora finita), la Lega del lavoro, i Centri di iniziativa per l’Ambiente e qualche organizzazione talmente di nicchia e marginale che oggi non la ricordo più nemmeno io.

Il responsabile cultura era Nichi Vendola, e l’erede di Folena sarebbe stato Gianni Cuperlo, e dopo Cuperlo lo scettro sarebbe toccato proprio a Zingaretti. Nicola era il pupillo dell’allora segretario della federazione romana del PCI, Goffredo Bettini (suo mentore di una vita, e ancora oggi primo consigliere), divenne il numero uno dei giovani comunisti a Roma, l’organizzatore indefesso di cinquemila iscritti “veri”.

“Ognuno di loro – mi diceva lui – l’ho chiamato almeno una volta. Fai lo stesso con gli iscritti della tua cellula, i compagni vanno sentiti e curati”. Non era vero, raggiungerne cinquemila sarebbe stato un lavoro sovrumano, ma vero era che il giovane Zingaretti era già allora un autentico di pietra, una banca dati ambulante e aveva alcune qualità che gli sono servite per tutta la vita: una memoria elefantiaca, una innata capacità organizzativa, una passione per le mediazioni, una vocazione quasi da direttore di orchestra, che capisce subito a chi deve affidare le sue partiture perché l’esecuzione venga al meglio (se ci riuscisse anche nel Pd di oggi sarebbe già un miracolo).

Folena aveva una ottima oratoria, e caratura di partito (fra l’altro era sul palco di Padova con Berlinguer il giorno della sua morte), Vendola già allora in pubblico era un incantatore di serpenti molto carismatico e teatrale, lui non aveva questa vocazione “scenica”, ma era un uomo-macchina che in mezzo a tanti istrioni con la testa fra le nuvole faceva girare le cose.

Il giovane Zingaretti, però, aveva anche fantasia e intuizioni creative: immaginava slogan, campagne, simboli, che schizzava a penna in bozza su fogli sfusi e tovaglioli durante le riunioni, e che poi affidava a qualcuno dicendo: “Realizza questo, così”.

Ricordo, per esempio, che nel 1989 gli venne in mente di non presentare sulle schede elettorali (attenzione ai ricorsi storici) nelle elezioni universitarie de La Sapienza, la bandiera con la stella della Fgci, e di fare una apertura delle liste (attenzione ai ricorsi storici) a non iscritti, simpatizzanti e varia umanità di area.

Quando in un ennesimo attivo a via dei Frentani Nicola comunicò questa scelta alla base, ci furono attimi di smarrimento. Alle elezioni senza “il nostro” simbolo? E Zingaretti, diritto: “Compagni, badate, io sono molto affezionato alla nostra bandiera, tuttavia vi ricordo che deriva direttamente da simbolo del Konsomol, la Gioventu comunista sovietica. Non è il modo migliore per attrarre persone di area non legate al partito”.

Voce dal fondo: “Nicó, ma come la dobbiamo chiamare ‘sta lista!?”. Lui, raggiante: “Dopo una lunga e tormentata consultazione preventiva con i compagni della Lega universitaria, abbiamo individuato, insieme, una soluzione veramente di rottura…” (Quando Nicola calcava sulla parola “insieme”, allora come oggi, sono abituato a pensare che sia una idea sua, su ciò poi ha convinto a convergere tutti).

E dopo la pausa Zingaretti aveva detto con un grande sorriso: “Il nome della lista sarà: Di-a-da-Sinistra!” (il manifesto elettorale fu realizzato dal giovane Giovanni de Mauro, oggi direttore di Internazionale). Prima reazione, sgomento: di-a-che?. Silenzio. Stessa voce, nuova domanda: “Nicó, e il simbolo?”.

Il giovane Zingaretti aveva risposto: “Ecco, lo dico per i compagni più affezionati alla nostra storia. Il simbolo, anche questo scelto insieme è una versione semplificata del celebre Cuneo rosso di El Lissizky!”. Silenzio. Mormorii.

Tuttavia Zingaretti andò direttamente in tipografia a seguire la stampa del materiale di propaganda, soprattutto cento adesivetti quadrati con quel cerchietto rosso a cui teneva molto. Il cuneo sovietico disegnato dal grande artista sovietico e semplificato dal tipografo dei Frentani, si vedeva da lontano sui muri intorno all’Università, la lista divenne nei corridoi della Sapienza molto familiarmente “Di-a-dá”, prese molti voti e fu un successo della linea Zingaretti “Rinnovamento nella continuità”.

Nicola ha scritto nella sua biografia sul sito che ha iniziato la sua carriera “nei movimenti fondando l’associazione antirazzista ‘Nero e non solo’ ”. A quel che ricordo io non è vero. Quando nasce l’associazione, fra l’altro diretta da Giampiero Cioffredi (suo amico stretto e collaboratore, ancora oggi) “Nero e non solo” era una emanazione della FGCI di cui Zingaretti era segretario.

Nicola era tornato da Parigi – dove erano scoppiati i primi casi di razzismo del Front lepenista – portando come una reliquia (internet non esigeva) un adesivo di SOS racisme e la manina nera stilizzata con scritto lo slogan: “Touche pas à mon pote!”. Ovvero: “Non toccare il mio amico!” (ovviamente di colore).

Buttò giù lo schizzo di un simbolo di forte impatto, con il profilo della testa di una ragazza di colore con alla base un blocco grafico rettangolare che conteneva una e nacque: “Nero e non solo”.

La grafica fui poi perfezionata da una agenzia di compagni di Bologna. L’associazione che era la più classica catena di trasmissione della politica, una intuizione di cui avrebbe dovuto essere orgoglioso, calata dall’alto e trasformata in una cosa vera.

Tuttavia capisco che oggi sia difficile spiegare al mondo che “il funzionario” di partito era un’arte nobilissima, e così l’aver mosso i primi passi in “un movimento” diventa un biglietto da visita più comprensibile agli elettori di questo secolo.

Invece Nicola era “un segretario” a tutto tondo, ed era un perfetto evangelista del verbo di quella FGCI che era un po’ rosso antico e un po’ arcobaleno, molto antimilitarista, molto terzomondista, molto antinuclearista (quante catene umane a Montalto di Castro!). E anche molto, molto ingraiana (nel senso di Pietro Ingrao).

Questo effetto a catena, tradotto nella mia vita di 16-17enne significava che un giorno Giulio Napolitano, nel cortile della nostra scuola, mi fermava per dirmi, con un certo tono perentorio: “Primo: tu devi fare la tessera nella Lega studenti e iscriverti qui, nella cellula del Visconti. Secondo: devi venire ad un attivo a via dei Frentani con Zingaretti”.

Via dei Frentani era allo stesso tempo la sede della federazione comunista, de L’Unità (dall’ingresso di via dei Taurini), di Paese sera e (più tardi) di Italia radio. Giulio Napolitano, ovviamente, era figlio di Giorgio, che già all’epoca era già da vent’anni uno dei dirigenti più importarti del partito, e nel cursus honorum che lo avrebbe portato al Quirinale era nemmeno a metà della sua strada, presidente del gruppo dei deputati comunisti alla Camera.

Ma tutta la Lega Studenti medi pullulava di figli eccellenti. Come ha ricordato Francesco Merlo su La Repubblica, Zingaretti aveva a che fare con ragazzi come Ignazio Vacca (figlio di Beppe, storico e direttore del Gramsci), che era il leaderino del Mariani, con Pietro Masina (figlio di Ettore, senatore della Sinistra indipendente), con figlio di Valentino Gerratana, prestigioso curatore dei quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci (il cofanetto che con questa forma albergava in ogni casa comunista, compresa la mia).

E poi c’era Umberto Gentiloni, che all’epoca non era noto per il legame parentale con Paolo (futuro premier, che era ancora “solo” un militante del Pdup impegnato in Legambiente) ma per essere figlio di Filippo, editorialista del Manifesto e uomo del dissenso cattolico.

La segretaria della federazione di Bologna della Lega studenti medi era la nipote di Natalia Ginzburg, Caterina (futura moglie di Mario Calabresi). Invece non erano figli di nessuno, ma avrebbero trovato la loro strada (anche in ambienti diversissimi) molti altri “giovani comunisti” di quella ultima generazione: penso ad un ragazzo di un circolo del Quartiere San Giovanni che si era ribattezzato con una certa civetteria pop “Woody Allen”. Si chiamava Diego Bianchi e sarebbe diventato famoso con il nome d’arte di “Zoro”.

Penso ad un futuro cantante folk che si chiamava Enrico Capuano e che all’epoca era il capo indiscusso dei giovani del Quarticciolo. Penso ad uno che sarebbe diventato il massimo dirigente di Sky Italia, Andrea Scrosati, che avevo iscritto proprio io nella mia scuola, e che era diventato un prediletto di Nicola, organizzatore di assemblee antimafia con Giovanni Falcone.

O a Carlotta Natoli, oggi celebre attrice di film e fiction. Penso ai tanti che sarebbero rimasti in politica, a partire da Stefania Pezzopane, Franco Giordano, segretario della Lega del lavoro (e futuro segretario di Rifondazione), a Lorenza Bonaccorsi (deputata renziana, oggi di nuovo rientrata all’ovile), o a qualcuno che in politica ci sarebbe tornato dopo una carriera accademica da storico (come Miguel Gotor o Roberto Gualtieri).

E penso ovviamente a Vendola. All’epoca Nichi abitava in una casetta affittata in periferia a Subaugusta e l’affitto divisa a metà con Giordano (gli stipendi dei giovani funzionari, compreso Nicola, superavano di poco il milione di lire).

Se Folena era gli occhi di quella Fgci, e Vendola ne era il cervello, Zingaretti ne fu il motore. C’era in quel mondo molto entusiasmo, molta improvvisazione culturale, ma anche improvvisazione felice, libertaria ed eterodossa. Vendola sarebbe stato arrestato (con mini scandalo) a Mosca per una manifestazione pro dissenso e a favore degli omosessuali (repressi dal partito-stato).

Folena avrebbe portato la Fgci a duellare con il partito contro il nucleare (i nemici prediletti erano i gemelli Borghini, dirigenti miglioristi e nuclearisti, uno finì craxiano), la stella del Komsomol di cui sopra venne riadattata con dei colorini fluo molto sbarazzini (azzurrino giallo e violetto!), e nei “Cip” di Cioffredi si sperimentavano “nuovo forme di dibattito” – in circolo, tenendosi per mano – che fecero storcere il naso agli ortodossi: “Sarà pure una bella novità – mi disse un compagno dei circoli territoriali – ma a me pare un po’ una froceria”.

Un giorno Nicola mi disse: “Ma tu hai già letto il Tallone di ferro di Jack London?”. Io avevo letto “Furore” di Steinbek, ma non il Tallone, la sera stessa lo avevo comprato a Rinascita uscendo dall’incontro nazionale della Lega studenti a Botteghe Oscure e la notte stessa l’avevo divorato, esattamente come avevo letto gli scritti corsari di Pierpaolo Pasolini perché me li aveva consigliato Vendola.

La nostra formazione allora funzionava così, per osmosi e contatto. Uscì “Futura”, la rivista nazionale della Fgci, impaginata come una rivista di stile d’avanguardia (“È confusa”, dicevano i militanti di base) dove Vendola firmava – suscitando scandalo – un articolo sui preservativi dove consigliava ai compagni di provarli masturbandosi con il cappuccio indossato (e a Cinecittà alcuni grandi del Pci dissero ai figiciotti: “Quelle riviste andatevele a prendere voi!”).

Questo per dire che Nicola ha una sovrastruttura moderna da amministratore e un cuore novecentesco e antico: era (ed è) l’ultimo esemplare di una gloriosa serie di “funzionari totali” che facevano di tutto: un po’ manager, un po’ allenatori di calcio, un po’ urbanisti, un po’ propagandisti, un po’ amministratori.

Per calarlo nel contesto: Zingaretti era un po’ Nicolini (l’assessore delle estati romane, che erano appena finite, con la sconfitta del 1985), un po’ Petroselli (l’indimenticato sindaco che aveva portato i servizi nelle borgate), un po’ Bettini (l’iperpolitico, l’inventore delle stagioni di governo degli anni novanta-duemila).

Dire che viene dai movimenti per me è quasi un insulto. Un giorno annunció la parola d’ordine “Torniamo nelle periferie!” (vedi i corsi e i ricorsi), e organizzò una festa di dieci giorni a Villa Lazzaroni (Appio Latino) che si chiamava “Gioventù amore e rabbia” in onore del film in bianco e nero degli anni sessanta (bellissimo) che chiudeva la serata. E che era un inno alla ribellione contro la società autoritaria e paternalistica.

Il sentimento di quella FGCI di allora, nei suoi quadri e nei suoi militanti, era tutta come quel film: radicale, utopista, e anche un po’ romantica. Anche un po’ scassapalle, come quei compagni del quartiere Montesacro che rifiutando tutte le forme precostituite arrivarono a contestare persino la dizione stessa di “Circolo” (troppo “elitaria”, secondo loro) per autoproclamarsi “Punto” (più essenziale e d’avanguardia, sempre secondo loro).

Da questa disputa nominale nacquero una nuova querelle onomastica e una sintesi iperpragmatica di Nicola: “Per me, se fate le tessere, potete anche chiamarvi Pippo!”. Quando parlava, con quella sua inconfondibile zeppola, Zingaretti non aveva un lessico immaginifico, ma un tono molto diretto, essenziale, quasi pedagogico.

Usava proprio quella interiezione – “badate!”, e la usa ancora oggi – che era una quintessenza pedagogica dei dirigenti di Botteghe Oscure. Era come dire: noi vigiliamo sulle vostre coscienze, come angeli custodi. Non c’era tempo per battute o giochi di parole, semmai citazioni di classici (della letteratura o del comunismo).

Nicola era un sorta di leader animatore totale: sempre sorridente anche quando era granitico, sempre coinvolgente, sempre presente. Io ogni giorno uscivo da scuola, prendevo il 492, andavo in Federazione e lo trovavo già li. Me ne andavo e lo lasciavo li. E almeno un fine settimana su due il segretario organizzava seminari e corsi di formazione, rigorosamente ad Ariccia o alle Frattocchie. E poi c’erano le manifestazioni, gli striscioni, gli attacchinaggi…

A Frattocchie Giulio Napolitano fece l’errore tragico di venire con le pantofole e la satira lo inseguì per giorni. Si dormiva nelle camerate della scuola, tra tresche furtive e veglie. Lezione sotto il quadro dei Garibaldini di Guttuso (tutti con la camicia rossa e le facce de dirigenti comunisti), lezione di storia con Maurice Diverger, lezione su Gramsci con Gerratana, lezione sull’antifascismo con Pietro Ingrao, lezione sulla letteratura italiana con Aldo Tortorella. Nell’anniversario della morte del Che, grande seminario alle Frattocchie con Giancarlo Pajetta.

Merlo ha raccontato su Repubblica la gaffe del vecchio dirigente che aveva incontrato Nicola e gli aveva detto:”Mi inviti alla manifestazione per il ventennale della scomparsa? Io l’ho incontrato, conosciuto e voglio parlarne ai più giovani!”.

La premessa è che Nicola era tornato da Cuba dove prima di partire aveva staccato letteralmente da un muro un bellissimo poster del Che, in bianco e nero, acquarellato, sorridente, lo aveva trasformato nel manifesto di quella giornata, indetta nell’anniversario della morte.

Aveva fatto mettere, dal solito tipografo che lo assisteva, i nomi dei relatori e l’appuramento in una riga basso, cosicché il manifesto si poteva tagliare e incorniciare mantenendo integro il sacro volto del Che.

I manifesti che sostavano sotto le scale di via dei Frentani erano una sorta di Auditel. Quello del Che andava letteralmente a ruba e Nicola diceva: “Non accaparrateli! Attaccateli!” (Inutile: finirono in tutte le camerette figicciotte, compresa la mia).

Arrivò infine il giorno del seminario, Nicola fece una introduzione che fece venire a tutti voglia di andare a fare la rivoluzione a Cuba, o in Nicaragua, doveva quella stessa Fgci aveva messo in piedi un progetto di solidarietà (il logo lo aveva chiesto ad Ellekappa, era una bellissima bambina che faceva una pernacchia) che si chiamava: “Nicaragua una speranza giovane” (e con la raccolta fondi si finanziava questa scuola, aperta dai sandinisti).

Era ovviamente (anche) una Fgci molto terzomondista, si lanciavano ingiurie contro i contras e contro “quel fascista Reagan”, ci si scambiano i dischi degli Inti-illimani, sostenevamo ovviamente i palestinesi, e quindi immaginate il silenzio plumbeo quando prese la parola il compagno Pajetta, già comandante partigiano “Nullo”, per dire: “Incontrai Guevara in un albergo di Roma. Era prima che partisse in Africa, non ho capito bene a fare cosa. Era malvestito, trasandato, e mi parve il tipico estremista che sogna la rivoluzione per inseguire l’avventura”.

Una scomunica totale. Il silenzio divenne tombale. Pajetta, salendo con il tono di voce disse: “Era davvero un avventuriero. Chiedetevi: Come mai è finito a morire proprio in Uruguay?”. Una voce si levò dal fondo: “Ma infatti era in Bolivia!”.

Il malcapitato fu incenerito da uno sguardo eloquente, e insieme preoccupato, di Zingaretti. Pajetta fece finta di non sentire e non ci fu nessuna contestazione. La giornata finì con una strana sensazione, ed un dibattito fittissimo che si trascinò nei giorni come una bava di lumaca.

Tuttavia Nicola era coriaceo e duro, e sapeva usare anche il pugno di ferro. Accadde quando convocò tutti gli iscritti nel teatro di via dei Frentani per votare l’adesione (prima della caduta del muro) all’internazionale socialista.

La decisione fu sostenuta dal segretario con così tanta forza (“Badate, compagni, il socialismo Europeo è la nostra famiglia ideale….”) che i famosi compagni della Settima circoscrizione, popolari e anche un po’ filosovietici, organizzarono una plateale scissione.

Abbandonarono la sala il fila cantando in coro l’Internazionale, come i comunisti del 1921, mentre Nicola annunciava i voti favorevoli alla mozione. Rimanemmo di stucco. Il giovane Zingaretti rimase impassibile, e fini la conta concludendo: “Bene compagni. La mozione è stata approvata”.

Io quel giorno mi commossi fino alla lacrime, perché abitavo a Cinecittà, molto vicino al Quarticciolo, e amavo quella Fgci popolare, ero amico di alcuni degli scissionisti. Ma ero comunque con il segretario, perché eravamo in un partito.

Ironia della sorte, pochi anni dopo Zingaretti divenne il primo segretario italiano della Iusi, esperienza che due giorni fa gli ha permesso di dichiarare a La Stampa, con una qualcerta spavalderia: “Prima del lavoro da amministratore nel Lazio ho lavorato con Peres, pranzato con Mandela, visitato Clinton alla Casa Bianca e bevuto cerveza (troppa) con González. Alcuni miei colleghi – il riferimento di Nicola è chiaro, ma elegantemente non viene citato per nome – ci avrebbero scritto sopra, non un libro ma un’enciclopedia”. Vero.

Un giorno Nicola venne da me e mi disse: “Luca, devi scrivere assolutamente un articolo per il primo numero delle ‘Belle Bandiere’! ”. Conoscevo, ovviamente, la citazione pasoliniana, ma non la rivista, mai sentita prima. E lui, con il solito sorriso sornione: “Per forza, ho appena registrato la testata! Sarà il giornale dei giovani comunisti romano”.

Se ne era inventata un’altra e per l’occasione divenne anche direttore: distribuiva i pezzi come incarichi politici da adempiere con scrupolo. Ci misi un pomeriggio intero, consegnai l’articolo e (se si esclude ul giornalino di liceo che avevamo fondato al Visconti, molto amatoriale e ciclostilato), è quello il primo pezzo della mia vita.

Mi telefonò a casa per dirmi: “È arrivato il primo numero!”. Corsi in federazione a prendere le copie nel solito sottoscala: i mazzi delle riviste, divise da Nicola, avevano delle fascette con i nomi di chi prendeva in carico la tiratura, e con gli obiettivi di vendita della diffusione.

Nicola aveva cinque anni più di me, che a quell’età sono moltissimi, per i ragazzi della mia generazione era più che un fratello maggiore. Aveva un carisma particolare: è un osservatore di dettagli e (non so come, e una sua dote) sapeva sempre cosa aspettarsi sale persone, me compreso.

Per cinque anni vidi più lui di mio padre e mia madre, che peraltro lo conosceva, e lo considerava anche lei un dirigente-precettore: “Lo porti di nuovo a Frattocchie? Bene!”. Nicola aveva un’altra arma segreta che gli è rimasta nella faretra: la simpatia.

Sorrideva, sgranava gli occhi, metteva a posto una bega apparentemente inconciliabile. In quegli anni l’ho seguito come un pifferaio, e se ricordo degli scontri è solo per piccole questioni di retrobottega che all’epoca mi sembravano enormi, come il numero dei delegati per il XXVII congresso della FGCI di Bologna.

Il nostro Visconti aveva più iscritti del Mamiani, e lui (“Per non umiliare i compagni”) malgrado questo sorpasso che avevamo operato nella “campagna di tesseramento” (non c’era la piattaforma Rousseau, in federazione si dovevano consegnare i tagliandomi controfirmati) mi propose di accettare un delegato in meno, e un “invitato” in più (l’invitato non aveva diritto di voto).

Per ripicca accettai la mediazione suggerita da Nicola (“I compagni mi chiedono se…”), ma presi io la delega di serie B da “invitato” pur di mandare un altro al mio posto. Alla fine dell’anno Giulio Napolitano uscì da scuola e Nicola lo piazzò, per via di non so quali imperscrutabili disegni, a rispondere ad un “numero amico” che aveva creato per gli studenti delle superiori.

Era il figlio del popolo, con il diploma da odontotecnico (che idiozia la polemica di Mario Adinolfi!), che grazie alla formazione di Bettini poteva educare – anche – i figli dei grandi borghesi. Era un mondo diverso, dove il partito era una carriera che cambiava le vite, e i dirigenti decidevano le carriere soppesando storie, qualità umane, persino la stabilità delle relazioni sentimentali.

Luca Fornari, messo a dirigere una etichetta discografica alternativa, denominata non so per via di quale gioco di sigle “Anagrumba”, scovò in questo canale gli Almamegretta e finì a fare il discografico.

Giulio Napolitano lascio dopo qualche mese il “telefono amico” e fece la folgorante carriera universitaria che (da fuoriclasse quale era) lo aspettava come una fatalità. Quanto alla mia breve “storia politica” e al mio rapporto quotidiano con Nicola, finirono con la caduta del muro di Berlino.

Io ero indignato per le improvvisazioni di Achille Occhetto (avevo 18 anni), e mi chiedevo come la Fgci del “Nuovo comunismo” potesse accettare una svolta che rischiava di gettare il bambino con l’acqua sporca (cosa che purtroppo accadde).

Zingaretti e Bettini, pur molto scettici anche loro sull’Occhettismo, mi spiegarono perché era un passaggio da percorrere, sia pure senza furia distruttiva e senza abiure. Mi convocarono in una stanza di via dei Frentani e parlammo di questo.

Io la sera prima mi ero riletto proprio il Galileo di Brecht, e avevo in mente i versi messi in bocca dal grande drammaturgo al maestro, quando parla al suo discepolo: “Ricordati! Dopo l’abiura, solo una genìa di gnomi inventivi”.

Era un altro tempo, un altro mondo. Però l’epilogo fu buffo, perché Nicola con la sua faccia sorridente ad un certo punto sbottò e mi disse: “Luca, ma ti sei un dirigente nazionale di questa organizzazione!”. E io: “E allora?”. Lui: “Io ti voglio spostare agli Uccitti, perché Enzo Foschi sta per lasciare e tu potresti diventarne il segretario!”. Io: “E allora? Cosa c’entra con la Svolta?”.

Nicola mi ripose, sia spazientito che divertito: “Ma tu ti rendi conto che stai ripetendomi le stesse argomentazioni che ogni giorno mi dice mia madre!? Mia madre!”. Era vero: mamma Zingaretti, comunista di popolo della Magliana, nei mesi successivi sarebbe diventata una animatrice della mozione Ingrao, quella del No alla Svolta.

Lo guardai e gli dissi: “Nicola, devi prendere in considerazione l’idea che, fra tua madre e Occhetto, io mi fido molto più di tua madre” (non penso di essermi sbagliato). Scelsi di non partecipare – con dolore – al congresso di scioglimento della FGCI nella sinistra giovanile.

Il leader nazionale del No fu Vendola (che si separò dall’amico fraterno) e quello romano il famoso Stefano Ciccone, il militante nonviolento che era finito nella fontana dopo lo scontro con i Volsci.

Si rompevano le amicizie, le famiglie, stava finendo il Secolo breve. Io in quel 1989 iniziai a fare il giornalista a Il Messaggero, non ho mai avuto nostalgia per la politica perché in cinque anni ne avevo fatta troppa. E Nicola ha iniziava la sua carriera da leader di prima fila attraversando con il suo sorriso intatto le mille battaglie che lo attendevano dopo la Bolognina.

In queste ore ho pensato molto al giovane Zingaretti, magro e con i capelli ricci, che girava con il maggiolone rosso: mi sono convinto che il popolo della sinistra ha riconosciuto epidermicamente in lui non la vocazione di un altro brillante venditore di pentole, ma la passione artigiana e concreta del funzionario che sa riconoscere i talenti, mettere in condizione di brillare, e far correre quelli che davvero possono vincere.

Leggi anche: Cronaca di una vittoria a bassa voce: ecco come Zingaretti è riuscito a diventare il nuovo segretario del PD

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