“Davanti alle vite umane a rischio, superare l’ottica del ‘Prima gli italiani'”: il presidente della Croce Rossa a TPI

Francesco Rocca, da oltre un anno è presidente della Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna, ha “ereditato” crisi umanitarie come quella siriana e yemenita ma ha seguito anche crisi più recenti come quella in Venezuela, dove si è recato in prima persona.
La situazione è molto difficile. Noi abbiamo un dialogo sia con i chavisti che con l’opposizione, vogliamo mantenere alta la fiducia nei nostri confronti da entrambe le parti perché noi non siamo politicizzati. Il nostro operato è per la popolazione e ci tengo che sia percepito in questo modo perché non c’è chi ha più fame o meno fame, chi ha più cure o meno cure.
Quello che mi preoccupa è l’approvvigionamento di medicinali. Noi abbiamo 8 ospedali e 33 poliambulatori ma appunto, senza medicinali è un problema intervenire. La situazione è al collasso, sto cercando di organizzare una nuova missione per la prossima settimana.
Non possiamo dire che la guerra è finita, perché così non è. Ci sono delle aree limitate dove si combatte ancora. L’intensità degli scontri non è minimamente paragonabile a quella degli anni precedenti e per noi è aumentata la possibilità di accesso e quindi la capacità d’intervento.
Da un lato quindi, continuiamo con l’assistenza che abbiamo sempre avuto, soprattutto con gli sfollati interni al territorio siriano. Dall’altro lato invece stiamo iniziando dei progetti per rendere autonome le famiglie tramite la pastorizia, l’agricoltura e lavori artigianali. Tutti interventi molto basici ma importanti in termini di quantità, la Mezzaluna rossa siriana infatti assiste milioni di persone. Purtroppo però è ancora ferma la ricostruzione.
Purtroppo quello dell’accessibilità è un problema anche nostro. Abbiamo vissuto un periodo relativamente calmo, la tregua sembrava reggere ma invece, dopo poche settimane, sembra angosciosamente rompersi, facendo ripiombare tutti nel conflitto.
Il problema è proprio quello di avere una guerra feroce, come sul modello siriano che non ha risparmiato i civili, gli ospedali e gli operatori umanitari. Per noi la frustrazione è tanta: abbiamo visto morire di fame i bambini e vediamo ogni giorno milioni di persone che hanno bisogno di tutto.
Questo fa impressione perché si dovrebbe poter avere accesso regolare, come Croce Rossa e Mezza Luna Rossa, alle zone in conflitto, ma questo non è consentito. In più, non essendo una guerra raccontata dai media, è difficile raccogliere sostegno internazionale e aiuti.
Le migrazioni sono un fenomeno globale e come tale va trattato. Se si continua a “nazionalizzarlo” ci sfugge la dimensione globale e tutto il mondo ne pagherà le conseguenze. In Centro America per esempio siamo presenti in tutta la rotta dei migranti. Diamo aiuto psicosociale e di primo soccorso, ma soprattutto diamo informazioni che spesso è la cosa più importante. In Africa tentiamo di fare la stessa cosa anche se è più difficile. Nel Sael per esempio è quasi impossibile lavorare a causa dell’instabilità di tutta la zona.
In Italia invece abbiamo creato quello che poi è divenuto un modello per tutti: quello dei “Safepoint”, dei punti sicuri dove tutte le persone in transito in Italia possono ricevere delle informazioni legali. Ovviamente noi non interferiamo con la volontà dell’individuo però crediamo che sia importante mettere in condizioni le persone di fare scelte consapevoli rispetto alle domande d’asilo, a quelle di protezione umanitaria o di regolarizzazione della proprio protezione.
Questa normativa ci preoccupa nella misura in cui le persone restano senza punti di riferimento e rischiano di essere inghiottite dentro un buco nero sotto il profilo sociale. Noi, dove è possibile, continuiamo ad assistere a prescindere dal loro status giuridico. È un atto dovuto sotto il profilo umanitario. Parlando più in generale la preoccupazione è molta per quello che avviene in Europa, per come è trattato questo argomento.
Siamo all’inizio di un fenomeno migratorio epocale perché se non si interviene sul cambiamento climatico e l’instabilità politica, le persone saranno sempre mosse da disperazione e migreranno. È vero che non possiamo accogliere un miliardo di persone in Europa, ma cosa stiamo facendo noi per far si che quelle persone non scappino dai paesi d’origine? Credo che sia la comunità internazionale a dover intervenire, come intervenne per far ripartire l’Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Serve un piano speciale di investimenti in Africa che metta nelle condizioni le persone di poter avere un futuro e non dover scappare. Non è un’emergenza e non deve essere tratta come tale, non si tratta di pochi “palestrati” che vogliono venire in Italia e in Europa ma è un fenomeno più complesso.
La Croce Rossa non è esente anche se abbiamo fatto della neutralità uno degli elementi fondamentali della nostra organizzazione. Rispetto alle critiche che sono state mosse a chi salva vita in mare, credo che quello che fanno loro non c’entri nulla con la politica e con le politiche migratorie. Anche noi, davanti alla vita umana, non siamo neutrali ma interveniamo.
Questo è un discorso che ci porta indietro, sento che gli operatori umanitari sono tirati per la giacca. Se penso alla retorica identitaria dell’Italia penso che sia una cosa singolare. L’umanitarismo nasce in Italia nel 1859, nasce sul grido delle donne di Castiglione delle Stiviere che vivevano l’occupazione Austro-Ungarica ma dissero:”Tutti fratelli!”.
Davanti alla vita umana a rischio, si supera la barriera del “Prima gli italiani e poi gli austro-ungarici”. Questa intuizione è stata portata dentro la Convenzione di Ginevra e mi fa ridere che, proprio per le convezioni internazionali, i profughi di guerra siano più tutelati di chi oggi è naufrago in mezzo al Mediterraneo.