Ricordando il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo
Il figlio del pentito Santino Di Matteo fu sequestrato da membri di Cosa Nostra, dopo più di due anni di prigionia fu strangolato e il suo corpo sciolto nell'acido
Era il 23 novembre del 1993 quando Giuseppe Di Matteo, il figlio tredicenne del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, fu rapito in un maneggio da un gruppo di appartenenti a Cosa Nostra, nella speranza di indurre l’uomo a ritirare le accuse che stava muovendo contro alcuni mafiosi.
L’uccisione del ragazzo, avvenuta l’11 gennaio del 1996, ebbe molta risonanza sulla cronaca nazionale perché, dopo averlo strangolato, i suoi aguzzini sciolsero il corpo del piccolo Di Matteo nell’acido. Per questa ragione i suoi resti non furono mai ritrovati.
Giuseppe Di Matteo amava andare a cavallo e i rapitori – un gruppo di mafiosi che agivano su ordine del boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, allora latitante – si recarono nel pomeriggio del 23 novembre nel maneggio di Altofonte travestiti da agenti della Dia.
“Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi”, ha raccontato il pentito Gaspare Spatuzza, che partecipò al rapimento. Gli uomini fecero infatti credere al bambino che lo avrebbero condotto dal padre, che si trovava in una località protetta fuori dalla Sicilia. Il bambino ne era felice e diceva: “papà mio, amore mio”.
Il 1 dicembre 1993 la famiglia Di Matteo ricevette alcune foto del bambino con in mano un quotidiano del 29 novembre e un biglietto con la richiesta di far tacere il padre. All’epoca, Santino Di Matteo, ex membro del clan di Altofonte (Palermo), vicino ai corleonesi, stava fornendo indicazioni agli inquirenti sui responsabili della strage di Capaci e dell’uccisione dell’esattore di Salemi Ignazio Salvo.
Dopo un iniziale cedimento il padre del ragazzo, sebbene preoccupato per la sorte del figlio, decise di proseguire la collaborazione con la giustizia.
(La foto di Giuseppe Di Matteo durante la prigionia. Il pezzo continua dopo la foto.)
Durante il periodo di oltre due anni in cui fu prigioniero, Giuseppe Di Matteo fu trasportato da una provincia all’altra della Sicilia e passò per le mani di decine di mafiosi. Secondo quanto riferito dal pentito Vincenzo Sinacori, da febbraio ad agosto del 1995 il ragazzino fu anche affidato a persone appartenenti al clan Messina Denaro, quello del boss Matteo, latitante dal 1993.
Mentre si trovava in una villetta di Castellammare del Golfo (Trapani), Di Matteo fu rinchiuso in un bagno e il cibo gli veniva passato da un buco nella porta. La sua ultima prigione fu in una villa bunker a San Cipirrello (Palermo).
L’ordine di uccidere il ragazzo, ormai fortemente indebolito dalla lunga prigionia, fu dato da Giovanni Brusca quando seppe di essere stato condannato dalla Corte d’Assise di Palermo per l’omicidio Salvo, anche a causa delle rivelazioni di Santino Di Matteo. “Liberati du cagnuleddu”, disse al fratello Enzo. A eseguire l’ordine furono Vincenzo Chiodo, Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo.
Per il sequestro e l’uccisione del piccolo Di Matteo oltre a Giovanni Brusca sono stati condannati un centinaio di mafiosi tra cui Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Salvatore Grigoli, Matteo Messina Denaro e Gaspare Spatuzza. “Per fermare il pentito Di Matteo abbiamo scelto il ricatto più ignobile, prendergli il figlio”, ha detto anni dopo uno dei carcerieri, Giuseppe Monticciolo. “Così credevamo di aver risolto il problema ma invece andò a finire che quel bambino morto ammazzato, un bimbo, sconfisse la mafia. Fu peggio di una sconfitta militare, perché Cosa nostra perse la faccia e il rispetto della gente”.