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Se è la Pop Shoah a raccontare la tragedia dei profughi

Immagine di copertina

Il commento di Fiorenza Loiacono

“Non abbiamo capito nulla. Germania 1943. Grecia 2016” (dalla pagina facebook di Libera Internazionale

Mossa da un nobile intento, Libera Internazionale ha cercato in questi giorni di mobilitare le coscienze e fermare l’attenzione sulla condizione dei profughi siriani in Grecia accostando un’immagine di questi ultimi a un’altra, tratta da Schindler’s List.

Da una parte una fotografia, dall’altra il fotogramma di un film, una differenza vistosa e stridente sulla quale solo in pochi si sono soffermati.

Come scritto nella didascalia che accompagna le immagini, dimostriamo effettivamente di non aver capito nulla già nel costruire un parallelismo in cui si confondono con disinvoltura i piani di realtà – Schindler’s List che diventa la Shoah –, anche se l’effetto emotivo provocato, la pietà e la pena evocata sono potenti.

La naturalezza con cui questo abbinamento viene accolto, o il considerare irrilevante la questione della differenza tra le due immagini (“l’importante è il messaggio”, scrive una commentatrice), sta in fondo a testimoniare il pressapochismo e il fallimento della nostra memoria e dei nostri buoni propositi, presentandoci improvvisamente i gusci vuoti generati da anni e anni di celebrazioni retoriche sulla Shoah portate avanti nel peggiore dei modi.

Un fallimento che in parte spiega perché, nonostante il 27 gennaio, un’umanità dolente giaccia oggi abbandonata a se stessa, respinta, lungo le barriere e i fili spinati eretti all’interno dell’Europa.

Per quale ragione la sofferenza degli ebrei europei viene rappresentata utilizzando il fotogramma di un film e non una fotografia scattata durante un rastrellamento o sulla banchina di un campo di sterminio? Eppure il materiale non manca. Forse perché esse non avrebbero la stessa forza, lo stesso potere della bambina con il cappottino rosso di Spielberg? 

Fermiamoci a riflettere su questo aspetto. Non ce ne voglia il presidente del Consiglio, ma correre sempre è funesto per l’esercizio del pensiero.

È dunque con questo espediente che si tenta di far leva sulle coscienze? Dando loro fuoco piuttosto che nutrirle con la conoscenza? Altrimenti perché scrivere con noncuranza “Germania 1943” quando la location di Schindler’s List – se proprio si vuole – è in Polonia, nel ghetto di Cracovia?

Quella fiamma è destinata a esaurirsi rapidamente perché la sua forza è fittizia. Si regge infatti su una base di dubbia solidità – smotta solo a guardarla –; le due parti che la compongono si tengono insieme solo in apparenza, in una mescolanza di finzione e realtà che ormai da tempo ha investito il ricordo stesso della distruzione degli ebrei d’Europa, come argomentato in Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (a cura di F. R. Recchia Luciani-C. Vercelli, 2016).

Pur tentando di riprodurre realisticamente un evento storico, Schindler’s List resta un film. Se si vuole tentare di vedere e mutare il dramma dei profughi siriani passando attraverso la Shoah, diventa allora indispensabile conoscere i meccanismi politici, sociali, culturali, individuali che hanno condotto all’annientamento degli ebrei europei, fra cui il razzismo, l’antisemitismo, il nazionalismo, il conformismo di massa. Ai fini della comprensione e del cambiamento, infatti, varrà ben poco il medium strappalacrime di un cappottino rosso. 

Associate in questo modo nella nostra mente, nonostante la scossa emotiva procurata, la prima scena (il film) finirà inevitabilmente per svilire la seconda anziché rafforzarla, ridimensionando la portata del suo contenuto e della specificità dei suoi significati. Tanto che già in prima istanza la fotografia è piegata al fotogramma: l’umanità ne risulta ingrigita e i colori vengono cancellati, fatta eccezione per l’impermeabile della bambina, il necessario contraltare del cappottino di Schindler’s List.

Ma cosa stiamo combinando? 

In questo quadro così banalizzante, di giochi emotivi che non spiegano perché la Shoah possa eventualmente essere importante per leggere alcuni aspetti della tragedia siriana, per cogliere ad esempio i rischi cui si espongono gli individui quando sono disumanizzati e abbandonati al caso, ben difficilmente la sofferenza di questi esseri umani assumerà una effettiva consistenza nella nostra coscienza: tutto in fondo assumerà l’apparenza di un film.

Un mondo di cartapesta di fronte al quale non ci si pone domande, dove tutto va bene, “purché l’effetto”. Quante e quanti hanno ripetuto questa frase? Non importa la storia, non importa la conoscenza, ma l’effetto. La sua potenza momentanea varrà per aprire gli occhi sulle catastrofi umanitarie, forse, ma non servirà a prevenirle né a mutarne il corso, che è quello che dovrebbe interessarci come cittadini. Di tutto si capirà ben poco, rendendo dunque ciclica la successione violenza-commozione-riproposizione della violenza.

Era già accaduto una volta, con l’immagine cartonata di Pinocchio accostata a quella del corpo del piccolo Aylan (qui sotto).

Non riusciamo a rapportarci alle tragedie, a “sentirle”, senza abbinarle adesivamente a qualcos’altro. Non solo perché la psicologia umana si basa sulle esperienze pregresse per interpretare la realtà, ma anche perché di fatto manchiamo degli strumenti per comprendere gli eventi, non possediamo conoscenze e categorie di giudizio che si acquisiscono solo leggendo, studiando, esercitando il pensiero.

E allora ricorriamo al già noto, a ciò che ci ha fatto emozionare di più: un già noto conosciuto spesso altrettanto male, tanto che il nostro povero immaginario ci viene in soccorso, supplendo alle lacune della nostra coscienza ora con un cappottino, ora con un burattino. 

Senza la comprensione dell’intelletto, il sentimento potrà ben poco, soprattutto quando l’accadere o meno delle catastrofi umanitarie dipende dalla vitalità della nostra coscienza e del nostro pensiero, dalla qualità e dalla quantità del nostro agire e dalla pressione che possiamo esercitare sui nostri governi.

Una volta si diceva “non muove un dito per cambiare le cose”; adesso in generale le dita si muovono, e molto, ma solo quelle. Il polpastrello è diventato il simbolo della massima estensione del nostro impegno, declinato e disperso in miriadi di “like”.

È interessante notare anche la reazione di chi di fronte all’accostamento delle due immagini ha eretto un muro, rifiutando a priori l’associazione perseguitati ebrei – rifugiati siriani, al di là del discutibile abbinamento fotogramma-foto.

“I primi sono deportati verso le camere a gas, i secondi si sono volontariamente importati in Turchia”, si scrive; “la prima era una cultura raffinata, i secondi sono analfabeti”.

Quanto al secondo commento, è significativo sottolineare che la raffinata cultura delle vittime non ha dissuaso i loro altrettanto colti aguzzini dal condurle alla morte, mentre sul supposto analfabetismo dei siriani – in realtà un popolo ben istruito – non occorre soffermarsi.

Piuttosto sarebbe meglio considerare l'”analfabetismo funzionale” di un terzo degli italiani – il dato più alto in Europa –, cioè l’incapacità di comprendere, elaborare le conoscenze e dare significati alla realtà anche in chi tecnicamente sa leggere e scrivere.

Porre a confronto gli eventi e farlo con i mezzi appropriati non è in assoluto sbagliato, anzi può rivelarsi utile a comprenderli, purché se ne riconoscano le specificità e le differenze.

Se anche i profughi siriani non sono condotti alle camere a gas, non per questo la questione va liquidata brutalmente. Da un certo punto di vista, tale reazione di rifiuto potrebbe essere considerata un altro effetto collaterale di una memoria del genocidio ebraico condotta malamente, secondo un automatismo privo di pensiero ed elaborazione.

A furia di mostrare immagini di camere a gas, forni crematori e cataste di cadaveri, senza contestualizzarle e senza soffermarsi sui fattori che hanno portato a questo sterminio, si è contribuito forse ad innalzare la soglia di accettazione della disumanità: se i camini non si stagliano all’orizzonte non si fa nulla, non è pericoloso, non è quello.

In realtà occorre molto meno per perpetrare il male e per distruggere un essere umano, spiritualmente, nella sua dignità, se non fisicamente. La presenza di Auschwitz e quello che Auschwitz è stato insegna che con la Shoah è stato raggiunto un punto estremo, posto oltre l’immaginabile, attraverso un processo di annientamento progressivo cominciato nelle città, nei ghetti, con l’umiliazione, la spoliazione, l’indifferenza, la violenza attiva e passiva. 

L’Unione europea, quella in cui noi viviamo, nel continente in cui i nostri nonni o i nostri genitori vivevano quando gli ebrei venivano condotti alla morte, sta oggi trattando con la Turchia perché “gestisca” i profughi in cambio di svariati miliardi di euro.

Sapremo mai quello che accadrà a queste persone? In Turchia, il paese che non ha mai riconosciuto il genocidio del popolo armeno dopo averlo perpetrato, il paese del presidente che in pubblico esprime la sua ammirazione per Adolf Hitler e che soffoca la libertà nel sangue. L’Unione europea liquida la questione mercanteggiando proprio con questo stato. 

Nel frattempo assistiamo alla chiusura delle frontiere da parte degli stati balcanici, comprese la Bulgaria e l’Albania, mentre l’Austria preme perché si sigillino i confini italiani, e la Danimarca confisca a queste persone gli ultimi beni posseduti.

A quanto pare, l’Europa ha imparato poco o nulla dal suo passato, mentre lo insegna nelle scuole, mentre i nostri primi ministri – gli stessi che chiudono le frontiere – visitano Auschwitz e depongono corone. Mentre noi ci emozioniamo a colpi di cappottini rossi e pensiamo alla Shoah con l’immagine di un film. 

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