Ricordando Giorgiana Masi
Il 12 maggio 1977 la studentessa di 18 anni veniva uccisa da un colpo d'arma da fuoco durante una manifestazione del Partito Radicale
Il 12 maggio 1977 rimaneva uccisa durante una manifestazione di piazza, colpita da un proiettile, la studentessa Giorgiana Masi.
Appena 18enne, la giovane si era recata alla manifestazione organizzata nel centro di Roma per quel giorno dal Partito Radicale per raccogliere le firme per i referendum contro la legge Reale e contro il finanziamento pubblico ai partiti e celebrare il terzo anniversario della vittoria del no nel referendum sull’abolizione del divorzio.
Tuttavia, quella manifestazione non era autorizzata. Quegli anni erano anni di scontri di piazza, i cosiddetti anni di piombo, in cui molte manifestazioni sfociavano nella violenza e nel sangue, come quella del 21 aprile 1977, in cui alcuni militanti del movimento di sinistra extraparlamentare Autonomia Operaia ingaggiarono una sparatoria con le forze dell’ordine, uccidendo l’agente di polizia Settimio Passamonti.
Fu in seguito a questo fatto che Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno, decise di proibire fino al 31 maggio del 1977 qualsiasi manifestazione politica a Roma.
“Deve finire il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana”, riferì il ministro Cossiga il giorno successivo alla morte di Passamonti.
Tuttavia, il Partito Radicale sfidò il divieto del ministero, e decise di manifestare ugualmente, convocando un sit-in nonviolento – come da consolidata tradizione radicale – in piazza Navona: a loro si unirono diverse formazioni della sinistra extraparlamentare, composte anche da elementi turbolenti. A causa del clima di tensione, la polizia schierò 5mila agenti in assetto antisommossa e numerosi agenti in borghese presenti all’interno del corteo.
Durante la manifestazione si verificarono diversi incidenti, come il lancio di bombe incendiarie e l’esplosione di colpi d’arma da fuoco. Nel frattempo il corteo si mosse in direzione del rione di Trastevere, in una situazione di totale confusione. In questa situazione, otto persone – sia manifestanti che forze dell’ordine – vennero ferite, e la studentessa Giorgiana Masi fu ferita a morte da un colpo di pistola nei pressi di ponte Garibaldi. Anche il carabiniere Francesco Ruggero e la manifestante Elena Ascione furono feriti da colpi di arma da fuoco di provenienza ignota.
Chi uccise Giorgiana Masi è rimasto tutt’oggi ignoto. La sentenza del 1981 parla apertamente di “mistificatori, provocatori e sciacalli (estranei sia alle forze dell’ordine sia alle consolidate tradizioni del Partito Radicale)”, ma negli anni la vicenda ha continuato a essere elemento di dibattito, soprattutto per l’ampia presenza di agenti in borghese presenti nella manifestazione, più volte denunciata dal leader radicale Marco Pannella.
Nel 2003, Francesco Cossiga dichiarò alla trasmissione Report che se avesse preso per buono ciò che un magistrato e alcuni funzionari di polizia gli insinuarono sulla morte di Giorgiana Masi, “sarebbe stata una cosa tragica”.
Fu proprio in seguito a queste dichiarazioni che l’ex presidente della Commissione parlamentare sulle stragi, Giovanni Pellegrino, ritenne possibile che quel 12 maggio 1977 “”ci possa essere stato un atto di strategia della tensione, un omicidio deliberato per far precipitare una situazione o determinare una soluzione involutiva dell’ordine democratico”.
Nonostante gli esecutori materiali dell’uccisione di Giorgiana Masi siano ancora ignoti, ne esistano prove riguardo un coinvolgimento di settori esterni o livelli superiori in questo fatto, molti considerano l’episodio come inseribile in un’ottica di strategia della tensione: persino nella targa in memoria di Giorgiana Masi, situata nel luogo della sua morte, si legge “uccisa il 12 maggio 1977 dalla violenza del regime”.
Il 25 gennaio 2007, Francesco Cossiga riferì al Corriere della Sera che riguardo la morte di Giorgiana Masi “la verità la sapevamo in quattro: il procuratore di Roma, il capo della mobile, un maggiore dei carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l’ho detta a un deputato di Rifondazione che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore al dolore”.