È anche colpa nostra se una ragazza è stata rasata a zero perché non indossava il velo
La studentessa 14enne è stata portata via dai genitori, ma forse non era questa la cosa giusta da fare. Il commento della giornalista italo-pakistana Sabika Shah Povia
Ho letto diversi articoli sulla ragazza di 14 anni di Bologna a cui i genitori hanno rasato i capelli come punizione per aver rifiutato il velo. Erano tutti stati scritti con il “filtro dell’occidente”, uno sguardo pieno di pregiudizi. Questa non è la storia di un’imposizione islamica su di una giovane donna, ma la storia di una mancata integrazione. Nelle varie narrazioni, l’islam è semplicemente stato strumentalizzato per comodità o forse per abitudine.
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I protagonisti principali di questa vicenda sono tre: questa ragazza giovanissima, vittima, bisognosa di essere salvata; i genitori bengalesi crudeli, autoritari e musulmani; noi, eroi e paladini della giustizia (la scuola, i servizi sociali, il tribunale dei minori, giornalisti, opinione pubblica).
Ma a volte, anche se non sembra, le cose non sono così semplici. Non è tutto bianco o nero. Forse questi genitori non sono poi così male. Forse questa ragazza non è stata salvata da noi e forse noi dovremmo riflettere prima di giudicare. Forse.
È molto semplice scegliere da che parte stare quando la storia ci viene raccontata così e in particolare quando i “cattivi” sono stranieri, ma soprattutto musulmani.
Siamo così abituati a pensare ai musulmani come quelli che ammazzano innocenti, sono terroristi, maltrattano le donne e le costringono ad indossare il velo, che l’immagine che è stata dipinta di questa coppia bengalese cade perfettamente all’interno di questo riquadro, non lasciando spazio ad altre interpretazioni.
Io però, da musulmana e figlia di pakistani, quindi culturalmente più vicina a loro, ve ne propongo un’altra.
I genitori hanno sbagliato. Sicuramente. Ad oggi raccontano una versione molto diversa da quella della ragazza, dicono di averla rasata perché aveva i pidocchi. Ma rimaniamo fedeli alla versione originaria, quella secondo la quale l’hanno rasata a zero per punizione perché si rifiutava di indossare il velo.
I campanelli di allarme pare ci fossero già stati. Diversi giornali riportano che i professori e compagni di classe della giovane bengalese avessero testimoniato altri episodi di “tensione fra la studentessa e i genitori per quel velo non gradito e i divieti di frequentare questo o quel ragazzo, soprattutto negli ultimi tre o quattro mesi”. E allora mi sorge spontanea una domanda: perché non siamo intervenuti prima?
La verità è che non abbiamo ritenuto degni di un dialogo i genitori. Tanto mica con i musulmani, specie quelli praticanti, si può ragionare, no? La ragazza stessa avrebbe riferito ai servizi sociali di non essere mai stata picchiata da parte dei suoi genitori, che avevano i documenti in regola, non frequentavano la moschea regolarmente, non avevano mai avuto un problema con la giustizia, né erano mai stati segnalati per maltrattamenti in famiglia o sospetti di radicalismo religioso.
Non sembra il ritratto di una coppia di fanatici musulmani senza cuore, a mio avviso, bensì due persone con cui ci si avrebbe potuto tentare di instaurare un dialogo.
Quando, come in questo caso, il processo di integrazione non avviene o fallisce, è anche colpa nostra. I servizi sociali hanno a disposizione neuropsichiatri, psicologi, educatori e medici, ma mi chiedo, hanno un mediatore culturale? E se sì, ne hanno fatto uso in questa circostanza?
Il mediatore interculturale è molto più di un semplice traduttore; avendo una profonda conoscenza del paese di origine dell’immigrato, è in grado di accompagnare la relazione tra quest’ultimo e il contesto di riferimento, favorendo la rimozione delle barriere linguistico-culturali.
I genitori della giovane studentessa bengalese sono stati accusati di aver minimizzato la vicenda e di non aver capito la gravità della loro azione. Questo, agli occhi di noi occidentali, è oltraggioso e inaccettabile. La gravità di quel gesto per noi è ovvia, ma solo perché apparteniamo ad una cultura differente.
Nel subcontinente indiano, i genitori non si contraddicono. La loro parola vale più di qualsiasi azione. Il rispetto per i genitori, ma anche la pressione psicologica che volontariamente o involontariamente questi esercitano, influiscono molto sulle azioni dei figli.
Quello della pressione psicologica è un circolo vizioso. È credibile che la ragazza ne ricevesse da parte dei genitori, e i genitori ne ricevessero a loro volta da parte di amici e parenti in Bangladesh, dalla comunità bengalese in Italia e da quella islamica, che purtroppo molto spesso emette giudizi. Non doveva essere semplice neanche per loro. Il senso di colpa e vergogna che questi meccanismi possono generare nel cuore e nella mente di un individuo non sono facili da spiegare a chi non li ha vissuti sulla propria pelle. È importante tenerne conto.
Dopo la discussione di mercoledì scorso, probabilmente, la ragazza si è seduta, forse in lacrime, e si è lasciata radere i capelli per motivi che ai suoi coetani italiani non saranno mai chiari abbastanza. È giusto? No. Andava aiutata? Sì. Portandola via dai genitori? Non credo.
E la ragione è semplice: se c’è una persona che poteva aiutare la sua famiglia, era lei stessa. Lei, questa ragazza che è più “occidentale” delle sue sorelle, che però conosce bene la cultura di origine dei suoi genitori; che avrebbe potuto mediare tra noi e loro, che avrebbe saputo spiegargli meglio di noi cosa c’era che non andava. Questa ragazza, una risorsa, un ponte tra due culture, due generazioni. Però è tanta responsabilità per una 14enne. Troppa.
Per questo dico che l’avremmo dovuta aiutare noi. Da ragazzi, avremmo dovuto parlare alla nostra amica per capire da cosa derivasse il suo malessere. Da adulti, avremmo dovuto contattare i genitori per parlare, aprire a un confronto. Se avessimo reputato veramente la questione di tipo religioso, avremmo potuto tentare di coinvolgere la comunità islamica di Bologna, che ha fermamente condannato l’azione dei genitori e spiegato perché non è in linea con gli insegnamenti del Corano.
Forse loro avrebbero potuto parlare un linguaggio più vicino a quello della coppia e sarebbero riusciti a convincerli a non imporre l’utilizzo del velo alla propria figlia. Nel caso non avessimo avuto successo neanche così, avremmo potuto contattare i servizi sociali, chiedendoli di darci una mano. Troppo facile ora, mettere il “cappuccio per solidarietà” o “sottrarla alla famiglia e portarla in una casa protetta”.
E ancora più facile giudicare i metodi e le usanze dei suoi genitori. Quelli per cui non proviamo alcuna compassione. Quelli che non suscitano alcuna empatia nei nostri cuori perché troppo diversi da noi. Vedersi portare via una figlia di 14 anni con cui sono iniziate le prime discussioni con l’avvento della pubertà, come succede in tutte le famiglie, è una sofferenza molto grande. E immaginate quanto possa essere peggio se non si ha neanche compreso quale sia stato il proprio errore. Questa non vuole essere una giustificazione per la barbara ed eccessiva punizione della rasatura in sé, ma un invito a riflettere su come siamo arrivati a ciò.
Se questa ragazza sta seguendo la cronaca di questi ultimi giorni, starà iniziando a odiare i suoi genitori, come li abbiamo odiati noi leggendo i numerosi articoli in cui vengono descritti come le persone terribili che abbiamo deciso che sono. D’altronde è una bambina ancora, e a quell’età siamo tutti più suscettibili, facilmente influenzati dalle opinioni altrui.
Portandola via, abbiamo chiuso ogni speranza di riuscire ad aiutare quella famiglia bengalese, ancora troppo legata ad alcune usanze e tradizioni, e chiaramente “bisognosa di essere salvata”. Abbiamo perso il nostro ponte più robusto, la nostra voce più efficace.
Se lo meritano dopo quello che hanno fatto? Chi può dirlo.. Ma anche se fosse, il problema ad oggi è stato risolto solo in parte: la ragazza, “salvata”, si trova in una comunità protetta. Se in futuro verrà affidata ad una famiglia italiana, probabilmente perderà quella ricchezza che deriva dall’essere figli di due culture, allontanandosi il più possibile dalla sua cultura di origine in un tentativo di integrazione per assimilazione, e i genitori, carne da macello mediatico, resteranno confusi e abbandonati a loro stessi nel momento in cui meno avrebbero dovuto essere lasciati soli.
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