Perché alcune scuole pubbliche italiane oggi hanno bisogno di farsi pubblicità classista?
Sono tanti gli istituti che nei documenti di autovalutazione richiesti dal ministero hanno scelto di elogiare l'assenza di stranieri, disabili e ragazzi svantaggiati
“Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo.
Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. La percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente, mentre si riscontra un leggero incremento dei casi di DSA. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento”.
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Queste sono le parole scritte nel Rav, il rapporto di autovalutazione che le scuole italiane devono compilare su richiesta del Miur, dal liceo classico Ennio Quirino Visconti, il più antico liceo pubblico di Roma.
Sono parole che colpiscono, specialmente se scritte da una scuola pubblica, per l’automatica corrispondenza che dipingono tra l’assenza di eterogeneità del contesto e il migliore apprendimento degli studenti.
Ma il liceo Visconti non è il solo ad aver espresso questo tipo di considerazione.
Il caso è anzi rappresentativo di un trend molto diffuso in Italia, che vede molte scuole pubbliche corredare l’autovalutazione richiesta con commenti sulla qualità dell’insegnamento offerto basati unicamente sul contesto socio-economico o sulla nazionalità dei propri studenti.
Studiando i Rav di decine di scuole di tutta Italia, da Milano a Roma, da Firenze a Genova, passando per Bologna, emerge un quadro preoccupante, specialmente per quanto riguarda i licei ubicati nel centro delle città, che tipicamente ospitano un ambiente omogeneo e privilegiato.
Ci siamo chiesti come mai alcuni istituti abbiano deciso di descriversi utilizzando parole elitarie e classiste, e per giunta all’interno di documenti pubblici di autovalutazione.
Una prima parziale risposta si ottiene considerando che il rapporto di autovalutazione è un documento molto ampio, non certo riducibile ai 1.500 caratteri richiesti dalla sezione “contesto – popolazione scolastica”, e che dev’essere compilato seguendo le indicazioni del Ministero, che pone specifiche domande sulle caratteristiche socio-economiche delle famiglie degli studenti.
Quello che le domande non chiedono, però, è un giudizio sui dati forniti. Si devono riportare i dati sulla presenza di stranieri e disabili, o di studenti provenienti da famiglie svantaggiate, ma in nessun punto viene richiesto un parere su come tali dati influenzino le opportunità di apprendimento degli alunni.
“Quando, nella sezione dedicata al contesto in cui opera la scuola, si inseriscono, alla voce ‘Opportunità’, frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, si travisa completamente il ruolo della scuola” ha dichiarato la ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli, in un comunicato.
“La scuola deve essere inclusiva” aggiunge la ministra, giudicando “gravi le allusioni classiste nei Rapporti di autovalutazione” fornite da alcuni licei italiani.
Una simile descrizione del contesto scolastico, infatti, può avere delle conseguenze molto concrete.
Se è vero che le scuole non possono escludere nessun allievo basandosi sul suo background socio-economico, infatti, è anche vero che nel gestire un eventuale esubero di studenti (reso molto probabile dal recente boom di iscrizioni al liceo classico) devono seguire un criterio territoriale.
Una scuola del centro dovrà quindi preferire uno studente che abita nelle vicinanze (e quindi con più probabilità proveniente da una famiglia benestante), ad un ragazzo di periferia.
Descrivere l’ambiente scolastico come particolarmente consono e vantaggioso per uno studente italiano, alto-borghese e normodotato potrebbe quindi spingere un maggior numero di studenti corrispondenti a tale descrizione (e residenti in centro) ad iscriversi al liceo, e contemporaneamente portare chi si discosti dal modello dipinto a cercare un contesto diverso per paura di trovare un contesto ostile.
Le possibilità di accesso degli studenti “outsider” risulterebbero in questo modo, nei fatti, maggiormente limitate.
Questo non significa naturalmente che all’interno delle scuole in questione si respiri davvero un clima discriminatorio o classista, come hanno voluto sottolineare i tanti studenti del Liceo Visconti di Roma che abbiamo incontrato.
Clara Rech, preside dello storico liceo sito in piazza del Collegio romano, ha difeso l’operato della sua commissione scolastica: “Abbiamo fornito una valutazione tecnica, fotografando la realtà della scuola in un modo il più possibile oggettivo, senza dare giudizi nel merito.
La nostra non è una scuola svantaggiata, tanto che i nostri interventi didattici, anziché doversi dedicare a queste problematiche come accade in altre scuole, possono direttamente essere rivolti a ragazzi che non soffrono questi disagi”.
Ma non solo, “questo ci carica di una responsabilità ulteriore, perché se io insegno ad un analfabeta faccio presto a far vedere quanto sono stato bravo.
Se io insegno ad un ragazzo attrezzato culturalmente e familiarmente, il mio compito è molto più raffinato e sarà molto più difficile far apprezzare il valore aggiunto che dà la scuola, e questo è il senso di quella frase inserita nel rapporto”.
Le parole della preside, che sottolinea come il suo sia un liceo antifascista e antirazzista, tradiscono comunque una concezione ben precisa del compito della scuola, legato più alla trasmissione di conoscenze che non alla formazione di cittadini capaci di muoversi in un contesto interculturale ed eterogeneo.
Un’opinione molto diversa è invece quella espressa dal preside del Liceo Labriola, che si trova sempre a Roma, ma nel municipio X, quello di Ostia.
Secondo il professor Ottavio Fattorini, infatti, “bisogna vedere il percorso verso cui sta andando il sistema scolastico: da un certo punto di vista, fare sì che ci siano sempre più disabili e ragazzi di nazionalità straniera, potrebbe essere l’occasione per saggiare didattiche più inclusive”.
Nel Rav del suo istituto non si fa cenno a situazioni più o meno svantaggiose legate alla provenienza degli studenti: “Se la centratura didattica è impostata esclusivamente nel far acquisire delle conoscenze nel più breve tempo possibile, l’inserimento dello straniero o del disabile è considerato tempo perso o un disturbo.
Se invece è focalizzata anche sulle competenze di cittadinanza e su capacità trasversali, e quindi sulle competenze più che sulle conoscenze, avere l’occasione di lavorare in maniera inclusiva, che sia con stranieri o con disabili, rappresenta un’opportunità per la scuola e per gli studenti”.
Le parole utilizzate nell’autovalutazione di tante scuole appaiono quindi come un tradimento all’educazione alla cittadinanza, all’inclusione, alla relazione con l’altro, funzioni intrinseche della scuola pubblica.
Giuseppe Soddu, che dirige il Liceo Parini di Milano, un altro storico istituto attaccato per il documento di autovaluzione, ha però voluto precisare:
“Il nostro Rav è stato frainteso, il senso di quello che abbiamo scritto è che il compito della scuola è elevare il livello culturale dei propri studenti, che nel nostro caso è già alto, ma non è scritto da nessuna parte che abbiamo problemi ad inserire alunni che non provengono da un certo ceto sociale”.
E, avendogli domandato se creda che questo tipo di commento sia un modo per darsi una certa immagine all’esterno al fine di mantenere questa “situazione favorevole”, ci ha risposto:
“Assolutamente no. Il Rav non è il documento con cui le famiglie scelgono un istituto. Non credo che nessuna scuola lo intenda come uno strumento di propaganda”.
L’autovalutazione viene però pubblicata anche sui siti delle scuole, risultando quindi facilmente accessibile e consultabile da qualsiasi genitore interessato.
A prescindere dalle intenzioni delle scuole che redigono il documento, quindi, questo potrebbe comunque essere utilizzato come strumento di informazione, e rivelarsi determinante nella scelta delle famiglie in positivo quanto in negativo.
Nella scelta del linguaggio da utilizzare, le commissioni scolastiche dovrebbero quindi comunque tenere conto del possibile impatto del documento sugli studenti.
Nel Rav del Liceo scientifico Enrico Fermi di Bologna non è presente alcun commento di merito, e anzi si legge che “la percentuale di studenti stranieri non è rilevante”, da intendersi nel senso di irrilevante ai fini della programmazione, che resta la stessa, come spiega il preside Maurizio Lazzarini.
“Il contesto non te lo puoi scegliere” spiega Lazzarini. “Io mi sento nel secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, perché penso davvero che la scuola sia lo strumento principe per rimuovere gli ostacoli alla libertà e all’eguaglianza. Come diceva Don Milani, nel momento in cui tu spingi quelli che sono sotto, si alzano tutti quanti”.
Secondo il preside infatti “è nella eterogeneità, è mettendo insieme il figlio del rettore e il figlio del salumiere all’angolo che si fa la qualità della scuola”, che sembra avere invece “interrotto il suo ruolo di ascensore sociale”.
Pur essendo favorevole al Rav e agli strumenti di autovalutazione in generale, secondo Lazzarini le classifiche tra scuole (come i sette livelli del Rav) incentivano la creazione di un clima di competizione tra gli istituti, fomentato da giornali e social network, che spinge i presidi a competere per il maggior numero di iscrizioni anche attraverso i documenti ufficiali.
“In conferenza metropolitana negli anni scorsi si è fatto a gara per le iscrizioni, perché è prestigioso dire ‘Là c’è la fila’. Anche l’anno scorso, da primo classificato di Eduscopio della fondazione Agnelli, l’ho definita bassa macelleria”.
Il clima competitivo è uno dei responsabili della preoccupante tendenza verso l’autoritratto classista anche secondo Simone Giusti, insegnante, formatore e consulente di scuole nonché socio della società Php, che si occupa di stilare bilanci sociali di cooperative, scuole ed altri soggetti no profit.
“In generale c’è sicuramente, soprattutto da parte di opinione pubblica e stampa, una forte pressione verso la competitività e verso la scelta di contesti ‘puri’, non contaminati da soggetti che si ritiene possano rendere meno fruttuoso il percorso.
Questo è molto grave perché nasconde sostanziale sfiducia nelle possibilità della scuola di cambiare il destino dei figli; contano più i compagni di classe che la qualità degli insegnanti”.
Anche ammesso che il contesto di provenienza possa peggiorare drasticamente le opportunità di uno studente, la scuola dovrebbe a maggior ragione adoperarsi per spezzare questo meccanismo, e garantire a tutti l’uguaglianza sostanziale e il diritto allo studio.
Questo invece non sempre avviene, come si legge nel rapporto PISA (Programma per la valutazione internazionale dell’allievo) promosso dall’OCSE.
In Italia infatti il 26 per cento per gli “studenti svantaggiati” (ossia provenienti da contesti socio-economici e culturali depirvati) viene bocciato almeno una volta, contro il 17 per cento del totale degli studenti, situazione che può facilmente portare ad un allontanamento dagli studi.
La spinta verso la creazione di contesti omogenei verrebbe secondo Giusti poco contrastata dalle scuole, a cui “conviene molto credere che sia così [ossia che un contesto ‘impuro’ peggiori le opportunità degli studenti], perché li esime dall’approfondire, dal migliorare le modalità di apprendimento.
Si instaura un circolo vizioso: mi dici che non funziono perché ci sono i poveracci e io mi auto-giustifico così”.
Per sbloccare la situazione “servirebbe un pubblico di lettori (dei documenti di autovalutazione) più consapevole e attento, che chieda di non essere preso in giro ma di avere a disposizione davvero dati quantitativi e qualitativi”.
Le scuole andrebbero inoltre affiancate nella redazione del Rav, dal momento che “non è semplice svolgere questo tipo di attività senza averla mai fatta prima, non nasce da sé.
Non c’è stato un cambiamento culturale e di competenza all’interno delle scuole. Serve più formazione ma soprattutto abituarsi ad avere più consulenza”, la conclusione di Giusti.
A cura di Gianluigi Spinaci e Noemi Valentini