Perché personalizzare il referendum è stato un errore strategico ma non politico
Qualunque sia l'esito del voto del 4 dicembre sancirebbe in ogni caso il punto d'arrivo di una legislatura iniziata in maniera travagliata e con un principale obiettivo
Il percorso della campagna elettorale in direzione del referendum costituzionale non sembra essere sereno come probabilmente dovrebbe essere quello che porta verso un voto che deciderà come sarà gran parte della carta costituzionale nei prossimi anni.
Accuse di brogli, ricorsi, insulti e confronti duri – spesso non nel concreto dei temi – hanno finora caratterizzato una campagna elettorale che generalmente gli osservatori non stanno apprezzando particolarmente né per cavalleria né per approfondimento dei temi, e che rischia così di creare confusione tra i cittadini su un tema importante e delicato.
Tante volte, più che sul nuovo senato, sulla possibile fine del bicameralismo paritario e su cosa cambierebbe con il nuovo titolo V, si è parlato in primis di “mandare a casa” o meno Matteo Renzi, ma anche di votare a favore o contro un determinato leader politico.
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Lo stesso Renzi ha ammesso di aver commesso un errore nel personalizzare il referendum, dopo che più d’una volta aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe lasciato la carica di presidente del Consiglio in caso di vittoria del No, fatto che aveva trasformato il voto in una sorta di referendum sullo stesso Renzi e non sulla stessa Costituzione.
Tuttavia, se l’annuncio del premier di possibili dimissioni in caso di vittoria del No è sicuramente stato un errore dal punto di vista strategico, nulla si poteva appuntare a questo suo ragionamento dal punto di vista politico. Sotto quest’ultimo aspetto, infatti, qualunque dovesse essere il risultato del referendum, questa legislatura potrebbe giungere a compimento.
Facciamo adesso un passo indietro. Nel febbraio del 2013 gli italiani andarono alle urne senza assegnare ad alcuna coalizione una maggioranza in entrambe le camere. Il centrosinistra di Pierluigi Bersani, prima coalizione del paese ma con meno del 30 per cento dei consensi e uno scarto minimale sul centrodestra e il forte consenso del Movimento Cinque Stelle portarono a una situazione di stallo istituzionale.
Nelle settimane successive, il nuovo parlamento in seduta comune fu chiamato a eleggere il presidente della Repubblica che sarebbe dovuto succedere a Giorgio Napolitano, realizzando tuttavia uno dei più grossi pasticci che si ricordino nella storia repubblicana.
Mentre il Movimento Cinque Stelle rimase irremovibile sulla candidatura del giurista Stefano Rodotà (arrivato terzo alle “Quirinarie” del movimento, alle spalle della giornalista Milena Gabanelli e del fondatore di Emergency Gino Strada che rinunciarono alla candidatura), il Partito Democratico tentò prima di candidare l’ex presidente del Senato Franco Marini, quindi l’ex premier Romano Prodi, ma entrambe le candidature vennero minate dall’interno da fronde e franchi tiratori.
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Dopo cinque scrutini inconcludenti, rappresentanti del centrosinistra, del centrodestra e della coalizione di centro del premier uscente Mario Monti, consapevoli che lo stallo istituzionale sarebbe stato a quel punto insuperabile, chiesero a Giorgio Napolitano, ormai quasi 90enne, la disponibilità di accettare un secondo mandato, anche da non ricoprire per la sua intera durata.
Napolitano accettò, ma pose le sue condizioni, che comunicò nel discorso di reinsediamento al parlamento in seduta comune. Tra queste vi era l’inizio di un percorso di revisione costituzionale, che avrebbe portato in primo luogo al superamento dell’attuale sistema del bicameralismo paritario.
Ogni tentativo di revisione costituzionale avvenuto in Italia, infatti, ha sempre avuto al centro prima di tutto il superamento del sistema che prevede gli stessi compiti per entrambe le camere, a partire dalla commissione Bozzi di inizio anni Ottanta.
Per rendere ancora più chiara la missione della legislatura appena iniziata, il presidente Napolitano, prima ancora di assegnare un incarico per formare un governo, selezionò due gruppi di esperti, uno dei quali – formato da Valerio Onida, Gaetano Quagliariello, Mario Mauro e Luciano Violante – destinato a stabilire quali riforme costituzionali sarebbero state necessarie per il paese.
Il lavoro di questo gruppo si concluse stabilendo che la nuova legislatura avrebbe dovuto realizzare una riforma costituzionale volta, in primo luogo, a superare il bicameralismo paritario. Il nuovo governo di unità nazionale, guidato da Enrico Letta, iniziò subito a lavorare in questa direzione, anche se l’inizio della discussione del DDL Boschi arrivò solamente nel 2014, quando Letta era stato sostituito da Matteo Renzi.
Possiamo dunque dire che il referendum, quale che sarà il suo risultato, sancirà il compimento di quello che era stato individuato come il mandato di questa legislatura. In caso di vittoria del No sarebbe ovviamente un fallimento di questo intento, mentre in caso di vittoria del sì ne sarebbe il compimento, ma in entrambi i casi rappresenterebbe un punto d’arrivo.
Per quanto il padre nobile di questa riforma sia quindi Giorgio Napolitano, i principali artefici ne sono stati il premier Matteo Renzi e il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, di cui il DDL porta il nome, e come tali saranno senz’altro le figure politicamente più esposte a questo voto.
Diversi osservatori hanno paragonato il referendum del 4 dicembre per Renzi a quello che fu il referendum costituzionale francese del 1969 per Charles De Gaulle. In quell’occasione De Gaulle, sconfitto, lasciò la guida del paese e si ritirò a vita privata.
Per quanto si possano vedere analogie tra i due voti, questo paragone risulta forzato sotto molti punti di vista. Dobbiamo intanto ricordare che De Gaulle nel 1969 aveva 79 anni e che sarebbe morto l’anno successivo. Matteo Renzi ha appena 41 anni. E’ molto difficile pensare, almeno dal punto di vista anagrafico, che in caso di vittoria del No un giovane politico che è attualmente al centro della politica italiana lasci la scena e rimanga in disparte.