Il presidente della comunità Sant’Egidio Marco Impagliazzo a TPI: “Reddito di cittadinanza esclude i più poveri e i più fragili”
"La povertà assoluta è fatta di molte cose: il lavoro spesso è l'ultimo anello della catena". Intervista a Marco Impagliazzo su migranti, povertà e razzismo in Italia
Il reddito di cittadinanza “esclude le persone più povere e più fragili”, mentre i rimpatri sono “uno spot elettorale” che può “accontentare qualche persona che ce l’ha con gli immigrati o che pensa che ci sia un’invasione”, non un vero cambiamento. Sono alcune delle riflessioni aperte da Marco Impagliazzo, presidente della comunità di Sant’Egidio, associazione, in prima linea per la solidarietà a poveri e migranti, nata in Italia 50 anni fa. In un’intervista a TPI, Impagliazzo parla del decreto sicurezza e del disastro dell’Ethiopian Airlines, ma anche di razzismo e integrazione, in un momento in cui questi temi nel nostro paese sono più caldi che mai.
La comunità di Sant’Egidio è molto addolorata per questa scomparsa, si tratta di persone che generosamente spendevano la loro vita per l’Africa e per gli africani, mostrando che c’è ancora da parte di noi europei il bisogno di stare dalla loro parte e fare qualcosa per lo sviluppo di questo continente.
Erano persone un po’ in controtendenza rispetto alla cultura prevalente oggi in Europa, di chiusura, ripiegamento su sé. Loro invece hanno continuato a tenere alta la bandiera della solidarietà e della collaborazione con il popolo africano, che sono la vera soluzione a uno dei più grandi problemi che il mondo occidentale sta affrontando: l’immigrazione internazionale.
È un dolore in più per noi la perdita di Carlo Spini e della moglie Gabriella Vigiani, e di Paolo Dieci, con cui abbiamo collaborato per anni per un progetto in Malawi, dove abbiamo lavorato per una cura dei malati di Aids, una cura gratuita che ha permesso a migliaia di bambini di nascere sani da madri sieropositive.
Erano persone care alla nostra comunità, eravamo amici: un’amicizia non nata in un bar, ma sorta intorno all’aiuto allo sviluppo e alla cura dei malati.
Sì, naturalmente c’è una grande collaborazione, soprattutto dalla onlus di Bergamo da cui vengono Carlo Spini e la moglie, ma anche da tutto il mondo della cooperazione, che conosce benissimo Paolo Dieci, che ne è stato portavoce per anni. È un mondo che sembra sommerso, ma è molto più vasto di quello che crediamo e avrebbe bisogno di essere meglio conosciuto nel nostro paese. Spesso sostituisce il lavoro che dovrebbero fare le nostre politiche internazionali, che invece talvolta si fermano ai confini dei nostri paesi.
Vorrei cogliere quest’occasione per ricordare anche le persone che appartengono a questo mondo e sono state rapite, come Silvia Romano in Kenya e il padre missionario Pierluigi Maccalli, rapito in Niger a settembre 2018. Purtroppo su di loro non si hanno notizie da mesi.
È uno dei modi, finora l’unico esistente, per venire incontro alle necessità di persone che hanno bisogno di protezione umanitaria. Al di là di coloro che sono riconosciuti rifugiati in loco dall’UNHCR, tutte le persone che necessitano di protezione umanitaria non hanno un modo per salvarsi da guerra, violenza, fame e problemi climatici.
Non hanno un modo legale per venire nel continente europeo. Non c’è una politica di visti per loro. Il corridoio umanitario è stato pensato proprio per loro, ma ci sarebbe bisogno di altri sistemi legali che possano affiancarlo, per venire incontro alle vittime di queste sofferenze.
Se da una parte siamo molto contenti di aver avuto quest’idea e che sia stata approvata dal governo italiano, francese e da quello belga, dall’altra siamo preoccupati per le migliaia di persone ancora in attesa di essere accolte.
Sì, perché in Italia ci sono forze e energie di solidarietà e accoglienza che si sono volute esprimere con i corridoi umanitari. Quando dai alle persone la possibilità di fare del bene, molte rispondono di sì. Hanno capito che tante volte la vita di una persona vulnerabile dipende da un nostro “sì” o da un nostro “no”. Tutti i “no” che stiamo dicendo sono porte in faccia che chiudiamo violentemente davanti a persone soffrono, in primo luogo per la guerra. Papa Francesco parla di “terza guerra mondiale a pezzi”.
Certo, assolutamente, mi riferisco proprio a loro, che spesso influenzano anche le persone con campagne sbagliate dal punto di vista della propaganda politica, a mezzo stampa o dei social media. Anzi, mi rallegro che il vostro lavoro sia veramente controcorrente, di vera informazione. Dobbiamo dare alla gente la possibilità di dire “sì”. I corridoi umanitari sono stati questo: tante persone che si ribellano pacificamente a questo clima di chiusura. Ci sono famiglie, persone, associazioni, parrocchie, che attraverso l’accoglienza hanno risposto a un altro grande problema, quello dell’integrazione.
Analogamente a quelli con il Libano, è stato proposto al governo italiano da parte della comunità di Sant’Egidio insieme alla Conferenza episcopale italiana (Cei) un corridoio dall’Etiopia per persone provenienti dai paesi del Corno d’Africa che vivono particolari sofferenza. Questo primo corridoio, previsto per 500 persone, è stato esaurito e ora abbiamo discusso un secondo protocollo per altre 500 persone.
Il criterio è sempre lo stesso: vengono privilegiate le persone più vulnerabili, mamme sole con bambini, anziani, persone malate o con disabilità. Questo evita che finiscano nelle mani dei trafficanti di esseri umani.
Questi non sono veri e propri corridoi umanitari, perché non garantiscono integrazione come fanno quelli organizzati dalla comunità di Sant’Egidio insieme alla Chiesa Valdese e alla Cei. Queste persone sono collocate in centri di accoglienza dello Stato, non c’è un progetto dietro che ne garantisca l’integrazione.
Noi abbiamo già espresso sia in sede istituzionale al parlamento nelle audizioni, sia a Palazzo Chigi sia al ministero dell’Interno le nostre perplessità su alcuni punti del decreto sicurezza, dando anche dei suggerimenti su cosa si sarebbe potuto migliorare.
Quello che ci colpisce è soprattutto l’idea di una penalizzazione di queste persone, perché uscire dalla protezione umanitaria comporta un indebolimento del percorso di integrazione nel nostro paese, che spesso è molto lento perché non ci sono buone pratiche o leggi che lo favoriscano. Molte persone finiscono nell’irregolarità per i motivi più diversi, anche indipendenti dalla loro volontà. Per noi il tema è lavorare meglio sull’integrazione, e questo decreto non lo fa.
Non siamo contrari al reddito di cittadinanza, ma siamo favorevoli che raggiunga anche le parti più povere della nostra società. Il reddito di cittadinanza infatti non raggiunge le persone che non hanno una residenza – pensi a tutte le persone senza fissa dimora che ci sono in Italia, sono migliaia. Il problema non è solo non avere un lavoro, ma anche non avere una casa, una residenza. La povertà assoluta è fatta di molte cose: il lavoro spesso è l’ultimo anello della catena. Per questo abbiamo proposto delle modifiche parlamentari al disegno di legge. I requisiti andrebbero allargati: chi non ha il lavoro ma ha la casa è già più fortunato di chi non ha il lavoro ma vive per strada.
Possiamo confermare che in Italia c’è un indurimento del clima verso le persone più povere in generale, ma particolarmente verso le persone straniere, coloro che vengono dall’Africa ma anche dall’Asia. Questo non è solo un portato di certe politiche o messaggi che vengono dati – certamente questi aggravano la situazione – ma è un portato del mondo globalizzato.
Ci troviamo di fronte a un cambiamento d’epoca, che se affrontato con la chiusura e il sospetto verso gli altri alla fine non favorisce la fiducia della gente nel futuro. Il rischio è quello di chiudersi dietro dei muri o un discorso identitario che secondo noi ha poco senso. Cosa significa oggi essere italiani? Bisognerebbe capirlo meglio, se ne sta discutendo dall’unità d’Italia. E oggi cosa significa chiudersi in un’identità mentre siamo al centro di venti gelidi che vengono da nord, sud, est e ovest?
Viviamo in un mondo molto più grande di quello in cui siamo nati. Il problema è anche capire cosa significa vivere nella globalizzazione, convivere con persone che vengono da altre culture, religioni e storie. Bisogna guardare l’incontro con l’altro in maniera positiva, se lo guardi in modo negativo o con paura avrai delle reazioni scomposte e quindi l’aumento di episodi di razzismo o mancanza di civiltà.
È un tema che ci accomuna, le politiche sovraniste stanno crescendo in tutta Europa perché fanno leva su queste paure, che vanno anche capite, ma non giustificate, e a cui bisogna dare secondo noi un altro tipo di risposta.
Sono fiducioso che non sarà un’elezione a cambiare il nostro continente, che ha un fondamento nei grandi temi della pace, della solidarietà, dei diritti. Queste basi, sperimentate da più di 70 anni, credo potranno resistere ai venti del sovranismo.
Più che un fallimento i rimpatri non sono una misura adeguata a rispondere al grande tema migratorio. Possono accontentare qualche persona che ce l’ha con gli immigrati o che pensa che ci sia un’invasione, ma è uno spot elettorale più che una vera realtà di cambiamento.
I rimpatri sono solo un piccolissimo aspetto, il tema della migrazione va affrontato con politiche di integrazione e politiche condivise tra tutti i paesi europei.
Per noi la proposta più valida sarebbe creare dei visti europei di lavoro, aprendo un dialogo con i paesi africani da cui più emigrano queste persone. Si potrebbero creare dei flussi a livello europeo, che soddisfino il bisogno di manodopera dei nostri paesi, ma chiedendo anche l’impegno di fissare delle quote, per impedire immigrazioni troppo massicce.