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Quegli sporchi zingari che nessuno vuole: la vergogna del pogrom anti-rom a Torre Maura

Immagine di copertina
Un momento della protesta in via dei Codirossoni a Roma per l'arrivo di famiglie rom presso un centro accoglienza, 2 aprile 2019. ANSA/CLAUDIO PERI

Il commento di Luca Telese

Nella storia italiana i moti per il pane si facevano per riempire le bocche, non per svuotarle. Dagli assalti manzoniani fino ai cortei del dopoguerra capeggiati da un giovane Enrico Berlinguer a Sassari, fino al bellissimo padiglione del Vaticano ad Expo, il pane è sempre stato il simbolo incontrovertibile e positivo di un bisogno da assolvere, di una risposta da dare agli ultimi.

Un simbolo nitido e pulito. Il piccolo e lurido pogrom anti-Rom di ieri, 2 aprile 2019, a Torre Maura, ha ribaltato questo cardine, e ha trasformato le fette di pane timbrate dalle pedate nere nella bandiera della nuova Vandea razzista: megafoni, agitatori di Casapound, piccoli teppisti arrabbiati e periferia che insorge contro “quelli che rubano, puzzano e non fanno nulla dalla mattina alla sera”.

E grida: “Bastardi, zozzoni, devono morire di fame!”. Cariche e insulti.

Il Comune aveva trovato una sistemazione programmata per le famiglie Rom, settanta persone e – soprattutto – per trentatré bambini che devono essere scolarizzati: gli attizzatori di roghi si sono opposti al trasferimento e hanno acceso con sapienza le fiamme della rabbia.

In queste fette di pane sparse al suolo e obliterate dalle suole sporche, che diventano subito una brutta bandiera, c’è racchiuso tutto il racconto della cattiveria del tempo che stiamo vivendo: una rabbia facile, demagogica, pregiudiziale.

Non ci sono ragioni, non ci sono pretesti, non ci sono motivi o casus belli che giustifichino quanto è accaduto: la struttura è a norma, inserita in un progetto di accoglienza del Comune, monitorata dai servizi sociali.

La sua inaugurazione mette fine ad una baraccopoli, quella sì infame e pericolosa, che prosperava a soli quattro chilometri di distanza. Stavolta tutto è diventato puro pretesto. E così anche questa rivolta ci interroga sul modo troppo accondiscendente in cui abbiamo lasciato passare, senza troppe resistenze, l’idea che Negro è sporco, Povero è brutto, Rom è ladro.

Non si arrabbia nessuno, non ci sono intellettuali che dicano una parola controvento, la rivolta diventa piccola cronaca endemica, rumore di sottofondo, notizia da rullo di notiziario che non deve nemmeno essere commentata.

I buoni borghesi predicano tolleranza chiusi dentro i rassicuranti confini della Ztl. La pregiudizialità resta l’unica luce rimasta accesa in un mondo di ciechi con la coscienza anestetizzata. Abbiamo perso gli anticorpi contro il razzismo perché ci siano convinti che tutto questo sia fatale e inevitabile.

Perché sotto sotto pensiamo che non sia giusto, ma che i calpestatori di pane non siamo convincibili. Il racconto dei Rom è diventato pura marginalità, ingombro da collocare sempre e solo in periferia, e così la guerra tra poveri torna ad essere l’unico Vangelo possibile.

La rivolta dei margini è la chiave del tempo: perché chi è nel margine, al confine estremo del benessere, nelle grandi città italiane avvelenate dalla crisi, ormai pensa che l’unico modo per reagire sia sputare su chi è più indietro di lui nel girone della dannazione. La prossima volta metteteli in una caserma dismessa di un centro storico.

La prossima volta fate scendere in piazza a protestare le madamigelle in pelliccia.

So di cosa parlo. Per dodici mesi, alla fine degli anni Novanta, ho svolto il mio servizio civile tra le baracche e le lamiere delle periferie di Roma, nei campi abusivi della Via Palmiro Togliatti: alle sei e trenta uscivo di casa, alle sette del mattino mi infilavo in un sentiero stretto tra le cataste di rottami di due autodemolizioni, scambiavo un segnale convenzionale con le sentinelle del campo, e andavo a prendere dei ragazzi rom, che avevano ottenuto una pena alternativa al carcere, per portarli a scuola nel centro in cui prestavo il mio servizio.

Erano tutti ragazzi condannati per piccoli furti, e tutti colpevoli, non proclamavano innocenza. Stavano nella classetta di questa sede a Tor Bella Monaca in cui si ritrovavano insieme a tre ragazzi italiani, quasi tutti condannati per spaccio.

Non sapevano davvero cosa significasse, ma i tre italiani si proclamavano tutti “fascisti”. Alle otto, in assenza di qualsiasi altro sostegno, diventavo maestro in questa curiosa classe di Rom e “Fascisti” minorenni insieme agli altri obiettori (uno di loro, Nicola Guaglianone, è diventato regista, quando lo reicontro ricordiamo increduli).

Ed ero stato costretto a prepararmi a fare il maestro nel modo più ingenuo (rileggendo il mio quaderno di prima elementare, e parlando con mio padre): mi improvvisavo insegnante elementare per una classe di minorenni condannati, che non sapevano né leggere né scrivere (o lo avevano dimenticato).

In quella classe verificai la teoria della superiorità della razza, ma al contrario: i giovani italiani erano più svogliati e disabituati allo studio, consideravano la resistenza a quell’impegno come un dovere da anti-sistema.

I giovani Rom, invece, erano incredibilmente eccitati dall’idea di poter imparare facevano progressi sorprendenti. Il leader degli italiani era un sedicenne spacciatore e ladro di motorini autoproclamato “fascista” che chiameremo Marco.

Marco era molto simpatico, ma per i primi giorni inscenò uno sciopero didattico totale. Disse che non avrebbe partecipato nemmeno al cineforum improvvisato in cui proiettammo con il videolettore di mio padre “Il tempo dei gitani”.

Mai quel film, che conoscevo a memoria, mi parve così bello e difficile. Ma alla fine i ragazzi Rom cantavano Bregovic, e traducevano le parole per gli altri, e lui, pur seduto in ultima fila, non riusciva a staccarsi.

Poi, in una mattinata in cui tutti disegnavano cartelloni coi pennarelli in cui ognuno raccontava se stesso in una frase, il ragazzo di Torbella ruppe il suo Aventino e scrisse su un foglio: “IO SONO UN NASKIN”.

Ne fui felice e non commentai. Aggiunsi con un apostrofo “ZI” e rimanemmo tutti molto soddisfatti, sia i Rom, sia i “fascisti”, sia gli obiettori: le tre categorie di diversamente reclusi che li operavano.

Il giorno dopo il direttore del centro, solitamente democratico, burocratico e assente (era stato designato dalla Comunità di Capodarco per amministrare questo avamposto distaccato nel nulla della periferia), venne da me furibondo per i cartelloni, mi chiese se non fossi impazzito, e minacciò di sollevarmi dall’incarico.

Gli risposi: “Scriva qualcosa anche lei, oppure vada a prendere i ragazzi al campo, una di queste mattine”. Il direttore strappò il cartello e se ne andò borbottando. Tuttavia non ci negò il pulmino del centro per portare la nostra classe in gita, pochi giorni dopo.

Mentre partivamo per una spedizione al mare, una ragazza Rom si mise a ridere guardando fuori dal finestrino. “Cosa succede?”, le chiesi io. E lei: “Adesso, per la prima volta leggo quella scritta: ‘Par-ruc-chie-re!”.

Ora vedo che è un’insegna, prima mi sembrava solo una macchia rosa!”. E si commosse.

Al mare entrammo nello stabilimento inseguiti da sguardi di odio, per il figlio che la Rom sedicenne aveva portato con se. Il minorenne pregiudicato Marco era l’unico rimasto fuori dall’acqua.

Lo presi in giro: “Non vuoi fare il bagno con gli zingari?”. Lui si girò lanciandomi uno sguardo: “Non sono mai stato al mare prima di oggi”. Rimasi di stucco.

Da quel giorno diventammo per la prima volta tutti amici. Ecco perché posso dire di sapere quanto è difficile costruire nel margine. Ogni progetto che rompe questo moderno analfabetismo andrebbe difeso con unghie e denti.

Ogni progetto che riesce infrange lo stereotipo del ladro, del Negro, dello zingaro.

Ricordo i ragazzi Rom della Barbuta, che erano pulitissimi, e preparati per il sabato con il vestito della festa, preoccupati del fatto di essere riconosciuti come “Zingari”.

Ricordo i bambini a cui i ragazzi di CasaPound in un altro campo di periferia, cinque anni fa, bloccarono l’ingresso a scuola, inventandosi poi scuse inverosimili, vergognandosi loro stessi di quello che avevano fatto.

Timorosi di rappresaglie fini a dileguarsi durante un collegamento notturno con Matrix. In questi anni, però, i manovali della destra solo stato sempre sul campo: sempre sul pezzo, sempre impegnati a seminare odio.

E allora la prossima volta metteteci la faccia: sindaco, giunta capitolina, amministrazione del Lazio, opposizioni democratiche, operatori sociali, Stato. Andate anche voi nei terrori dove si anima la rivolta dei margini. Non lasciate che la Vandea si celebri, non lasciate che quel pane calpestato diventi veleno.

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