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“Io, 9 ore sotto le macerie del terremoto de L’Aquila accanto a mia zia morta, mi sento una miracolata”

Immagine di copertina
Ramona. Credit: Cristiana Mastronicola

Ramona quella notte non sarebbe dovuta andare a dormire dalla zia, Delia Solidea Ferrella. Alle 3.32 una scossa di magnitudo 6.3 rase al suolo la palazzina in via Fortebraccio e lei rimase nove ore sepolta sotto le macerie

Ramona ha gli occhi grandi e color nocciola, un sorriso bianchissimo e un pancione che protegge con un maglione nero. “Nasce a metà maggio”, dice a un signore di mezza età che si affaccia dal bar della piazzetta di Coppito.

Qui si conoscono tutti. L’Aquila dista una decina di chilometri e la frazione di Coppito conta un gruppuscolo di case accalcate a ridosso della strada principale e le facoltà di Medicina ed Economia. Insieme agli anziani che vivono qui da sempre si mischiano studenti universitari, provenienti soprattutto dalle regioni del sud.

“Per adesso sto qui, dai miei suoceri, ma sto traslocando in una casa a L’Aquila”, spiega Ramona. A Coppito però ha un monolocale che affitta su Air Bnb e mentre spiega minuziosa tutti i servizi della casa, si vede che vuole raccontare di più.

“Quella notte mia zia mi chiamò. Aveva paura a stare da sola in casa con tutte quelle scosse e così mi chiese di andare a dormire da lei. Non era pronta a lasciare la casa, stava imbustando i gioielli e l’argenteria, non voleva lasciare nulla in casa”, continua Ramona, che oggi ha 36 anni, ma allora ne aveva dieci in meno. Non lo sapeva, lei, che quella giovinezza stava per esserle strappata via dalla furia della terra.

“Mi sono stesa sul letto e ho aspettato che zia finisse. All’una c’è stata la prima scossa forte. Ci credi che non mi sono nemmeno alzata? Ormai ci eravamo abituati”. Lo sciame sismico che anticipò la grande scossa della notte del 6 aprile 2009 andava avanti ormai da mesi. L’abitudine aveva preso il posto della paura.

Al quarto piano della palazzina di via Fortebraccio, Ramona e la zia, Delia Solidea Ferrella, di 83 anni, aspettavano che le pareti smettessero di vibrare forti e invece alle 3.33 un boato ha rotto il silenzio della notte. “La casa ci è crollata addosso. Dal quarto piano siamo arrivate al secondo”, racconta la donna. Mentre parla lo sguardo le corre lontano, cerca il figlio Gabriel che l’aspetta in macchina e cerca i ricordi che l’aspettano in fondo al buio di quella notte di inizio aprile.

“Ho solo alcuni ricordi di quella notte. Zia era bloccata sotto alle macerie come me, a pochi centimetri dal mio viso. L’ho sentita dire in dialetto ‘tutto credevo tranne di morire così’”. Poi ha chiuso gli occhi. Un infarto forse – o il peso insopportabile di quelle macerie – l’ha uccisa.

“A un certo punto devo essere svenuta, perché ho dei buchi lunghissimi tra un ricordo e l’altro”, continua a raccontare Ramona. La mano fredda della zia, la suoneria del cellulare irraggiungibile, i motori degli elicotteri. “Ricordo bene che non riuscivo a respirare, ero completamente bloccata. Poi devo aver avuto un attacco di panico, mi sono divincolata così forte da essermi tagliata la pelle e limata una parte del cranio”. Si passa la mano tra i capelli, cerca i segni di quell’inferno sotto i polpastrelli delle dita. Li trova, si ferma, sospira.

“Il mio ragazzo – che oggi è il padre dei miei figli – mi ha cercato ovunque quella notte”. Quando Antonello ha trovato Ramona non si dava pace: chiedeva ai vigili del fuoco di togliere via quelle macerie e di tirarla fuori, ma Ramona doveva aspettare. Prima toccava alla famiglia della palazzina vicina essere estratta dal cumulo di morte e detriti che li seppelliva: un uomo, una donna incinta e la loro bambina. Nessuno di loro si è salvato.

“Sono stata sepolta sotto al tetto di quella palazzina per nove ore. A un certo punto ho iniziato a sentire le voci dei soccorritori, quella di Antonello, la ruspa sopra di me che, piano, toglieva le macerie. Quando mi hanno estratto ero praticamente nuda. Appena mi sono alzata le mie gambe non hanno retto e sono caduta”. Poi la corsa in ospedale, in quell’ospedale che cadeva a pezzi ma che era l’unico presidio di salvezza.

“Avevo il viso completamente tumefatto, i muscoli delle gambe atrofizzati. Ero incinta, al terzo mese, e ho abortito. Era la mia prima gravidanza, ma non ce l’ha fatta”, confessa Ramona, mentre in un gesto forse involontario si accarezza il pancione all’ottavo mese.

“Ho fatto la prima doccia dopo un mese. Prima non potevo: avevo ancora i calcinacci nelle ferite”. Per i tre mesi successivi ha scelto di stare lontana dalla sua città, lontana dal terrore, ma quel boato se lo portava dentro. “Sono stata nella mia casa al mare per riprendermi. Chi stava con me mi diceva che la notte urlavo. Io non ricordo niente, come non ricordo di aver urlato mentre ero sotto le macerie. Una cosa però è nitida nella mia mente: quando sono uscita, appoggiato sopra uno di quei cumuli di calcinacci, c’era un santino. Era una Madonna che zia teneva sulla finestra. Per me quello è stato un segno”. Si sente una miracolata, Ramona, che quel 6 aprile ha iniziato la sua seconda vita.

Ramona davanti una casa distrutta di Coppito, L’Aquila

Oggi è madre fiera di Gabriel, quattro anni e i capelli lunghi che gli accarezzano il visino. “Ho iniziato a parlargli di quella notte. Quando vede una casa distrutta mi chiede se è stata colpa del terremoto. Gli ho detto che mamma è viva grazie ai vigili del fuoco e a papà”, continua Ramona, che fissa Gabriel e lo sa che deve tutto alla vita anche solo per poterlo guardare oggi. Si accarezza il pancione, sorride ancora. La voce calda, ma ferma non tradisce nessuna emozione: “Quando racconto la mia storia è come se parlassi di un’altra persona. Forse è una forma di autodifesa”.

Sorride sempre, Ramona, e con il sorriso si sforza di riempire quella crepa che si porta dentro, che, dieci anni dopo, è sempre lì a ricordarle l’orrore di quella notte e la bellezza faticosa di quello che è stato dopo.

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