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Quali sono i veri obiettivi della missione militare italiana in Niger

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L’approvazione da parte dell’Italia di una missione in Niger ha come chiaro obiettivo strategico il controllo dei flussi migratori e la complessa stabilizzazione della Libia. L'analisi di Arturo Varvelli per Ispi

L’approvazione da parte dell’Italia di una missione in Niger ha come chiaro obiettivo strategico il controllo dei flussi migratori e la complessa stabilizzazione della Libia.

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L’Italia non ha particolari interessi in Niger o nel Sahel, da sempre area assai più rilevante per la Francia.

Tuttavia vi è l’esigenza di lavorare per promuovere i nostri interessi in uno scenario di sicurezza caratterizzato da minacce asimmetriche, dall’esposizione al rischio terroristico e all’emergenza migratoria, tutte questioni che chiaramente travalicano la dimensione delle frontiere fisiche.

Agire in Niger, e in particolare al confine con la Libia, potrebbe risolvere diversi problemi per l’Italia.

Il primo, e più importante, è che potrebbe evitare all’Italia di collocare truppe nel sud della Libia, ipotesi emersa negli scorsi mesi. Il Fezzan è un’area profondamente insicura, che versa in una situazione di semi-anarchia, ed è preda di diverse fazioni.

Insomma, l’impiego di militari italiani in Niger è una sorta di escamotage, un modo indiretto per garantire un controllo sul traffico di esseri umani nel sud della Libia, evitando di mettere gli scarponi in quel territorio che è sicuramente più insicuro e pericoloso del Niger.

Se infatti a Niamey, capitale del Niger, c’è un governo che, per quanto molto debole, può fare da interlocutore, in quell’area della Libia lo stesso punto di riferimento, a oggi, manca, in attesa che il governo di unità voluto dalle Nazioni Unite in Libia si rafforzi e possa garantirne qualche forma di controllo.

La missione sembra rispondere a logiche di collaborazione competitiva all’interno della Ue, in particolare tra Francia e Italia sulla questione dei migranti.

I due paesi, dopo essersi alternati per buona parte del 2017 in iniziative concorrenziali sulla Libia e sulla questione dei migranti (come non ricordare l’improvvisato vertice tra Serraj e Haftar a Parigi a fine luglio) hanno probabilmente trovato un’intesa più ampia che è stata poi messa al centro del vertice di Abidjan, in Costa d’Avorio, tra l’Unione europea e l’Unione africana a novembre.

In particolare il summit ha stabilito la costituzione di una task force congiunta tra le due istituzioni e l’Onu per proteggere i migranti lungo le rotte della tratta e in Libia per favorire i rimpatri nei paesi di provenienza.

L’accordo tra UE e Unione africana prevede iniziative sino al 2022 con lo scopo di promuovere lo sviluppo nell’area attraverso importanti investimenti economici. Inoltre, relativamente alla parte sui migranti, è attuato d’intesa con le autorità libiche e comprende anche il ricollocamento di chi ha diritto all’asilo.

Poco prima di Natale l’Unhcr ha infatti completato l’evacuazione dalla Libia all’Italia di 162 richiedenti asilo “altamente vulnerabili”, come minori non accompagnati e donne tenute prigioniere per lungo tempo, attuando di fatto il primo corridoio umanitario dalla Libia verso l’Europa.

Nel corso dell’ultimo periodo, la Libia si è trasformata in una sorta di paese “cuscinetto”. Diversi accordi presi con le autorità di Tripoli hanno mirato al rafforzamento dei controlli della frontiera marittima da parte della Libia ed esternalizzato parte delle responsabilità nella riduzione della pressione migratoria.

Emmanuel Macron aveva annunciato la creazione di centri di accoglienza per i rifugiati in Libia, ma è stata l’Italia la più attiva nel tentare di arginare i flussi.

Il governo italiano ha agito nel corso del 2017 in accordo con il governo libico su diversi fronti, dalla facilitazione di accordi locali nel sud del paese, dove i proventi dei traffici costituiscono una fonte importante di approvvigionamento per le milizie e la popolazione locale, sino al rafforzamento della guardia costiera libica.

La strategia ha avuto parziale successo: i flussi si sono ridotti a un terzo dallo scorso luglio, ma la collaborazione con i libici, data la fase embrionale dell’amministrazione del paese, resta difficile.

Nel mese di dicembre Italia e Libia (il governo di accordo nazionale di Serraj) hanno stabilito inoltre di istituire una “sala comune” a Tripoli da cui coordinare le attività d’intelligence e le operazioni in mare e sul terreno per combattere le organizzazioni di trafficanti di esseri umani.

Il governo libico ha annunciato un nuovo tassello dell’intesa con l’Italia firmata nel febbraio 2017 a Roma dal premier Paolo Gentiloni e da Serraj stesso al termine di un incontro nella capitale libica con il ministro dell’Interno Marco Minniti .

Nel vertice sono stati affrontati anche altri due passaggi fondamentali per la lotta ai trafficanti: la necessità di accelerare le operazioni per il controllo delle frontiere nel deserto a sud della Libia e lo smantellamento di decine di “centri” e prigioni per migranti gestiti dalle organizzazioni criminali, dove migliaia di persone vivono in condizioni inumane.

Proprio le condizioni degli immigrati in Libia sono state aspramente criticate da alcune organizzazioni che si occupano di diritti umani: la Libia non dispone di una legislazione adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, pur non esistendo dati ufficiali sul traffico di esseri umani da e verso il paese, l’ingente afflusso di immigrati irregolari e la stretta dei controlli alle frontiere hanno creato spesso condizioni di vita insostenibili all’interno di improvvisati centri di detenzione, come testimoniato nel corso del 2017 da diversi report di media, organizzazioni internazionali governative e non.

Nell’ultimo periodo la ramificazione di traffici dall’Africa alla Libia non può più essere descritta solamente come una serie di collaborazioni sporadiche fra un gruppo e l’altro, ma come una vera e propria struttura criminale tipica delle organizzazioni malavitose complesse.

Il radicamento di questa struttura è stato certamente reso possibile dalla condizione semi-anarchica che domina la Libia, ma è stata consolidata e accresciuta dall’intervento di organizzazioni straniere e internazionali come quelle nigeriane e sudanesi, dedite da tempo al traffico dei migranti.

Per certi versi, secondo alcuni report internazionali, ciò ha condotto il fenomeno a un nuovo livello di sofisticatezza del business, quasi a una sua “industrializzazione”.

Bisogna inoltre considerare che parte importante del business della tratta è costituita dal trattenere i migranti il più possibile in Libia e far pagare dei riscatti alle loro famiglie nei paesi d’origine.

Le attività di facilitazione delle migrazioni – dalla guida sulle piste desertiche, al reclutamento, alla fornitura di vari servizi in punti chiave – coinvolgono molte persone a basso reddito che vivono lungo i percorsi.

Ad esempio, un pilota libico dal Nord Niger a Hamada, a sud di Tripoli, passando peraltro vicino alla base francese di Madama quasi al confine libico-nigerino, guadagna circa 200 dinari (130 euro) per un viaggio di più di 1000 chilometri nel deserto e su un tracciato che segue strade pericolose.

La missione punta anche a smantellare questo processo di specializzazione e industrializzazione , resa possibile da nuove condizioni delle relazioni internazionali. Certo non è sufficiente. Bisognerà prima o poi contribuire più decisamente alla ricostruzione economica di tutte queste aree.

Tuttavia, l’ “intesa cordiale” tra Italia e Francia, sancita dal viaggio di Macron a Roma pochi giorni fa, è alla base di questa nuova missione italiana.

È l’Italia che ha risposto a una richiesta francese? Ciò testimonia la subordinazione di Roma a Parigi? Osservare la vicenda da questo punto di vista sarebbe miope. La storia di sollecitazioni sulla questione migratoria è reciproca e lunga almeno tre anni.

Se osserviamo come il focus del problema si sia geograficamente spostato dal confine italo-francese (Ventimiglia-Mentone) a Lampedusa, sino alle coste libiche fino ad arrivare al Niger, comprendiamo come il prodotto di questa obbligata concertazione di azioni tra Italia e Francia sia un lento spostamento a sud dell’attenzione verso la radice dei problemi: i paesi di transito, che dai traffici ricavano proventi economici, e i paesi di provenienza, con motivazioni economiche e sociali più profonde alla base delle partenze.

Il rischio che la regia delle operazioni militari cada nelle mani dei francesi  è compensato quindi dalla possibilità di essere presenti e avere voce in capitolo in un’area che è diventata strategica anche per l’Italia.

Se tra Macron e Gentiloni esiste un intento politico forte di collaborare per un interesse comune, ovvero il contenimento dei flussi migratori, i vantaggi alla fine saranno per entrambi i paesi.

A condizione che questo non sia un punto di arrivo di una strategia ma costituisca invece un punto di partenza per guardare in profondità il fenomeno migratorio dall’Africa e le fonti dell’instabilità di questi paesi, a cominciare dalla Libia.

L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Missione in Niger, ma per l’Italia l’obiettivo è la Libia” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore.

A cura di Arturo Varvelli, Ispi Senior Research Fellow 

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