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Home » News

Un mese in mare con gli italiani che salvano i migranti

Immagine di copertina

Il reportage di Giulio Gambino a bordo di una nave da guerra della Marina militare italiana per documentare il soccorso dei migranti al largo della Libia

Ho incontrato Oses per la prima volta alle 10 e 59 del mattino di domenica 27 settembre 2015. Le coordinate in mare segnavano 33° 20.2’N 13° 44.8’E, un punto minuscolo nel mar Libico, 31 miglia al largo della Libia.

Era a bordo di un gommone lungo 12 metri quasi del tutto sgonfio che imbarcava velocemente acqua da poppa. Insieme a lui c’erano altre 120 persone. Indossava un paio di pantaloncini corti e una maglietta a maniche lunghe. Era scalzo e sulla testa portava un cappellino di lana di colore bianco. Nient’altro.
Mi ha visto arrivare insieme ad altre tre persone su un gommone utilizzato per le operazioni di soccorso dal Cigala Fulgosi, una nave da guerra della Marina militare italiana. Secondo gli uomini della Marina, due ore più tardi il gommone di Oses sarebbe affondato.

In quell’area di mar libico, in quel momento, c’eravamo soltanto noi e i migranti. Erano le 11 del mattino ed era il terzo soccorso della giornata. Sei ore prima, tra le 5 e le 5.30 di notte, l’ufficiale di guardia in plancia aveva avvistato qualcosa sul radar. Noi sapevamo che a breve avremmo raggiunto e incontrato qualcosa. Loro, Oses e gli altri migranti, invece non avevano nemmeno idea se qualcuno fosse arrivato o meno. Il mare era calmo.
Quando da una nave come il Cigala Fulgosi lunga 90 metri, alta 10 e pesante oltre mille tonnellate sono sceso in mare aperto con un gommone da sei metri, ero preoccupato: il fatto è che ti calano giù con una gru lungo uno dei due fianchi della nave, e per un po’ non vedi altro che un grande muro di ferro che gradualmente diventa sempre più alto. Poi arrivi giù e qualche secondo più tardi ti ritrovi nel mezzo del nulla.
Se chiudi gli occhi per un momento e provi a immaginare le sensazioni di chi è costretto a passare ore o giorni stipato in una piccola imbarcazione adibita per dieci persone ma che ne ospita quasi duecento ti rendi conto di quanto le onde possano essere fatali per un barcone di migranti. Quando sei in mare aperto su un gommone non c’è nulla al tuo fianco, nulla a cui potersi aggrappare: il primo pensiero è quello di esserti perso e di non avere alcuna speranza di salvezza.
Per raggiungere il gommone di Oses abbiamo impiegato poco meno di un minuto. La nostra nave era praticamente ferma a 500 metri di distanza. Sotto molti aspetti quel momento è del tutto surreale: un gruppo di sconosciuti incontra un altro gruppo di sconosciuti in mezzo al mare.
In un momento come questo gli sguardi giocano gran parte della comunicazione che intercorre tra salvati e salvatori: sguardi intimoriti, stanchi, alla ricerca di un’intesa qualunque.
I migranti si agitano. Urlano parole poco comprensibili. Si alzano in piedi, si sbracciano, si sporgono verso il mare. Hanno il terrore di morire stampato in faccia. Vogliono essere tratti in salvo, possibilmente prima dei loro compagni.

Foto di Michelangelo Mignosa

Un minuto in mare in condizioni simili passa lento. Il problema principale è che un gommone con a bordo oltre 100 migranti è in balia di se stesso. Non è controllabile. Lo spazio entro il quale queste persone sono contenute è angusto.

Le donne, anche se incinte, sono posizionate al centro e rischiano di essere calpestate o di morire soffocate. La maggior parte degli uomini non concepisce che sia giusto far passare prima loro e i bambini.

Non esiste gerarchia su un’imbarcazione piena di persone provenienti da Paesi, etnie e religioni differenti. Non c’è spazio per esercitare alcun tipo di autorità. Non c’è un leader e, anche qualora ci fosse, non sarebbe in grado di farsi valere perché se uno urla, un altro urla di più; se uno strattona il vicino, l’altro combatte ferocemente con il suo compagno per afferrare i primi giubbotti salvagente che vengono lanciati ai migranti durante le operazioni di soccorso.

Soccorso ai migranti Credit: Giulio Gambino; Montaggio: Luca Muzi

Il nostromo Fabio Capizzi, taciturno, 37 anni di cui 16 in Marina, quella mattina guidava le operazioni di soccorso dalla punta della prua del nostro gommone, in bilico come un equilibrista. Indossava la muta – pronto a tuffarsi nel caso in cui qualcuno fosse finito in acqua -, portava una bandana in testa e un coltellino sul fianco della caviglia quasi fosse un pirata. Il suo è il compito più delicato perché è il primo a entrare in contatto con i migranti.

Foto di Michelangelo Mignosa

Il rapporto tra salvati e salvatori in mare è complesso, e solamente quando i primi capiscono che i secondi non vogliono fare loro del male si tranquillizzano. Hanno paura di essere ributtati in mare come merce avariata o di essere riportarti in Libia.

C’è un momento preciso in cui i migranti capiscono che la loro vita non è più in pericolo. È la transizione tra la sofferenza, l’incertezza più assoluta e la visione della mano di un uomo rivestita di un guanto protettivo in lattice: il trasbordo tra quel maledetto barcone per cui hanno pagato migliaia di euro pur di scappare e un altro gommone pronto a salvarli.

Questo attimo per Oses è arrivato quando è stato finalmente trasferito sul nostro gommone, alle 10.59 di mattina di domenica 27 settembre. In quel momento terminava il suo viaggio della morte e ne iniziava un altro.
Oses ha 13 anni e viene dalla città di Benin, nel sud della Nigeria. Gli piace il calcio, tifa Real Madrid e il suo giocatore preferito è Cristiano Ronaldo. Parla inglese e vuole studiare ingegneria meccanica in Italia, oppure in Germania.
I genitori non ce li ha più e quella che lui chiama la sua nuova famiglia gli ha dato i soldi per intraprendere la traversata del Mediterraneo, completamente da solo. Ha attraversato il Niger e il deserto libico, poi ha raggiunto la costa settentrionale della Libia, dove ha comprato il suo posto a bordo del gommone con cui è scappato. Ha dormito insieme ad alcuni compagni di viaggio finché è arrivato il giorno della partenza, quando il mare finalmente era calmo. Così è stato scaraventato in fretta sul suo gommone ed è salpato.

Foto di Michelangelo Mignosa

Quando i migranti intraprendono il viaggio della speranza via mare, spesso con loro hanno una bussola e un satellitare. La prima serve a mantenere la rotta: “Mantieni direzione a nord e continua così”. Il secondo per lanciare l’allarme e segnalare la propria posizione, visto che il telefono cellulare non riceve segnale al largo delle coste. I numeri di telefono della salvezza sono già memorizzati sul loro satellitare oppure, a volte, sono scritti sulle pareti all’interno del battello.

Sono numeri che circolano moltissimo fra i trafficanti di persone e fra i migranti stessi. Quello di Abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo emigrato in Italia e presidente dell’agenzia Habeshia, lo conoscono quasi tutti. Lo chiamano a qualsiasi ora e indicano la loro posizione in mare. Lui prova a calmarli e gira subito il messaggio alla centrale operativa della Marina per far partire i soccorsi.

Foto di Michelangelo Mignosa

La notte prima del soccorso ai migranti il mare era piatto, ma il cielo nuvoloso. Alle 4 di mattino la nostra nave era quasi completamente avvolta nella calda, umida foschia libica. La terra si vedeva bene. Le luci più fitte che filtravano da terra indicavano che eravamo vicino a un grande centro: era Tripoli, la capitale. Poco più al largo si intravedevano le piattaforme petrolifere.

Valerio Guidi, 34 anni, mi aveva avvertito che il giorno dopo, probabilmente, ci sarebbero stati migranti in mare. È tra i più giovani in Marina a capo della centrale operativa di combattimento (C.O.C.), che è il cervello e la mente della nave nonché ciò che distingue una nave normale da una da guerra.
Valerio, nato e cresciuto a Roma, deve al suo amico d’infanzia Gianluca la fortuna di avergli fatto incontrare quelle che negli anni sono diventate le passioni della sua vita: sua moglie Maria Pia e la Marina militare.
Di fianco a Valerio in C.O.C. siede Vanessa Paratore, 29 anni, della provincia di Messina e figlia di un pescatore che, come lei,
passa gran parte del suo tempo in mare. Vanessa mi ha raccontato che vuole chiamare sua figlia Zuwarah perché ha visto così tante volte, sugli schermi dei radar, il nome della cittadina libica da dove partono i migranti che per lei è diventato in qualche modo speciale.
Dovevamo muoverci, da occidente a oriente e viceversa, lungo un asse orizzontale posto strategicamente in mezzo a un triangolo immaginario che aveva come vertice estremo Lampedusa e alle sue basi le città libiche di Zuwarah e di Tripoli. Entrambe sono sulla costa occidentale della Libia, e il porto di Zuwarah non è lontano dal confine con la Tunisia.

Poco prima delle 6 del mattino, quando parte dell’equipaggio della nave ancora dormiva, una voce annunciava: “Rapporto di situazione all’equipaggio: l’unità procede verso due gommoni di migranti. Stiamo investigando i contatti. Prepararsi ad assumere ruolo Controllo Flussi Migratori (CFM). Sveglia generale”. Era una voce tenue. Era quella di Giovanni Tuli, il Comandante in Seconda.
Il Secondo, così come viene più comunemente chiamato il vice Comandante a bordo delle navi militari, ha 34 anni, è alto, moro, occhi chiari e un fisico longilineo. È particolarmente ammodo e il suo sguardo trasmette sempre un senso di fiducia. Anche lui è di Roma e al liceo era in classe con Valerio Guidi, il capo della C.O.C.
L’avvistamento di un barcone è lento e graduale. Inizi a scrutare un puntino in lontananza non prima di cinque miglia. Non senti voci né distingui se sia un battello o un gommone. Poi, sempre più grande e nitido, vedi un canotto carico di persone. La velocità della nave passa da sostenuta a molto lenta.

Foto di Michelangelo Mignosa

Le persone che nel 2015 hanno attraversato il Mediterraneo come Oses sono state quasi 900mila. Oltre 3.500 hanno perso la vita. L’84 per cento proviene da Paesi che detengono il maggior numero di rifugiati, tra cui Siria, Afghanistan, Iraq, Eritrea, Pakistan, Nigeria, Somalia, Sudan, Gambia e Mali. Il flusso migratorio via mare è cominciato nei primi anni Duemila ed è incrementato drasticamente nel 2014, quando solo in quell’anno sono stati soccorsi in mare dalla Marina italiana circa 156mila migranti (nei nove anni precedenti la cifra annuale non aveva mai sorpassato le 12mila persone).

Il gommone di Oses che ho incrociato nel mar libico è stato tratto in salvo da Fabio, Antonio, Vanessa, Luigi e altre 82 persone. Sono i nomi di alcuni dei marinai della Marina italiana che, da gennaio a ottobre 2015, ha tratto in salvo 30mila migranti nel canale di Sicilia. Solamente l’equipaggio di nave Cigala Fulgosi ha salvato la vita di circa 2.500 persone tra l’11 agosto e il 3 ottobre 2015.

Vedere insieme queste due figure umane – i marinai e i migranti – mi è piaciuto. Per questo ho voluto documentare la loro interazione. In mare sono gli uni e gli altri, senza nessun altro che in quel preciso momento, nella transizione dalla sofferenza al salvataggio, possa influire in alcun modo: l’umanità al suo meglio in azione.

Ho passato quasi un mese imbarcato in mare con la Marina, dal 31 agosto al 4 di ottobre, con otto giorni a terra nel mezzo. La prima volta mi sono imbarcato su nave Driade. Poi su nave Cigala Fulgosi. Il Driade è una corvetta, mentre il Cigala è un pattugliatore. La seconda è di concezione molto più nuova e ha anche l’hangar sul ponte di volo, dove è parcheggiato l’elicottero.

Foto di Michelangelo Mignosa

LA VITA A BORDO DI UNA NAVE DA GUERRA
La vita a bordo di una nave da guerra della Marina è particolare e curiosa, ma regolare, precisa, con tempi scanditi. La nave non dorme mai e si naviga ventiquattro ore su ventiquattro. Tutto è estremamente sincronizzato.
Al tramonto ogni sera c’è l’ammaina bandiera, preceduta dalla preghiera del marinaio. Immediatamente dopo, la nave viene oscurata. Ogni notte, a mezzanotte, c’è la pizza per chi “monta” di guardia a quell’ora. Così per ogni giorno in mare.
Sotto molti aspetti, la vita in Marina è una vita di devozione. Quello del marinaio è un lavoro tosto. In media si passa in mare un periodo che oscilla tra i 15 e i 20 giorni ogni mese. Con la testa non si stacca mai.
Il rapporto dell’uomo con il mare è strettamente intimo e personale, mai del tutto dichiarato. Ciascuno lo vive a modo proprio. Eppure queste persone – per quanto differenti fra loro – in qualche modo hanno compiuto tutte quante una scelta comune: passare diversi anni della propria vita in mare.

Foto di Michelangelo Mignosa

Se non sei tagliato per vivere a lungo su una nave, il mare ti emargina. Nonostante ci sia la connessione satellitare e un parziale accesso alla rete internet, non è sempre scontato riuscire a mantenere contatti regolari con i propri familiari. In molti casi, la nave per i marinai è come una seconda famiglia.

Il mare è un posto strano: ci sono regole di navigazione precise da rispettare, ma è anche vero che una volta lì fuori, da un momento all’altro, quelle stesse leggi possono essere compromesse.
La notte è splendida: il cielo completamente stellato avvolge la nave in navigazione. Dove il rumore del radar e dei motori non è così forte, c’è un silenzio quasi tetro.

Foto di Michelangelo Mignosa

Il Cigala Fulgosi ha un cannone a prora, che è come si chiama la prua di una grande imbarcazione, e due mitragliere. Tutto ciò che naviga intorno a una nave da guerra è un contatto, o un bersaglio.

A bordo ogni cosa ha un suo nome. La stanza dove si mangia si chiama quadrato, e ce n’è uno per gli ufficiali, uno per i sottufficiali e uno per il resto dell’equipaggio. Il posto dove dormiamo si chiama camerino. Dritta significa destra. Sinistra si dice sinistra. Buongiorno, buona notte e buon appetito si dice semplicemente “buona”. Molti marinai, per dire sì, dicono affermativo.
Quello della Marina è un ambiente prevalentemente maschile: non maschilista e non necessariamente conservatore, ma maschile. Tutto o quasi si declina al maschile: il Cigala Fulgosi, non la Cigala Fulgosi. Questo fattore non impedisce tuttavia alle donne di fare carriera e nel corso degli ultimi anni ce ne sono state alcune che hanno ottenuto posizioni di comando. La loro presenza a bordo favorisce un ambiente migliore rispetto a uno in cui l’equipaggio è composto da soli uomini.
La vita vissuta a bordo è un po’ come quella di un piccolo villaggio di paese in costante movimento. Una voce che parte da prora impiega poco meno di tre minuti a fare il giro di tutta la nave e arrivare all’estremo opposto. Con il risultato che poco o nulla è quasi mai davvero affidabile, proprio perché tutto viene amplificato. La chiamano Radio Prora.

Foto di Michelangelo Mignosa

Giuseppe Sanzaro, 54 anni di Augusta, è il segretario del Comandante e il Capo Nucleo Coordinamento. Tutto passa attraverso le sue mani e conosce l’equipaggio come pochi altri. Dal primo giorno mi ha guidato tra i corridoi della nave mostrandomi quella che sembrava essere casa sua, introducendomi nella vita quotidiana di questa grande famiglia non sempre facilmente penetrabile.

In plancia, che è dove si governa la nave, c’è sempre Simone Catania, 26 anni di cui gli ultimi due e mezzo passati sul Cigala Fulgosi come Capo Componente Telecomunicazioni e Radar. Con lui ho condiviso il camerino: è uno fra i più operativi, tra i primi a svegliarsi e fra gli ultimi ad andare a dormire.
È molto giovane rispetto alla maggior parte dell’equipaggio e ha meno esperienza, ma questo non gli impedisce di dettare i tempi a tutta la nave e di scandire i ritmi della truppa con disinvoltura. È figlio di un ufficiale della Marina e forse anche per questo ha una passione devota per il mare e per la disciplina.
Della sua stessa generazione è Antonio Miggiano, 30 anni, pugliese, Capo Componente Armi. È alto circa un metro e ottanta centimetri, pesa 90 chilogrammi ed è una roccia: non lo smuovi. La sua fisionomia mi ricorda il motto del Cigala Fulgosi: Virtutis Fortuna Comes.

Tutti fanno capo al Comandante, il Capitano di Fregata Massimo Tozzi, 44 anni, idrografo, nato a Perugia e un modo tutto suo di tenere la nave: lascia fare i suoi uomini senza mai perdere il controllo. È un esperto conoscitore di vini ed è preparato su quasi ogni argomento. Al Comandante viene tributato un rispetto che è quasi sacro.

Chi fa in modo che la nave si muova è Luigi Mazza, 46 anni, di Alcamo in provincia di Trapani, una moglie e due figlie che lo aspettano a Carlentini, vicino Siracusa. Conosce i due motori di propulsione e i tre generatori diesel come le sue tasche, e sa sempre perché la nave si trova in un modo o nell’altro.
In cucina invece passa gran parte del suo tempo Sebastiano Grienti, 42 anni, fine fumatore di sigari e gestore mensa del Cigala Fulgosi. Sono dieci anni che naviga e quando sua figlia più piccola finirà la scuola ha deciso che insieme apriranno un ristorante ad Avola, a venti chilometri da Siracusa.
A poppa invece trovi sempre Luigi Perretta, capo hangar, 46 anni di cui 25 passati in Marina. È un uomo alto e grosso con un marcato accento napoletano. A volte sembra quasi aggressivo, ma dietro il suo modo di fare un po’ burbero si nasconde una forte sensibilità. Perry, così come viene chiamato da mezzo equipaggio, ha la responsabilità di tutto quello che accade ai migranti dal momento del soccorso in mare fino al loro sbarco.
Anche se non gli è dovuto, passa moltissimo tempo con i bambini, le donne e gli uomini tratti in salvo. Li fa ballare, scherza con loro, ride e porta i giocattoli ai più piccoli. Quando a inizio settembre 2015 circolarono in rete alcune foto di bambini migranti morti, lui decise di scrivere una mail alla moglie, non sempre contenta delle sue assenze prolungate da casa, dicendo che quelle immagini lo spingevano ancora di più a imbarcarsi per salvare vite umane.

Foto di Michelangelo Mignosa

L’accoglienza dei migranti a bordo dopo un salvataggio prevede un protocollo preciso da seguire. Tutte le persone impiegate nel soccorso devono indossare una tuta protettiva di colore bianco, un paio di guanti, una mascherina e delle suole protettive. Sono misure di prevenzione volte a evitare il contagio con malattie che i migranti potrebbero aver contratto. Questa routine viene ripetuta sia a bordo che durante lo sbarco in un porto italiano stabilito dal ministero degli Interni, solitamente in Sicilia o in Sardegna, in Campania, in Calabria e in Puglia.

Il sottotenente di vascello Lorenzo Maria Di Giacomo, un chirurgo ortopedico di 34 anni, è stato richiamato in servizio per guidare lo staff sanitario sul Cigala Fulgosi. Al suo fianco c’era il sergente medico della Croce Rossa Mauro Ongari, chirurgo generale, sposato con tre figli. Nel giorno in cui abbiamo soccorso i migranti, Lorenzo ha dovuto operare una ragazza di 19 anni sul ponte di volo per una brutta ferita all’inguine.
Il tiratore scelto anfibio della Brigata Marina San Marco Amedeo Lanzillotti – 35 anni, cacciatore per passione, un proiettile appeso alla collana che porta intorno al collo e un periodo da militare in Iraq e Afghanistan – ha una teoria interessante sul flusso di migranti nel Mediterraneo degli ultimi anni: sostiene che proprio come gli uccelli migratori lasciano i Paesi europei ad autunno per svernare verso quelli più caldi nel nord Africa, anche gli esseri umani oggi scappano da condizioni sfavorevoli compiendo il viaggio della speranza nella direzione opposta.
In definitiva, noi italiani dovremmo essere fieri del lavoro degli uomini della Marina e di quello che il nostro Paese sta facendo per i migranti. Tuttavia secondo padre Abba Mussie Zerai, il sacerdote eritreo che riceve le chiamate dai migranti in mezzo al mare, l’impegno dei governi europei non è sufficiente: è necessario risolvere il problema che ha costretto queste persone a fuggire, proteggerle nei Paesi di transito e aprire canali legali di accesso per richiedenti asilo in Europa.

CHI FA COSA NEL MEDITERRANEO

Dati aggiornati a ottobre 2015, sono almeno quattro le missioni in funzione attualmente nel mar Mediterraneo: Mare Sicuro, Vi.Pe., Eunavformed e Triton. La Marina ha stimato che i suoi uomini dispiegati in mare ogni giorno oscillino tra i 1.000 e i 1.500.
Mare Sicuro è entrata in vigore nel marzo del 2015 per sorvegliare un’area di circa 160mila chilometri quadrati nel Mediterraneo centrale al largo delle coste libiche, dove sono presenti diverse piattaforme petrolifere, e garantire la sicurezza marittima. L’operazione vede l’impiego integrato di assetti della Marina militare e dell’Aeronautica. Questa missione è l’equivalente di quanto viene fatto sul territorio nazionale dalle Forze armate con Strade Sicure.
Vi.Pe. significa Vigilanza Pesca e ha l’obiettivo di assicurare che i pescherecci italiani non entrino nella cosiddetta area del Mammellone, al largo della Tunisia, chiamata così perché ha la forma di una grande mammella.
Eunavformed è una missione dell’Ue che ha il fine di combattere i trafficanti di esseri umani affondando le loro imbarcazioni.
Triton è una missione gestita da Frontex, l’agenzia dell’Unione europea il cui scopo è il coordinamento del pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli stati membri e l’implementazione di accordi con i Paesi confinanti con l’Ue per la riammissione dei migranti extracomunitari respinti lungo le frontiere.

LA PREGHIERA DEL MARINAIO

A Te, o grande eterno Iddio,
Signore del cielo e dell’abisso,
cui obbediscono i venti e le onde, noi,
uomini di mare e di guerra,Ufficiali e Marinai d’Italia,
da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori.
Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione.
Dà giusta gloria e potenza alla nostra bandiera,
comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei;
poni sul nemico il terrore di lei;
fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro,
più forti del ferro che cinge questa nave,
a lei per sempre dona vittoria.
Benedici , o Signore, le nostre case lontane, le care genti.
Benedici nella cadente notte il riposo del popolo,
benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare.
Benedici!

  • Tutte le Foto Michelangelo Mignosa
  • Qui sotto:“La missione raccontata con un video di 3 minuti” Credit: Michelangelo Mignosa
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