L’Aquila per la mia generazione: i nati nel 1983 e quelle certezze franate sotto i nostri piedi
Quella de L’Aquila è stata una delle prime catastrofi naturali che quelli della mia generazione hanno vissuto tramite web. Facebook si stava sviluppando in quegli anni, e c’era tanta curiosità intorno a questo nuovo modo di comunicare. Adesso, a dieci anni di distanza, vedere tutti quei post con scritto “Paura” “Pauraaaaa” Pauraaaaa!!!!” a poche ore da quella che fu poi la grande scossa fa riflettere, fa molto riflettere.
Io stessa scoprii del terremoto in diretta, su Facebook appunto, mentre mi trovavo dall’altra parte del mondo. Vivevo negli Stati Uniti a quel tempo, a Chicago, ero lì per uno stage all’Ambasciata Italiana, e mi ricordo il profondo senso di smarrimento, l’estraniamento, il vuoto dentro. Io che mi trovavo al 34esimo piano di un grattacielo nella North Michigan Avenue, era tremendo pensare che a pochi chilometri da dove viveva la mia famiglia, dai posti in cui io ero cresciuta, tutto era stato raso al suolo.
Perché il terremoto è questo che fa, ti toglie le certezze. Sentire la terra che ti manca da sotto ai piedi, piombare nel vuoto, vedere la casa, la tua casa, quella che è stata la tua sicurezza, frantumarsi in mille pezzi, vivere tutto ciò beh… quella sensazione non te la dimentichi, e la tua vita cambia. Cambia nei valori, cambiano le gerarchie di importanza, cambia anche il modo in cui tu ti appresti a vivere la quotidianità, non sei più lo stesso nella vita di ogni giorno.
Non sei più tu, tu che direttamente lo hai vissuto sulla tua pelle, ma anche tu che lo hai sentito solo dai racconti e da una diretta virtuale, e il tuo pensiero è andato subito a quegli amici, o amici di amici, che si erano trasferiti a L’Aquila per studiare. E’ un senso di inquietudine che poi è rimasto dentro a tutti quelli della mia generazione. Già, noi ci sentiamo impotenti, impotenti perché quello che abbiamo davanti è qualcosa di più grande di noi.
La generazione a noi successiva, forse, oggi sta tornando ad avere consapevolezza e fiducia in se stessa, ma la mia generazione no, questa consapevolezza l’ha persa, le è franata sotto i piedi, seppellendo i sogni tra polvere e macerie.
Io mi ricordo che quel giorno avevo un’infezione, un bruttissimo e pericoloso Fuoco di Sant’Antonio mi aveva pervaso l’occhio sinistro, e non riuscivo a vedere nulla. Mi sentivo ghettizzata in quel momento, io che volevo tornare a casa dai miei concittadini, volevo salire sul primo aereo direzione Roma, per poter aiutare, ed invece ero lì, bloccata, dall’altra parte dell’oceano. “Non puoi prendere l’aereo nelle tue condizioni, non ti lasceranno salire conciata così, perché rischi di contaminare l’equipaggio”, mi disse la mia coinquilina, una Hostess dell’American Airlines. Ed è forse quella presa di coscienza, quella privazione di una volontà, io che volevo andare da una parte ma la “legge” me lo impediva, ecco, anche quello ha segnato molto la mia vita e il mio futuro lavoro da giornalista.
Sono arrivata a L’Aquila, sì, ci sono arrivata, un mese e mezzo dopo, e lì ci ho trascorso tutta l’estate. Sono arrivata che era Maggio e sono andata via ad Ottobre, quando il fantomatico campo di accoglienza con tende blu stava per essere smantellato. Sono stati mesi intensi, dolorosi e bellissimi, quelli che ho vissuto a L’Aquila, anzi, per essere precisi nella tendopoli di Fossa, vestendo i panni della Protezione Civile di giorno, e scrivendo reportage di notte. Erano i miei primi reportage, io che fino ad allora mi ero sempre e solo occupata di calcio, in quel momento iniziavo ad preoccuparmi della vita comune, iniziavo a vedere in faccia la sofferenza delle persone, e a scriverne, a raccontarla, a farla emergere. Io a Fossa, e alle persone conosciute durante il terremoto in Abruzzo devo molto, devo lo sviluppo della mia carriera giornalistica, da allora ad oggi, la centralità che ho deciso di dare alle storie, alle piccole storie, le storie che non fanno parte dei grandi sistemi, e che non occuperanno mai i grandi titoli di giornali. Ma sono le storie che ci appartengono, storie in cui possiamo rispecchiarci tutti noi. Sono storie che hanno diritto di venire alla luce.
Dopo quello de L’Aquila ci sono state altre catastrofi naturali, c’è stato il terremoto in Emilia Romagna, le alluvioni in Liguria e nel Messinese, il terremoto di Amatrice e nelle Marche, ad Ischia, e via dicendo. E, al solito, anche quella sensazione di sgomento sta pian piano scomparendo, lasciando spazio all’indifferenza, la grande nemica dei nostri tempi. Già, perché noi ormai non ci scandalizziamo più, non soffriamo più per il dolore degli altri. Però c’è stato un momento nel quale la mia generazione veramente si è sentita mancare la terra da sotto i piedi, in un punto di non ritorno. E quello fu il 6 Aprile 2009, quando un terremoto di magnitudo 6.3 sradicò un territorio, mietendo 309 vittime.