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Home » Cultura

“Non sarà la bellezza a salvare il mondo, ma la violenza: la violenza che salva”, intervista al poeta Valerio Magrelli

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Valerio Magrelli intervistato da Vincenzo Fiore per TPI

“Su 3 milioni di poeti, soltanto poche centinaia si salvano. Montalbano e i romanzi di Dan Brown? Intrattenimento". Il poeta e saggista Valerio Magrelli si concede in questa lunga intervista a TPI. E su Regeni invita a riflettere sulle responsabilità della docente britannica che lo ha spinto "verso il suo teatro di morte"

Stanco di un mondo ingiusto, di crimini senza colpevoli, Valerio Magrelli poeta e saggista tra i più riconosciuti in Italia nella sua nuova raccolta “Il commissario Magrelli” si occupa delle grandi questioni irrisolte nel nostro paese.

Dalla scuola Diaz all’omicidio Regeni, dal caso Aldrovandi fino a Stefano Cucchi. Nessuna presunzione di risolvere nulla, soltanto il tentativo di donare ancora voce a chi la voce è stata tolta per sempre. Non manca anche l’ironia sulla letteratura, un mondo nel quale oggi si confonde spesso l’intrattenimento con il talento.

Oggi molti editori, soprattutto per quanto riguarda la poesia, cercano delle novità fra giovanissimi pescati sui social network. Cosa pensa di questa tendenza?

Non ho pregiudizi, sono aperto a tutto, anche per una semplice questione di curiosità. Il problema è che si tratta di una tendenza esclusivamente commerciale. Non si cercano libri di giovani, si cercano libri che possano vendere più degli altri. Dietro non c’è alcun interesse per la ricerca. Per fortuna, c’è tanto da scovare proprio fra i giovani, ma certo non fra questo tipo di giovani. Se la poesia non vende, è semplicemente perché è più complessa: cercare di colmare tale differenza rispetto agli altri prodotti, con questo tipo di fenomeni speculativi, non mi convince. Passare da un romanzo giallo a una poesia, è come passare dalla dama agli scacchi. Ieri sono andato a vedere il concerto di un quartetto, e mezzo teatro era vuoto; se fosse stata un’opera di Verdi, ci sarebbe stata la fila fuori. Esistono discipline più complesse di altre – non in quanto elitarie, ma perché richiedono più sforzo, più allenamento (e qui occorrerebbe aprire una parentesi sulla scuola), pretendono cioè più impegno da parte di chi le pratica. Sarebbe bello se gli editori coltivassero entrambe le strade – il profitto, per un privato, è sempre necessario – senza tuttavia spacciare queste cose come letteratura. Mi piacerebbe vedere delle collane nelle quali questi libri di intrattenimento non potessero avere accesso. L’intrattenimento è rispettabilissimo, purché non lo si chiami letteratura.

Secondo alcune stime si calcola che nel nostro paese ci siano almeno 3 milioni di poeti o presunti tali. Come distinguere in questo oceano di parole un talento da uno scribacchino?

Il talento si distingue. Chiunque ama la poesia e la pratica – non servono lauree, ma occorre solo leggere, leggere e leggere tanto – capisce immediatamente quando si trova dinanzi a una voce originale. In passato ho diretto una collana di poesia, su mille libri che mi arrivavano, almeno novecento erano da buttare istantaneamente. Sugli altri, poi, si discuteva con calma. In quei novecento libri, spesso si nascondevano persone che cercavano nella poesia quello che, a mio avviso, avrebbero dovuto cercare nella psicoanalisi. Tutte operazioni dignitosissime, però completamente diverse dalla letteratura. In poesia, il dolore deve passare attraverso il filtro del linguaggio e della tradizione, perché non c’è letteratura senza tradizione. Il più celebre artista rivoluzionario del secolo scorso, Picasso, è stato anche il più grande disegnatore del secolo scorso. Fra questi tre milioni di individui che cercano di esorcizzare il dolore attraverso la letteratura, troveremo qualche decina di buoni poeti. Non a caso, la poesia vende mille copie, non tre milioni. Gli altri si sfogano soltanto, e non sono interessati alle sofferenze degli altri. Fanno bene, non lo nego, purché non mi vengano a chiedere di essere letti.

Lei è stato il responsabile della serie trilingue all’interno della prestigiosa collana “Scrittori tradotti da scrittori” voluta e curata inizialmente da Giulio Einaudi. Grandi classici della letteratura mondiale tradotti da scrittori del calibro di Primo Levi, Pasolini, Pavese e Montale, solo per citarne alcuni. C’è un particolare incontro, qualche aneddoto che ricorda di quel periodo?

Ci sono tantissimi incontri che varrebbe la pena di ricordare. Avevo già avuto modo di conoscere molti studiosi attraverso la mia attività di docente. Non conoscevo, però, Umberto Eco che scrisse una prefazione, né George Steiner. L’aneddoto più divertente, però, riguarda il primo libro della serie, su André Gide traduttore di Joseph Conrad. Il mio saggio introduttivo si soffermava in particolare su un dettaglio di Typhoon-Typhon (Einaudi, 1993). Ogni volta che Conrad scriveva Nan-Shan – il nome del piroscafo dove si svolge la storia, dunque, in certo modo il “protagonista” della storia stessa – Gide, nella traduzione, lo ometteva. Caso singolare. Quando successivamente mi trovai nella tipografia Einaudi, sul punto di mandare in stampa il testo, buttando l’occhio sulla pellicola mi accorsi che il nome Nan-Shan appariva anche nella versione francese. Mi sentii morire; pensai di aver scritto un saggio del tutto errato! Mentre mi chiedevo come avessi potuto prendere un abbaglio così grande, mi venne presentato mi tipografo, che tutto sorridente mi spiegò: “Ha visto, professore? Gide si era sbagliato! Io l’ho corretto!” Lo avrei ammazzato…

La sua consacrazione al grande pubblico è avvenuta probabilmente con la raccolta Nature e venature (Mondadori, 1986). È errato sostenere che sin dal titolo lei cerca di coprire con un velo di tenerezza l’orrore del mondo, quasi per addolcire una realtà cruda contro la quale spesso non si può far nulla?

È esattamente questo. Tant’è vero che in una poesia, riprendendo questo gioco che tecnicamente si chiama paronomasia, scrivo: «Come se il fregio sempre /
nascondesse lo sfregio». A sottintendere che nelle cose apparentemente delicate si cela spesso qualcosa di terribile.

È da poco in libreria “Il commissario Magrelli” (Einaudi, 2018). In cerca di quali verità va il suo commissario?

Innanzitutto il mio commissario si diverte a prendere in giro i gialli e i noir, libri di consumo che hanno invaso come parassiti il mercato libraio. Ripeto, la mia parola d’ordine è tolleranza, ma è grave confondere ambiti diversi. I vari Montalbano sono deliziosi oggetti di intrattenimento, ma non hanno nulla a che vedere con la letteratura. A chi mi obietta che Georges Simenon era un genio, ricordo che di Simenon ne nasce uno ogni secolo. Allo stesso modo, a chi mi cita Paolo Villaggio, Alvaro Vitali, Franco Franchi, volendoli paragonare a Totò, rispondo che di Totò ce n’è stato solo uno, egli è uno e trino e non ne esistono altri. Forse questo è uno sfogo eccessivo, ma è grande il rischio di certi abusi che, cosa gravissima, confondono il pubblico più sprovveduto. L’anno scorso, al telegiornale delle 21:00, sento definire Dan Brown “un grande scrittore”: penso ci siano gli estremi di una sanzione. Qualche anno fa, ho scritto una poesia molto violenta che si intitolava Contro l’abuso di Haiku: il mio commissario vuole essere qualcosa del genere: contro l’abuso di gialli.

Lei dedica dei versi anche a Giulio Regeni, che qualche giorno fa avrebbe compiuto 31 anni. Pensa che lo Stato italiano abbia fatto tutto il possibile?

La mia raccolta ha una base scherzosa, certo, ma poi assume toni diversi. Cucchi, Aldrovandi, la scuola Diaz. Quanto a Regeni, non so se lo Stato italiano abbia fatto il possibile, certo è che lo Stato inglese non ha fatto nulla. Tendiamo a dimenticare le responsabilità dell’Università che lo mandò a studiare in Egitto. È l’Università, una sua docente, che ha mandato il ragazzo in quell’inferno. Di questo si parla troppo poco. Lei sa il nome dell’insegnante che l’ha mandato lì? Io no, e credo non lo sappia quasi nessuno. Eppure è lei ad averlo mandato verso il suo teatro di morte. Solo un giornalista di Repubblica ha tirato fuori la questione con decisione. Se fosse capitato a un mio dottorando, come potrei continuare a far finta di nulla?

È un esempio di poesia impegnata?

Certo, perché la poesia va dove gli pare: alla fine deve rispondere a se stessa. Questo non riguarda me, ovviamente. Se ho pubblicato il libro, significa che ero convinto di quello che ho scritto. Gli altri giudicheranno. Per questo detesto chi, nello spedirmi un testo, aggiunge: “è solo una cosina”… Se si tratta di una cosina, perché me la invii? Se nemmeno l’autore di una raccolta è convinto di quello che ha scritto, perché dovrebbe perderci tempo qualcun altro? Se un autore è veramente tale, deve avere il coraggio di difendere le proprie opere.

Basterà la bellezza per salvare il mondo?

Più che la bellezza penso che serva la violenza. Mi rendo conto che questo discorso possa fare impressione. Io parlo però di una “violenza che difende”. Nell’ultima poesia del libro è spiegato tutto. Per me legalità vuol dire “legare il prepotente”. Come lo si lega il prepotente? Non certo con la bellezza. Come si chiudono i campi di concentramento? Con una “violenza giusta”. Ritengo che la legge nasca per difendere i deboli: sia chiaro, è un’illusione, lo so bene, però è la mia illusione. Il prepotente non ha bisogno di polizia, un mafioso già ha il proprio esercito. La persona debole, invece, ha bisogno dello Stato.

Leggendo un’intervista a Saviano, mi ha colpito una citazione estratta dal film American Sniper, che dice: «Ci sono tre tipi di persone a questo mondo: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Ci sono persone che preferiscono credere che nel mondo il male non esista. E se mai si affacciasse alla loro porta, non saprebbero come proteggersi. Quelle sono le pecore. E poi ci sono i predatori, che usano la violenza per sopraffare i deboli. Quelli sono i lupi. E poi ci sono quelli a cui Dio ha donato la capacità di aggredire e il bisogno incontenibile di difendere il gregge. Questi individui sono una specie rara, nata per affrontare i lupi. Sono i cani da pastore. In questa famiglia noi non alleviamo pecore, e io vi ammazzo a cinghiate se diventate dei lupi».

Se le forze dell’ordine non esistessero, ci sarebbero soltanto i signori della guerra, le famiglie di Gomorra. Una sorta di Medioevo con la polizia privata. Ecco perché lo Stato deve avere il monopolio della violenza: per difendere i deboli. Inneggiare alla polizia, può sembrare una cosa da Salvini: in realtà è il contrario. È proprio il debole, l’umile, il clochard che ha bisogno di essere protetto. In uno stato democratico, l’ordine dovrebbe funzionare così. La sinistra dovrebbe riflettere meglio e riscoprire queste forme di tutela. Non c’è cultura senza protezione, non c’è protezione senza deterrenza. Una mia poesia recita: «Che due donne o due uomini / non possano baciarsi per la strada, / pena scherno o percosse, / al commissario proprio non va giù. / Sa che la libertà non esiste in natura: / frutto della cultura / va difesa con cura / altrimenti non dura». Un mondo felice è un mondo libero, dove ognuno possa fare quello che gli pare senza essere aggredito.

Chiudo con un’immagine di Kant, ripresa da Isaiah Berlin: “il legno storto dell’umanità”. L’umanità è fatta così, la minaccia non può essere eliminata, perché costituisce una salvaguardia. Se io, automobilista, rispetto il limite di velocità, è perché prima sono stato multato. L’automobilista multato modererà la sua velocità. Un mio amico, il poeta Guido Mazzoni ha definito queste posizioni nei termini di una “antropologia nera”. In effetti, da Hobbes fino a Freud, l’idea è che non possa esistere educazione e cultura senza coercizione. Bisogna “togliere la libertà di nuocere agli altri”, secondo il noto detto per cui la tua libertà finisce nel momento in cui la togli agli altri. L’uomo è fatto così, è un legno storto, una creatura pavida, vile, paurosa, che ha bisogno di un limite, limite rappresentato dalla minaccia. È come l’autovelox per l’automobilista.

C’è chi fa il pane. 
Io faccio Sangue Amaro.
C’è chi fa profilati d’alluminio.
Io faccio Sangue Amaro.
C’è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale.
 Io faccio Sangue Amaro.
Io mi faccio il Sangue Amaro. 
È una specialità della casa, sin dal lontano 1957.

(Sangue amaro, Einaudi 2014).

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