Ilaria Cucchi: “Stefano era un essere umano, ma nessuno lo ha visto per colpa del pregiudizio”
Il 27 settembre si è svolta una nuova udienza del processo contro cinque carabinieri sulla morte di Stefano Cucchi, 31enne romano arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009
Alcuni dei manifestanti attendono fuori dal tribunale che l’udienza si concluda. Sorridono a Ilaria, quando esce. Le chiedono com’è andata. “Bene”, risponde lei.
Anche secondo gli studenti della Sapienza è andata bene. Sulla base dell’ondata emotiva suscitata dalla proiezione del film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini all’università, sono riusciti a portare in piazza un centinaio di persone, quasi tutti giovani studenti come loro.
Così la mattina del 27 settembre, mentre la Corte d’Assise di Roma ascoltava i testimoni della difesa nell’ambito del processo Cucchi-bis, la sorella di Stefano, l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, e il pm Giovanni Musarò non erano i soli a chiedere giustizia per la morte del geometra 31enne, avvenuta il 22 ottobre 2009 a Roma (qui la ricostruzione completa della storia).
Dalle 9.30 a piazzale Clodio, di fronte al tribunale, c’era anche il presidio “Sulla nostra pelle”, organizzato dal collettivo Sapienza clandestina, da Alterego-Fabbrica dei diritti e da Acad (Associazione contro gli abusi in divisa).
“Ad ogni udienza esce fuori un quadro sempre più drammatico, lo dico da sorella di Stefano ma anche da cittadina”, commenta Ilaria Cucchi a TPI al termine dell’udienza del processo che vede imputati cinque carabinieri con le accuse di omicidio preterintenzionale e calunnia nei confronti degli agenti penitenziari.
“Ciò che esce fuori è che la verità su Stefano era chiara ed evidente agli occhi di tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui in quei giorni, i quali però hanno preferito voltarsi dall’altra parte”, sostiene Ilaria.
Udienza processo Cucchi bis
Intorno alle 11 i giudici della Corte d’Assise hanno iniziato ad ascoltare i testimoni della difesa dei cinque carabinieri, a cominciare da Francesco Ponzo, l’infermiere che era nell’ambulanza che fu chiamata la notte dell’arresto di Stefano, tra il 15 e il 16 ottobre 2009, nella caserma dei carabinieri di Tor Sapienza, dove il ragazzo era stato condotto.
Una settimana dopo il 31enne sarebbe morto senza che la sua famiglia fosse riuscita a incontrarlo o a conoscere le sue condizioni di salute (qui le cause della morte).
Al centro delle domande all’infermiere c’è la sua descrizione delle condizioni fisiche di Stefano Cucchi. In momenti diversi si è infatti riferito agli arrossamenti che sostiene di aver visto sugli zigomi di Cucchi per pochi istanti come “ecchimosi” e “eritemi”. Una cosa ben diversa.
L’infermiere racconta che Stefano si nascose sotto la coperta e non volle essere visitato o portato in ospedale.
Lui – racconta – insistette per portare il ragazzo in ospedale e gli chiese se volesse parlare di ciò che era successo “in separata sede”. Non specificò, tuttavia, che in ambulanza avrebbero potuto parlare a tu per tu. Né chiese ai carabinieri presenti di accendere la luce nella cella di sicurezza o di specificare che tipo di malattia neurologica avesse il paziente.
Dopo l’infermiere vengono ascoltati anche il barelliere, l’autista dell’ambulanza inviata a Tor Sapienza e un ex detenuto che il 16 ottobre sentì Stefano mentre chiamava gli agenti.
Poi è il turno degli agenti di polizia penitenziaria che perquisirono Stefano e quelli che lo trasportarono dal tribunale al carcere di Regina Caeli.
Parla anche il dottor Giovanni Battista Ferri, responsabile dell’ambulatorio medico della Città giudiziaria di Roma, che visitò Cucchi nella struttura giudiziaria intorno alle 14 del 16 ottobre, prima del suo trasferimento in carcere.
“Lo vidi solo in viso”, racconta Ferri. “Nel referto scrissi che aveva lesioni ecchimotiche su entrambi gli occhi e che aveva riferito dolori alla regione sacrale e agli arti inferiori. Secondo me erano lesioni da evento traumatico, e dal dolore sembravano lesioni recenti, ma lui rifiutò di farsi visitare”.
Dopo aver ascoltato le testimonianze, la sensazione è che molti avessero capito o intuito, avendo visto le condizioni di Stefano, che fosse stato picchiato, ma che si faccia ancora fatica a dirlo apertamente.
Il più esplicito è l’ispettore superiore della Penitenziaria Antonio La Rosa.
“Era evidente che era stato pestato, in tribunale non si reggeva in piedi”, dice durante la sua deposizione. “Vidi per la prima volta Cucchi alle celle d’uscita del tribunale: camminava male, in viso era parecchio rosso”.
Come mai questa reticenza? TPI lo ha chiesto all’avvocato Fabio Anselmo, che rappresenta la famiglia Cucchi come parte civile al processo.
“È un po’ un malinteso spirito di corpo, di appartenenza, anche se gli imputati sono carabinieri e non agenti penitenziari”, sostiene Anselmo. “E c’è anche una certa ritrosia, che forse è un eufemismo, a raccontare la verità”.
“C’è anche un bel po’ di pregiudizio”, aggiunge Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, che insieme ai genitori è stata presente in aula.
“Avevano la situazione chiara davanti agli occhi: un ragazzo pestato che stava malissimo, tant’è che di lì a qualche giorno è morto di dolore. Non sono stati capaci di guardare oltre il pregiudizio e guardare l’essere umano che c’era oltre quel detenuto rompiscatole”.
L’unico briciolo di umanità si percepisce quando uno dei testimoni racconta che, quando vide le ecchimosi sul corpo di Cucchi, dice: “In quel momento mi ha fatto tenerezza”.
Il processo ora andrà avanti. Intanto, uno degli imputati, il maresciallo Roberto Mandolini, ha denunciato Ilaria Cucchi sostenendo che avrebbe leso la sua immagine.
Secondo l’accusa, Mandolini avrebbe contribuito a depistare le indagini, facendo dichiarazioni che hanno portato all’incriminazione di tre agenti di polizia penitenziaria e allo svolgimento del primo processo, conclusosi con la loro assoluzione.
“La mia famiglia ne ha sopportate talmente tante: dall’arresto di Stefano alla sua morte e a tutto ciò che abbiamo subito in questi nove anni”, commenta Ilaria con TPI alla fine dell’udienza. “Essere denunciata da uno di quelli che reputo – continuerò a dirlo – uno dei principali responsabili di questi 9 anni sprecati, per la giustizia e per la nostra famiglia, non mi farà indietreggiare di una virgola”.
Si conclude con questa amarezza, ma con un po’ più di chiarezza anche questa giornata dinanzi alla Corte d’Assise. E con il sole ancora alto, alle 4 del pomeriggio, a piazzale Clodio resta solo lo striscione: “Sappiamo chi è stato. Con Stefano nel cuore, con il sangue agli occhi”.