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Titolo universitario all’estero: in Italia è carta straccia

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La testimonianza di una ragazza italiana con una laurea triennale nel Regno Unito che, tornata nel suo paese, non riesce a ottenerne il riconoscimento

Mi chiamo Sara, ho 25 anni e sono Italiana. Nel 2013 ho conseguito una laurea triennale in Architettura nel Regno Unito. 

Come molti ragazzi della mia generazione ho deciso di affacciarmi fuori dall’Italia per studiare, e come tanti ho scelto Londra: per migliorare l’inglese e per respirare un po’ della tanto chiacchierata realtà globale. 

Dopo tre anni passati lì, avrei tanto di cui parlare, sia in termini di didattica che del forte impatto culturale e sociale che ho sperimentato.

Ciò che più mi preme raccontare, però, è quanto mi è successo al ritorno. 

Dopo qualche esperienza lavorativa in Italia ho deciso che era tornato il momento di studiare, di rimettersi dietro i banchi e finire la magistrale.

Così ho cominciato a informarmi sulla domanda di ammissione per l’università Italiana e si è aperto davanti a me un panorama agghiacciante.

Secondo quanto sono riuscita ad apprendere, la mia laurea non sarebbe stata riconosciuta. Un foglio illustrativo consegnatomi dalla segreteria degli studenti avrebbe dovuto aiutarmi a capire l’iter burocratico e a destreggiarmi tra gli enti di competenza relativi. Non è stato esattamente così.

Di competente, in realtà, ho trovato ben poco, e con questo non intendo certo incolpare il personale: agli uffici dell’Ambasciata britannica, del Consolato italiano, del Centro d’informazione sulla mobilità e le equivalenze accademiche (Cimea) e perfino della segreteria studenti ho conosciuto persone disponibili e competenti.

Ma ciascuno di loro conosce solo un pezzo della storia, e ricostruire il puzzle intero è una missione titanica di cui non riesco a vedere la fine. 

Così sono stata spedita da un notaio iscritto a entrambi gli albi, italiano e britannico. Ho avviato una pratica al costo di 500 euro per apporre una firma che avrebbe reso valido il pezzo di carta su cui è apposto il mio voto di laurea. 

Ho consegnato i documenti e mi sono vista costretta a sostenere il test di ammissione ad Architettura del primo anno, in mancanza di un test per la magistrale. 

Passato il test, mi sono ritrovata iscritta al primo anno, senza sapere che corsi seguire.

Una commissione – anche se non era chiaro costituita da chi e fondata su quali criteri – si starebbe ora occupando di valutare se il mio titolo possa essere considerato equivalente a quello Italiano oppure, diversamente, quali e quanti esami dovrò sostenere affinché lo sia. La procedura potrebbe prendere mesi. 

Un paio di professori hanno avuto la pazienza di leggere il programma universitario dei miei tre anni, e hanno deciso che avrei dovuto seguire il loro corso. Molti altri, comprensibilmente, non hanno nemmeno avuto il tempo di sfogliarlo. Qualcun altro mi ha chiesto un colloquio privato per valutare le mie reali conoscenze.

Mi sono confrontata di nuovo con la segreteria degli studenti per essere certa che mi stessi muovendo bene: ho scoperto che il professore non aveva il diritto di chiedermi un colloquio privato, che la segreteria del dipartimento e quella dell’università non si parlano e che le informazioni di una vanno in senso contrario rispetto all’altra. 

Ho iniziato la procedura a metà giugno: arrivata a inizio novembre (quando avevo già pagato la prima rata) non ero ancora a conoscenza dell’anno accademico a cui effettivamente appartenessi, quali corsi dovessi seguire, quanto tempo ci sarebbe voluto prima di iniziare la magistrale dopo essermi ri-laureata (si, avete letto bene) alla triennale. Poi capii che ci sarebbe voluto più o meno un anno. 

“La Convenzione di Lisbona” sul riconoscimento dei titoli (approvata nell’aprile 1997, ratificata in Italia con la Legge 148 del 2002) regola la libera circolazione di studenti laureati e liberi professionisti attraverso i paesi dell’Unione. Rientra in un processo di internazionalizzazione del sistema educativo che fluidifichi la mobilità e renda possibile formarsi all’interno del territorio europeo senza rimanere invischiati nelle logiche regionali, o peggio ancora locali. 

Con questa convenzione, di fatto, viene lasciata discrezionalità all’ateneo singolo, o addirittura alla facoltà, che può decidere di creare le sue proprie letture, e di conseguenza le barriere.

Io non sono laureata in diritto. Non ho esperienze nella pubblica amministrazione, ma la mia stessa domanda alla magistrale è stata accolta nei Paesi Bassi, in Norvegia e in Danimarca, senza sollevare questioni.

Ho avuto la fortuna di poter dare un’occhiata fuori da questo paese, e non ho visto solo cose belle. La muraglia burocratica che ho riscontrato al mio ritorno in Italia lascia l’amaro in bocca.

Siamo complicati. Perché le università, perennemente in lotta tra loro, rifiutano di scambiarsi le informazioni e di fare rete, e si chiudono nella loro auto-referenzialità.

Siamo chiusi. Perché se ci facciamo problemi per una laurea acquisita nel Regno Unito, non oso immaginare gli ostacoli per una laurea conseguita in un paese dell’Africa o dell’Asia.

Siamo poco lungimiranti. Siamo tutti d’accordo nel considerare la cultura il nostro petrolio, ma quando si tratta di accettare la diversità dentro casa la rifuggiamo, come se potesse portarci via un pezzo di identità culturale.

Post Scriptum

Sono ancora in Italia, per dare una mano, e vorrei restarci.

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