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Lettera di una madre: “Non avete capito Nadia Toffa, i miei figli malati: il cancro è un dono”

Immagine di copertina
Mariangela Tarì e i suoi due bambini. Credit: Facebook/Mariangela Tarì

Bruno ha un cancro al cervello, Sofia ha la sindrome di Rett, e la madre Marinagela ogni giorno cerca il bello della vita per loro: "Devo dare a tutto questo un vestito che non sa di morte ma di vita"

“Mio figlio, Bruno 6 anni, ha il cancro. Al cervello. Medulloblastoma si chiama. Un nome indegno di essere pronunciato. Era il mio unico figlio sano. Sì. Ho una bimba più grande, Sofia, Sindrome di rett. Un destino infame”. Le parole di Mariangela Tarì indirizzate al direttore di La Repubblica arrivano dritte al cuore, sono uno schiaffo che scuote e sveglia le coscienze.

Mariangela scrive al quotidiano diretto da Mario Calabresi per difedendere Nadia Toffa. Se la prende con gli hater e con chi punta il dito contro la Iena malata di cancro perché malata di cancro. “Tutti lì a ricordare a una giovane donna, imperdonabilmente bella, brava e famosa, che lei ha il cancro. Tutti a ripetere, come in un film di Troisi, di ricordarsi che forse morirà”, scrive la donna.

Qualche giorno fa la Iena aveva scritto che il cancro è un dono ed era stata travolta da critiche e commenti negativi: “La strada faticosa per arrivare a quella frase non vi interessa. Il lavoro messo in campo dal cervello per garantirsi una sopravvivenza non vi interessa”.

E lei, Mariangela, la conosce bene quella fatica per cercare di vedere la vita come un dono, ancora. Nonostante tutto, nonostante il cancro. “Perché il cancro è un dono. È un dono, avete letto. E questo vi ha fatto imbestialire. E a dirlo, poi, una sciacquetta famosa curata sicuramente in qualche clinica privata. Il sottotesto non vi interessa”.

Bruno ha sei anni e un cancro al cervello, la sorellina Sofia ha la sindrome di Rett. “Un destino infame”, scrive.

“Ho desiderato morire. Ma ora devo vivere. Come Nadia Toffa. E per vivere, e per lottare, e per sperare, devo trovare il bello. Devo dare a tutto questo un vestito che non sa di morte ma di vita”.

Tutto il dolore va trasformato in possibilità, suggerisce la mamma di Bruno e Sofia: “Ed eccolo il dono che tanto vi ha mortificati. Il dono non è il cancro, il dono non è una malattia propria o dei propri cari. Dio!!! Mi caverei gli occhi e mi butterei nel fuoco per salvare i miei bimbi”.

“Il dono è cogliere in mezzo alla bufera qualcosa che ne dia un senso. Il mio dono è stato comprendere fino in fondo che la vita è qui ed ora. Che potrebbe non esistere un domani”, scrive ancora la donna.

E allora la bellezza la si ritrova nelle piccole cose. “Allora il profumo del sugo di mia madre o la risata di un amico me li godo come se non ci fosse un domani. E il tempo. Ho tutto il tempo per i miei figli. Non corro. Mi soffermo sul loro odore, i capelli, la pelle, le parole”.

E ancora: “Me li vivo, oggi. Non ho fretta la sera, potrebbe essere l’ultima, e allora leggo loro libri, canto, rido. Ho avuto il dono di percepirmi sana. Non lo sapevo. Cammino, parlo. Mia figlia no. Devo ringraziare per me”.

“Ho avuto il dono di scoprire la forza di mio marito, il suo amore. Ho avuto il dono di scoprire la tenerezza di mia cognata, la determinazione di mia sorella, le lacrime di mio cognato. Ho avuto il dono di sentire i nonni positivi, vicini, uniti. Ho scoperto quanto vale un amico vero. Ho aggiunto sorelle e fratelli al mio percorso. E ho scoperto che il cielo è meraviglioso dopo una giornata di inferno. Potrei continuare la lista dei miei doni”.

E scrive ancora: “Così come potrei elencarvi tutti i punti del mio corpo in cui sento il dolore per i miei bimbi. Ho passato gli anni più belli della mia vita, e di quella dei miei figli, in un ospedale. Ho perso tutto. Non ho niente”.

“Lasciatemi, vi prego, l’illusione di aver avuto in cambio almeno alcuni Doni. Lasciate me e Nadia in questa illusione. Vi prego, non ricordateci che, forse, il peggio deve ancora venire. Perderemmo le forze.
Perderemmo la battaglia”, conclude Mariangela.

Che cos’è la sindrome di Rett

La sindrome di Rett è una patologia neurologica dello sviluppo, che colpisce prevalentemente che colpisce nella maggior parte dei casi soggetti di sesso femminile.

La malattia è congenita interessa il sistema nervoso centrale. Come si legge sul sito di Airett Onlus, associazione italiana Rett, “nella forma classica, le pazienti presentano uno sviluppo prenatale e perinatale normale. Dopo un periodo di circa 6-18 24 mesi però, le bambine presentano un arresto dello sviluppo seguito da una regressione. In tale fase le pazienti perdono le abilità precedentemente acquisite come l’uso finalistico delle mani e il linguaggio verbale. Diventa evidente una riduzione delle capacità comunicative e compaiono tratti autistici”.

Inoltre, si legge ancora, le bambine cominciano a manifestare i “movimenti stereotipati delle mani tipo lavaggio e spesso sono presenti segni come digrignamento dei denti e sospensione del respiro”.

Si registra un rallentamento della crescita della circonferenza cranica che risulta in microcefalia. Nello stadio successivo, “si assiste ad una diminuzione delle sintomatologia autistica e ad un miglioramento nelle interazioni sociali, nonostante l’incapacità di parlare, l’aprassia e le stereotipie manuali persistano, la deambulazione molte volte non è più autonoma, si evidenzia l’incapacità di controllo dei movimenti”.

Poi diventano più evidenti l’iposviluppo somatico e la scoliosi e spesso si manifestano anche delle crisi convulsive. L’ultimo stadio si manifesta solitamente dopo i dieci anni.

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