L’assurdo dramma dei ricercatori precari: “Ci sono leggi e fondi per stabilizzarci, ma il CNR preferisce usarli per avanzamenti di carriera”
Nonostante le norme e i fondi siano stati previsti, alcuni enti di ricerca, tra cui il CNR, non hanno stabilizzato una parte dei loro ricercatori precari
“Ho scelto di fare ricerca perché mi piace, non certo per le condizioni economiche”. Claudia C. ha le idee molto chiare: la ricerca quello che vuole fare nella vita, è il lavoro che svolge con passione da 15 anni, nonostante tutte le difficoltà che questo mestiere comporta. Nonostante oggi, a 41 anni e con due figli, si trovi a essere considerata una precaria di “serie B”.
Claudia C. lavora al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) da 9 anni, con assegni di ricerca o collaborazioni coordinate continuative. In precedenza ha lavorato con contratti da precaria all’università per altri 6 anni. Non ha mai avuto un contratto a tempo determinato al CNR e questo oggi ha un peso.
Nel 2017 il governo Gentiloni ha dato il via alla stabilizzazione per i precari della ricerca, stanziando dei fondi col decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, c.d. “decreto Madia“, poi convertito in legge.
Il decreto Madia distingue il personale con rapporto di lavoro a tempo determinato (c.d. comma 1), per cui sussiste un obbligo di stabilizzazione, dal personale che lavora sulla base di un assegno di ricerca, una collaborazione coordinata e continuativa o di altre forme atipiche (c.d. comma 2).
Il percorso per le stabilizzazioni è poi proseguito con il lavoro della commissione Cultura della successiva legislatura e ad oggi, come spiega a TPI Claudio Argentini del coordinamento USB per la ricerca, esistono “tutti i presupposti, normativi ed economici”, per completare le stabilizzazioni sia dei lavoratori del comma 1 sia di quelli del comma 2.
Il problema è che alcuni enti di ricerca, come il CNR, ma anche l’INAF (Istituto nazionale di astrofisica) e l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) dopo aver avviato le stabilizzazioni dei ricercatori con contratto a tempo determinato, hanno bloccato quelle degli assegnisti di ricerca o di chi aveva un contratto “atipico”.
Per questo motivo, il 21 marzo l’USB ha organizzato un sit-in di protesta a piazzale Aldo Moro, in corrispondenza di un convegno della “Pastorale della ricerca”, a cui parteciperanno i presidenti Massimo Inguscio (CNR), Fernando Ferroni (INFN), Nicolò D’Amico (INAF) e Carlo Doglioni (INGV).
Precari di serie “B”
“Sono un precario della ricerca ormai dal lontano 2002, anno del mio primo assegno di ricerca”, racconta a TPI P.M., anche lui ricercatore compreso nel comma 2.
“In tutti questi anni ho sempre avuto contratti di tipo ‘parasubordinato’, quindi neanche a tempo determinato, con il risultato che ad oggi vedo praticamente compromessa la possibilità di avere una pensione anche minima. Sono padre di due figli”, sottolinea.
“Sono quello che si dice un precario di serie B. Quelli, più fortunati, di serie A sono coloro che hanno avuto contratti di lavoro dipendente a tempo determinato”, prosegue. “Questo non perché la mia attività di ricerca e/o la mia bravura sia di livello inferiore ma perché ho lavorato soprattutto all’interno dell’università o dell’INAF e in questi enti i contratti a tempi determinato nella ricerca sono molto rari. Tra l’altro nel 2011 sono stato giudicato idoneo al ruolo di ricercatore presso INAF in un concorso non riservato, ma a tutt’oggi non c’è stato nessuno scorrimento di graduatoria”.
“Negli ultimi anni ho spostato il mio interesse scientifico nel CNR e ho partecipato a un concorso per la stabilizzazione riservato ai precari comma 2 non avendo diritto all’assunzione diretta perché riservata ai ‘più fortunati’ colleghi che hanno invece avuto contratti a tempo determinato (sarebbe bastato un anno!)”.
Anche la prova del concorso, però, come spesso viene denunciato, non è risultata del tutto trasparente.
“Al concorso sono risultato idoneo e mi trovo in graduatoria dietro a persone con un numero di pubblicazioni molto più basso del mio, con un esperienza in collaborazioni internazionali molto minore della mia e con curriculum in generale molto meno ‘corposi’. Dato che l’orale è consistito solo in una discussione sulla propria attività di ricerca (senza quindi particolari test di capacità o padronanza della materia o accertamenti di competenze di sorta) e dato che la mia attività e il mio curriculum sono del tutto attinenti al tematica del concorso, mi chiedo quali siano stati i criteri che hanno guidato la commissione nello stilare la graduatoria”, dice il ricercatore. “Beh ma questa è solo ironia, so molto bene, anche alla luce della mia lunga esperienza, quali siano stati i criteri effettivamente usati”.
Anche Claudia C. è risultata idonea a un concorso interno del CNR ed è entrata in graduatoria, ma non sa se gli scorrimenti saranno sufficienti a farla rientrare nella stabilizzazione.
“Per diventare commissari nei concorsi ci sono state delle sgomitate incredibili tra i direttori d’istituti”, denuncia. “Tutti volevano entrare in commissione e poi abbiamo capito il perché. Per la maggior parte questi concorsi hanno fatto entrare persone degli istituti dei commissari, anche se giovanissimi e con poca esperienza, che sono finiti davanti a persone molto più anziane e con pubblicazioni importanti. Nel nostro caso è stato proprio eclatante, sono rimaste fuori persone con più di 40 anni e sono entrati i giovanissimi. Doveva essere il contrario, per anzianità e merito”.
“Ora la situazione si complica”, sottolinea Claudia, “perché quando finiscono i contratti le persone vanno a casa. Io sono part time, ad esempio, quindi ho una ricaduta economica importante sulla mia situazione”.
“Noi siamo molto arrabbiati. Non essendo stati rispettati i criteri ora le graduatorie devono scorrere fino alla fine, perché è giusto così, è un nostro diritto. Sono pronta a fare ricorso se questo non dovesse accadere”.
“Lo sappiamo, fare ricerca in Italia vuol dire infilarsi in un ginepraio, ma è quello che voglio fare e cercherò di perseguire questa strada”, promette Claudia.
Il rischio di perdere il lavoro
Mario S. è un ricercatore alla soglia dei 40 anni. Ha lavorato come precario per vari enti di ricerca e lavora al CNR dal 2012. Al concorso interno è risultato idoneo, ma anche lui rischia di non essere stabilizzato perché non si sa se e quanti scorrimenti ci saranno in graduatoria.
Tra poco il suo assegno di ricerca scadrà, e non potrà più essere rinnovato perché c’è un limite di sei anni. Se la graduatoria non scorrerà rischierà di perdere il lavoro.
“Noi siamo determinati ad essere stabilizzati”, spiega Mario a TPI, “c’è una legge che ci riconosce questo diritto e ci sono i soldi per attuarla. Ma non solo, molti di noi già portano soldi al CNR. Grazie al mio lavoro ho portato un contratto di tre anni al mio istituto, per 20mila euro l’anno, ma rischio di non usufruirne. Sarà qualcun’altro a farlo”.
“Ma il nostro lavoro ha anche un valore enorme per la trasmissione di competenze”, prosegue Mario. “Con i soldi che ho portato al mio istituto si potrebbe fare un assegno o un contratto di ricerca a un giovane in formazione e cominciare a trasmettergli quello che già so. Senza questa operazione di passaggio di conoscenze la situazione per l’istituto diventa critica”.
Cosa succederà se la graduatoria non scorrerà?
“Non posso andare all’estero, perché ho una famiglia e dei figli, a meno che non dovesse arrivare un’offerta imbarazzante, nel qual caso potrei pensarci. Probabilmente se non dovessi entrare nello scorrimento andrò a lavorare nel privato”, risponde Mario.
Alessandro Orru, ricercatore sardo classe 1975, ha già dovuto fare questa scelta, perché la sua borsa di studio è già scaduta.
“Dopo 4 anni di assegni di ricerca e borse di studio al CNR a metà gennaio mi è scaduto il contratto e quindi ormai sono fuori”, dice a TPI. “Mi sto adattando a fare altri lavori, d’altra parte bisogna pur vivere, pagare le bollette. Dobbiamo andare avanti fino a quando al CNR si daranno una mossa. In questo momento quindi sto insegnando a scuola”.
“Spero, anzi, pretendo che la graduatoria scorra, perché il mio lavoro è quello”, sottolinea Alessandro. “Dal 2004 sto facendo attività di ricerca, in Sardegna e fuori, ho lavorato 5 anni all’Istituto Mario Negri di Milano, quindi io pretendo che le graduatorie scorrano, e scorrano prima possibile. Anzi, noi pretendiamo anche che il CNR ci reintegri, perché se – come dicono – vogliono stabilizzarci nel 2020, nel frattempo loro si devono impegnare affinché siamo reintegrati. Non possiamo aspettare di fare ricerca nel 2020”.
Stabilizzare oppure no? Una scelta “politica”
“Con le stabilizzazioni stiamo coprendo due generazioni di ricercatori precari, quelli di 45 anni, che hanno le caratteristiche dei comma 1, e quelli intorno ai 35, che rientrano nel comma 2“, spiega Claudio Argentini di USB. “Invece, bloccando le stabilizzazioni e usando i fondi per altro, come stanno facendo questi enti, il rischio è che avremo una popolazione più giovane reclutata a tempo determinato, e i precari che invece hanno lavorato fino ad adesso resteranno ancora precari”.
“Esistono le condizioni sia normative sia economiche sono per la stabilizzazione di tutto questo personale”, sottolinea il sindacalista. “Il governo Gentiloni, e in particolare del ministro Madia, avevano stanziato dapprima per il CNR 40 milioni e per gli altri enti una cifra più piccola”.
“Successivamente, grazie al lavoro fatto dopo le elezioni con la commissione Cultura, è stato stanziato per le stabilizzazioni l’utilizzo dei fondi premiali, che non sono continuativi ma vengono stanziati anno per anno ai vari enti, a seconda della produzione anche scientifica. Questo ha determinato delle condizioni per cui tutti i precari inseriti nel comma 1 e tutto il personale che stava in forme atipiche hanno un’aspettativa di assunzione”.
Per le stabilizzazioni il CNR ha ricevuto un budget di circa 94 milioni di euro, e finora ne ha utilizzati 61, realizzando circa 1.200 assunzioni. Esisteva infatti un vincolo ella legge Madia per cui, entro il 31 dicembre, dovevano essere usati per le stabilizzazioni 40 milioni. Il CNR doveva inoltre, come obbligo, aggiungere 20 milioni. Così arriviamo ai 60 milioni utilizzati. Assumere un ricercatore costa infatti, secondo le loro stime, intorno ai 50mila euro, un tecnico intorno ai 46mila.
Che ne sarà dei restanti 33 milioni, che secondo l’USB corrispondono a più di 600 assunzioni?
“Attraverso una serie di interpretazioni contestabili, che noi come USB abbiamo sollevato anche in tribunale, ottenendo dei risultati, questi centri di ricerca stanno destinando i fondi non solo sulle stabilizzazioni, ma anche per altri utilizzi”, aggiunge Argentini.
“Il CNR ad esempio domattina dovrebbe approvare allargamenti di graduatorie per i dirigenti, mentre INFN e INAF stanno facendo dei concorsi aperti”.
“Per assumere tutti i precari del centro occorrerebbe una cifra tra i 102 e i 104 milioni, quindi con i 94 milioni siamo molto vicini al completamento delle stabilizzazioni”, spiega il sindacalista. “L’utilizzo dei fondi per altri fini, invece, riduce questi 600 – assumibili già nel 2019 – probabilmente a sole 200 assunzioni”.
“Noi non vogliamo bloccare il reclutamento oltre al precariato”, sottolinea Argentini, “perché tra quota 100 e l’età media dei lavoratori piuttosto alta, già nel 2020 potrebbe entrare tantissimo personale (prevediamo addirittura mille assunzioni nel prossimo biennio, oltre ai precari). Quota 100 libererà probabilmente solo al CNR tra le 450 e le 650 posizioni nel prossimo triennio. Ma questi fondi sono stati destinati per fare stabilizzazioni. Il reclutamento ordinario si può fare dal 2020”.
Ma c’è di più. La legge Madia, oltre ai commi 1 e 2 sulle stabilizzazioni, prevedeva anche il mantenimento in servizio, il cosidetto comma 8. In pratica, il ricercatore può rimanere in servizio con una forma di lavoro flessibile fino a quando non sia stabilizzato dall’ente.
“Questo è stato applicato efficacemente per chi aveva il tempo determinato, i cui contratti sono stati prolungati fino all’assunzione. Così il precario non ha avuto un danno”, spiega Argentini. “Invece sugli assegni di ricerca il comma 8 non è stato applicato. Il titolare di assegni di ricerca non viene infatti ritenuto un precario dell’ente di ricerca, ma un precario dei diversi istituti in cui è suddiviso il CNR, quindi i direttori non l’hanno applicato, se non quando lo volevano loro”.
Argentini parla di una “de-responsabilizzazione dell’ente centrale”. Il CNR non ostacola gli istituti dal rinnovare i contratti, però di fatto non fa niente per spingerli a farlo.
È per questa situazione che Alessandro Orru, il ricercatore sardo, non si è visto rinnovare la sua collaborazione con il CNR.
“Siamo in una zona grigia, una terra di nessuno dove nessuno si vuole assumere delle responsabilità”, dice il ricercatore. “C’è una sorta di rimpallo di responsabilità dai singoli dipartimenti alla sede centrale. Nessuno si vuole prendere carico dei rinnovi di chi è in scadenza o di chi, come me, è già scaduto. È anche l’ente che deve dare delle linee guida ai dipartimenti per far capire come si devono comportare, ma se ne lavano le mani”.
“Ci sono altri entri, come l’ISPRA, l’ISS e il CREA, che sono intervenuti anticipando i finanziamenti necessari al rinnovo dei contratti anche sugli atipici”, spiega Argentini. “Quindi il comma 8 è stato efficacemente applicato anche ai precari del comma 2. È proprio una posizione del CNR che evidentemente porta a questa situazione. Noi temiamo che a un certo punto fermino lo scorrimento delle graduatorie del comma 2 e poi la gente che sta in fondo non si trovi più neanche in servizio e quindi diventa un problema secondario. I problemi nel CNR sono diversi, tutti risolvibili ma di fatto lasciati così, senza soluzione”.
“Ci deve essere un impegno da parte dell’ente a rinnovare gli assegni in scadenza e reintegrare i ‘licenziati’, come li chiama USB”, chiede Alessandro Orru. “Noi che siamo in questa situazione non siamo usciti fuori dal nulla, l’ente sapeva che c’era questa situazione da diversi anni. Non è un problema nato oggi. Lo stanno affrontando oggi, per loro comodità, ma era un problema che già si conosceva, doveva essere affrontato prima”.
La situazione negli altri enti di ricerca
La percentuale di stabilizzandi, che nel CNR è un po’ superiore al 50 per cento, nel caso di INFN e INAF scende al di sotto del 40 per cento del totale, denuncia USB.
Per quanto riguarda l’INAF, il sindacato sostiene che “è in una situazione similare al CNR perché ha altre graduatorie quindi potrebbe assumere i comma 2. Potrebbe assumere i comma 1 ma non li ha completati”.
L’INFN ha invece “non ha completato le stabilizzazioni dei comma 1“, i cui contratti non sarebbero neanche rinnovati. “Non hanno nemmeno fatto le selezioni, obbligatorie per legge, per i comma 2“, sottolinea Argentini. “Per ognuno dei due casi ci sono 250 precari che sono rimasti fuori dalla stabilizzazione. Anche nel loro caso ci sono i fondi per farle tutte. Nell’INGV, infine, hanno finito tutte le stabilizzazioni per i tempo determinato, ma i comma 2 non sono stati nemmeno selezionati.
“Abbiamo iniziato la lotta per questa stabilizzazione con l’occupazione dell’ISS e dell’ISTAT a fine 2016”, ricorda Argentini. “Questi due enti hanno praticamente completato le stabilizzazioni”.
Ad oggi, sostiene, non ci sono giustificazioni per gli enti, che hanno norme e fondi per procedere con le stabilizzazioni.
“Abbiamo vari ricorsi con INAF e CNR su questa materia al Tar e probabilmente arriveremo dinanzi al giudice al lavoro. Abbiamo predisposto tutto quello che era fattibile, ora innalziamo il livello della lotta. ‘Inseguiremo’ i presidenti ovunque essi si mostrino. Soprattutto vorremmo che l’opinione pubblica e i media avessero la consapevolezza che per la prima volta si potrebbe chiudere un precariato che ha mediamente 8-10 anni di attività, in base all’ente, e che invece qui c’è una volontà politica di gestire ancora precariato e di assumere con i concorsi che i baroni universitari, che stanno anche nella ricerca, gestiscono in modo non del tutto trasparente”.