La storia di Edoardo, che da bambino era Roberta ma sapeva già di essere maschio
La disforia di genere non riguarda solo gli adulti, ma anche i bambini. Una madre ci ha raccontato cosa significa avere una figlia che crescendo è diventato un uomo
Nel 1970, ai Castelli romani, in provincia di Roma, nascevano due bambine, Simona e Roberta. Una di loro si sentiva femmina. L’altra, crescendo, non si riconosceva nel sesso che le era stato assegnato alla nascita.
“A due anni iniziai a notare qualcosa di strano, così parlai con la pediatra delle mie figlie”, racconta a TPI Gilda, madre delle due bambine. “Le chiesi se mia figlia Roberta in realtà poteva essere un maschio. La dottoressa la visitò e mi assicurò: ‘No, no signora, questa è una femminuccia a tutti gli effetti’.”
Eppure, più passava il tempo, più Gilda si accorgeva che sua figlia non giocava mai con le bambole. “Preferiva il martelletto, i chiodi, le macchinine. Non voleva mettere vestiti da femmina, nel modo più assoluto”, racconta la donna. “Ma ho sempre pensato che fosse solo un po’ mascolina”.
Oggi Roberta si chiama Edoardo, ha 47 anni ed è diventato un uomo.
Esistono persone che sentono di appartenere a un genere diverso da quello biologico, intrappolati in un corpo che non corrisponde a quello in cui si riconoscono. E questo non accade solo agli adulti o agli adolescenti dopo lo sviluppo puberale. Succede anche ai bambini, anche a quelli molto piccoli. L’identità di genere è qualcosa che si sviluppa già a partire dai tre anni.
Ci sono bambine che non hanno nessuna intenzione di indossare la gonna, o bambini che alla domanda: “Qual è il tuo gioco preferito”, non rispondono subito “il calcio”, solo per citare alcuni tra i più diffusi stereotipi di genere. Eppure, questi comportamenti possono andare molto oltre la questione dei gusti personali, ed essere sintomatici di quella che è conosciuta come disforia di genere.
“Un giorno, quando Roberta aveva sei anni, le dissi di mettere una gonna come la sua gemella ma lei non voleva saperne. Da lì ho dovuto cedere a tutto quello che mi chiedeva, perché era inutile oppormi. Durante l’adolescenza ho iniziato a capire che mia figlia aveva delle compagne, ma pensavo fosse omosessuale”, spiega Gilda.
“C’è un episodio che fa capire com’era vista Roberta da piccola. Una volta, quando eravamo in vacanza a Follonica, urlai ‘Roberta’, per chamare la mia bambina e il figlio di un’amica mi chiese: ‘Ma chi è Roberta? Lui è Roberto‘”.
I bambini, che erano cresciuti insieme, sapevano che Roberta era un maschio. Giocava a pallone in una squadra formata solo da ragazzi. Camuffarono la “a” di Roberta con una “o” e la fecero giocare con loro. Lei si trovava a disagio dentro quegli abiti, nonostante fossero maschili. Anche quando doveva presentare i documenti era in difficoltà.
“Mio figlio mi diceva di essere nato in un corpo sbagliato”, racconta la mamma di Edoardo. “Ma io me n’ero accorta già da quando aveva 2 anni: ci avevo visto bene”.
La disforia di genere nei bambini
Prima, per indicare la non corrispondenza tra l’identità in cui ci si riconosce un individuo e la sua identità biologica, veniva usato il termine “disordine dell’identità di genere”. Ma da qualche anno si preferisce utilizzare l’espressione “disforia di genere”.
È una situazione che può generare sofferenza in una persona che intimamente sente di appartenere a un genere che non corrisponde ai caratteri biologici del suo corpo.
Intorno ai 3 anni, la maggior parte dei bambini e delle bambine esprime attraverso alcuni comportamenti i suoi interessi tipicamente maschili o femminili. Poi, intorno ai 5-6 anni subentra la necessità di comportarsi secondo quello che è considerato appropriato al gruppo dei maschi e delle femmine.
Capita però che un bambino ami vestirsi con abiti femminili, che non riconosca come suo il pene o i testicoli, o che una bambina detesti indossare le gonne o non voglia vedere il seno crescere. Questi bambini non sentono di appartenere al genere loro assegnato alla nascita.
Sono bambini che dichiarano di sentirsi femmine, o bambine che dicono di sentirsi maschi. Questo sentimento può essere più o meno intenso: a volte è solo transitorio e crescendo viene superato; altre volte è definitivo e si intensifica con l’inizio della pubertà.
Si tratta di un fenomeno noto come organizzazione atipica dell’identità di genere. Pur nascendo del tutto uguali agli altri dal punto di vista cromosomico, gonadico e anatomico, crescendo questi bambini non si identificano con il sesso loro assegnato alla nascita.
“Se la disforia è una lieve tendenza comportamentale di una bambina a fare il maschiaccio, può darsi che quella femmina smetta di avere quel comportamento. Ma se si tratta di una questione di identità, se una bambina si sente maschio, in questo caso potrà anche smettere di comportarsi da maschio ma si sentirà ancora un maschio”, spiega a TPI Damiana Massara, psicologa dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere (Onig) ed esperta dell’età evolutiva.
“Nei bambini sono elementi in evoluzione: la percezione della identità può cambiare, specie nel passaggio puberale. Le ricerche mostrano che solo un terzo dei bambini che ha una disforia di genere da bambino continua anche da adulto. I restanti due terzi superano quella fase e ritornano a identificarsi nel genere della nascita dopo la pubertà”.
Non bisogna però assolutamente confondere le femmine che non vogliono mettere le gonne o che preferiscono giochi tipicamente maschili con la disforia di genere, tiene a precisare l’esperta. È una questione molto più complessa e profonda, persistente e continuativa: crea un forte disagio.
Il fenomeno, pur essendo oggi più tollerato e accettato che in passato, è problematico per le famiglie. I genitori considerano questi comportamenti come qualcosa che passerà.
Come si affronta la disforia di genere?
Ci sono tre modi per affrontare la questione, spiega Massara. Il primo non è preso in considerazione, non è considerato etico e consiste nel cercare di correggerli. Un altro, in auge negli Stati Uniti, è quello di enfatizzare l’identità crossgender e favorire la transizione sociale dei bambini che vivono una disforia di genere.
Il terzo modo, che la maggior parte dei professionisti europei considera il più efficace, è quello di stare in una condizione di attesa e osservazione, parlando con il bambino, capendo cosa gli succede, ma tenendo a mente che potrebbe essere una condizione passeggera.
“È una posizione molto difficile per le famiglie, data l’incertezza in cui bisogna stare”, dice Massara. “Al bambino va comunicata l’accettazione senza né favorire né forzare o estremizzare il cambiamento”.
In realtà esiste anche un quarto metodo, poco praticato in Italia. Si chiama “sospensione della pubertà”: è una terapia a base di ormoni utilizzata dagli endocrinologi pediatrici nella pubertà precoce. Da anni è utilizzata nei centri specializzati in Europa e nel mondo anglofono per concedere ai ragazzi con disforia di genere che si affacciano alla pubertà periodi più ampi di valutazione e riflessione, senza l’urgenza delle trasformazioni corporee che li destabilizza.
“Si usa in situazioni molto selezionate e approfondite e può essere utilizzata per un periodo limitato di tempo, a partire 12 anni, dopo che il bambino o la bambina hanno raggiunto il 3/4 livello Tanner dello sviluppo puberale, per un massimo di 4 anni, oltre avrebbe conseguenze negative per lo sviluppo futuro del bambino”, spiega la psicologa dell’Onig. “Ai 16 anni, secondo le attuali linee guida, si decide se proseguire con la transizione verso il genere desiderato o se sospendere il blocco della pubertà così che il corpo ritorni a funzionare secondo il sesso biologico”.
Quale differenza c’è tra transgender e transessuale?
Verso i 40 anni Edoardo ha deciso di diventare un uomo. “Mi disse: ‘Mamma, avrei intenzione di cambiare sesso’. Le risposi: ‘Se tu sei felice, perché no? Siamo tutti vicini a te’”, racconta Gilda. “A quei tempi era ancora Roberta: non sorrideva, era sempre tesa, non soddisfatta. Allora ho iniziato a partecipare a tutti gli incontri all’ospedale San Camillo. Adesso vedo mio figlio, a tutti gli effetti Edoardo, felice e bello. Questa è la sua strada. Sono orgogliosa di lui”.
La parola “transgender” è un termine ombrello dentro cui si possono identificare tutte le persone che non si sentono racchiuse dentro lo stereotipo di genere normalmente identificato come maschile e femminile. Edoardo è un transessuale, perché ha intrapreso il percorso di transizione per cambiare sesso.
L’identità di genere è invece la percezione che si ha di sé, il senso di appartenenza a un genere piuttosto che all’altro, a entrambi, o a nessuno dei due. Non sempre coincide con il sesso biologico assegnato alla nascita.
Oggi Edoardo fa il vigile urbano; iniziare come Roberta, per poi diventare uomo, non è stato facile, specialmente in un paese piccolo come Rocca di papa, in provincia di Roma.
Prima di iniziare la transizione vera e propria, si era già sottoposto a un’operazione di riduzione del seno, visto che aveva una taglia abbondante, e andava in giro con fasce molto strette per non far vedere quel poco che era rimasto. Ma era sempre infelice.
“Piano piano si è fatto strada, e l’hanno iniziato ad amare per quello che è: adesso è diventato molto più aperto, socievole, soddisfatto”, conclude sua madre. “Finalmente, complici gli ormoni e il tanto sport che fa, ha un corpo da uomo in cui potersi riconoscere. Quando è arrivato il certificato del giudice con il cambio del nome, io per la prima volta ho visto mio figlio commuoversi. Si era ritrovato con se stesso”.