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I cinesi vogliono mettere le mani sul porto di Trieste

Immagine di copertina
Veduta aerea del porto di Trieste

Lo scalo adriatico potrebbe diventare uno snodo strategico della nuova Via della Seta: incontri frequenti tra il presidente dell'Autorità portuale e aziende di Pechino interessate a investire

Non la si può considerare nord Europa, ma nemmeno sud. Al tempo stesso è la prima città dell’Europa orientale che si trova arrivando da occidente e viceversa. Trieste, a modo suo, è sempre stata un centro geografico posto ai confini di Stati e Imperi, non da ultimo quello asburgico.

Proprio alla casata reale austriaca l’odierno capoluogo del Friuli Venezia Giulia ha legato la propria storia. I frutti di quei secoli si vedono ancora oggi, a partire dal loro lascito più importante: il porto, oggi nelle mire dell’impero commerciale cinese.

Il porto di Trieste ha una data di nascita: 18 marzo 1719, quando l’imperatore Carlo VI gli concesse lo stato di porto franco. La sua importanza riemerse alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il Trattato di Parigi del 1947 e il Memorandum di Londra del 1954 ne definirono le specifiche di zona franca.

Sarà solo con una legge del 1994, però, che si predisporrà l’adozione di un decreto attuativo per stabilire le competenze nell’area. Ci è voluto del tempo, ma il decreto è arrivato: nel 2017.

Grazie a questo provvedimento è stato possibile sbloccare un finanziamento dell’Unione europea di 16 milioni di euro: un risultato a cui la politica regionale ha lavorato per diversi anni e che, fin da subito, ha attirato gli interessi dei fondi stranieri. Su tutti quelli di Pechino.

La posta in palio è diventare uno degli nodi strategici della nuova Via della Seta, su cui il Dragone sta investendo sforzi e miliardi di dollari. Gli investimenti proprio a queste latitudini, anziché più a sud, come ci spiega Luca Susic, analista geopolitico triestino, sono sospinti dal fatto che “trasportare le merci via mare costa meno che via terra”.

A giocare un ruolo da protagonista, secondo l’esperto, sono i “grandi conglomerati industriali cinesi, come State Owned Enterprises e SOEs, le banche nazionali cinesi e una serie di fondi internazionali esistenti o costruiti ad hoc” a cui “viene lasciato un notevole margine di azione all’interno delle linee guida tracciate dal governo centrale in funzione degli interessi nazionali”.

Il porto di Trieste è porto franco dal 1719

Centrale in questa strategia è il fatto che “Trieste ha un’importante tradizione portuale e un management attento a questo tema” e che “è anche al centro della Mitteleuropa, il che permette di raggiungere una considerevole fetta d’Europa con relativa facilità”, spiega ancora Susic. “Certo è che bisognerebbe investire ulteriormente sulle infrastrutture”.

Proprio su quest’ultimo punto, l’analista vede come possibile soluzione la creazione di “una squadra di esperti” da parte degli enti locali “in grado di analizzare gli scenari contemporanei e individuare le nicchie adatte al territorio, che deve quindi essere in grado di invogliare i cinesi a scegliere il porto triestino come destinazione dei propri investimenti, senza però lasciarsi travolgere dagli eventi”.

Oggi l’interesse sinico su questa infrastruttura e su altre realtà industriali locali è più che tangibile. Merito anche del lavoro portato avanti da tre anni dal presidente dell’Autorità portuale di Trieste, Zeno D’Agostino, che dal 2016 è stato Cina due volte, incontrando i rappresentanti della China Communications Construction e di altre società cinesi, discutendo di infrastrutture portuali e cooperazione.

“La Cina ha a sua volta organizzato missioni di studio nel porto di Trieste”, sottolinea l’ambasciatore cinese a Roma, Li Ruiyu.

D’Agostino conosce l’Estremo Oriente da una quindicina d’anni, ma i primi contatti per far scoprire la realtà triestina anche dall’altra parte del mondo sono iniziati due anni fa, quando il manager è andato a incontrare grandi società tra Hong Kong, Shanghai e Pechino.

“Questi investitori non hanno una grande conoscenza dei porti europei, a parte i più famosi”, racconta il manager. Certo è che oggi Trieste punta a recuperare posizioni a livello internazionale, essendo il primo porto italiano per flusso di merci e 11esimo nella top 20 europea, dominata da Rotterdam, Antwerpen e Amburgo.

Le cose sono molto cambiate da quando il Dragone ha messo le mani sul porto del Pireo, in Grecia: secondo D’Agostino, quello è stato un investimento “sbagliato”: “Da lì non fai nulla”, fa notare.

Il porto del Pireo ha comunque permesso alle aziende cinesi di osservare l’Europa da sud, non concentrandosi quindi più esclusivamente sul nord. Da lì il fatto che Trieste abbia investito molto nelle connessioni con gli scali olandesi e tedeschi ha reso possibile l’aumento di contatti con Pechino, con quest’ultima sempre più bramosa di raggiungere i mercati in espansione dell’Europa Centro-orientale.

Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità portuale di Trieste. Credit: Fabrizio Giraldi

I cinesi non sono comunque i soli a essersi fatti avanti: “Nelle prossime settimane verranno fuori una serie di informazioni che non è detto riguarderanno per forza i cinesi” rivela D’Agostino.

Pochi giorni fa, ad esempio, si è registrato anche l’interesse del governo ungherese, che ha abbandonato i precedenti accordi con il vicino porto sloveno di Capodistria.

“Il nostro sistema piace perché è forte, a differenza del Pireo che non è nemmeno un sistema” osserva il presidente dell’Autorità portuale triestina. Tutto ciò ha, e avrà anche in futuro, importanti ricadute sull’occupazione, tant’è che, sottolinea ancora D’Agostino, “in questi tre anni abbiamo ‘blindato’ il lavoro in porto, gestito da un’agenzia costituita da noi, per cui non ci sono pericoli di infiltrare lavoratori non ben precisati all’interno del sistema”.

Una sorveglianza così estesa è data dal fatto che l’Autorità portuale ha acquisito il 52 per cento della zona industriale triestina, è in trattativa l’inclusione dell’interporto di Cervignano del Friuli e, dallo scorso giugno, anche Monfalcone si è unito a Trieste. Nell’orbita c’è pure la ferriera di Servola, nell’omonimo rione triestino, da anni sotto i riflettori per l’inquinamento prodotto, e anch’essa puntata da non ancora ben precisate aziende siderurgiche orientali e mitteleuropee.

Una fitta rete che permette così di offrire logistica, trasporto e possibilità di avviare progetti industriali, che comunque non gode – ci tiene a precisare D’Agostino – di agevolazioni sulla tassazione, le quali dipendono da politiche regionali, bensì doganali.

Per i porti italiani del sud, non toccati da questo nuovo sviluppo alimentato dalla Via della Seta, il manager suggerisce di aprirsi al Mediterraneo: “Si sta uscendo dagli anni di crisi delle Primavere Arabe, ci sono traffici verso il Medio Oriente e il Nord Africa che stanno tornando tornando ad avere livelli normali”, osserva. “Su questo il nostro Paese può avere un ruolo importante”.

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