Poletti, Bauman e il compromesso dei giovani italiani
Se i giovani italiani trascurano la loro umanità, sono i primi ad autorizzare la sua distruzione. Il commento di Fiorenza Loiacono
Il 10 gennaio 2017 il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha riferito in Senato in merito alle parole da lui pronunciate il 19 dicembre sui giovani italiani all’estero: “Io conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata perché sicuramente questo paese non soffrirà moltissimo nel non averli più tra i piedi”.
Il ministro si è ufficialmente scusato, sostenendo che quelle affermazioni sono in realtà molto lontane dal suo pensiero.
Dunque viene da chiedersi perché le abbia pronunciate. Si tratta pur sempre di un ministro, cioè di una persona che ricopre un incarico di enorme responsabilità nei confronti di milioni e milioni di cittadine e cittadini.
Zygmunt Bauman sostiene che l’epoca in cui viviamo può essere definita il “carnevale della democrazia”. Dove vi è scherzo e licenza, dove si compiono azioni senza preoccuparsi delle conseguenze, pensando che nel peggiore dei casi sarà possibile annullarle magicamente attraverso la negazione o le scuse.
Silvio Berlusconi è stato un maestro in questo campo, adesso ci attende l’era di Donald Trump. Di fronte ai nostri occhi e alle nostre menti si consuma un presente di relatività rispetto a ciò che si dice e si fa, dove uno vale uno, una parola vale l’altra, fino a che tutto si assomma nel niente
Dove un giorno si sostiene l’antieuropeismo e il razzismo, il giorno successivo si desidera abbracciare un approccio più liberale ed europeista. Salvo poi tornare sui propri passi. In poche parole, è il tempo dell’ambiguità e della malafede (Simona Argentieri, L’ambiguità, 2008).
Ma noi non vogliamo illuderci, e su queste azioni, sulla loro gravità morale, preferiamo meditare profondamente. In questo tempo di guerre atroci possediamo un’ottima arma, l’unica che l’essere umano dovrebbe utilizzare: il pensiero.
Dietro le parole di Poletti
Giuliano Poletti ha parlato con leggerezza, ma in piena coerenza con il senso e le conseguenze della grande riforma elaborata dal suo ministero: il Jobs Act, che ha incrementato lo sfruttamento e i licenziamenti a tappeto.
Come non vi è considerazione dell’essere umano nelle parole “meglio non averli fra i piedi”, così non ve ne è in questa legge che riduce gli individui a merce, a carne da lavoro al servizio del profitto. Con questa riforma i cittadini più govani sono stati dati in pasto alla ferocia del mercato, che sfrutta e scarta, buttando via quello che non serve.
La disoccupazione giovanile non è diminuita ma in compenso si è rafforzato il dispositivo “usa e getta” a danno delle lavoratrici e dei lavoratori.
Lo stesso giorno in cui il ministro ha pronunciato quelle parole, è morta a Berlino Fabrizia di Lorenzo, 31 anni, una giovane italiana all’estero. Non poteva esserci stridore più grande tra una simile perdita e quanto quel giorno veniva detto da un uomo di governo del suo paese.
Il ministro non ha chiarito perché “è meglio non averli fra i piedi”. Era arrabbiato con i giovani in generale? È pur vero che ultimamente i giovani italiani hanno dato prova di esistere, di non essere invisibili e impotenti, quando il “No” ha prevalso nel referendum del 4 dicembre 2016.
È stato un duro colpo per il governo Renzi e probabilmente, sì, in quella circostanza sarebbe stato meglio non averne così tanti fra i piedi.
Come molti analisti hanno sostenuto, le ragioni di chi al referendum ha votato “No” non sono da ricondurre esclusivamente alla difesa della costituzione, ma anche allo scontento, alle condizioni misere e grame in cui moltissimi sono costretti a vivere.
Stando agli ultimi dati Censis, i giovani italiani sono più poveri dei loro nonni, nonostante siano molto più istruiti. Non hanno potere e non tentano di prenderselo, non hanno molto da perdere, eppure molto spesso abbassano la testa e la schiena, ubbidendo, rassegnandosi o conformandosi alla legge del padrone, contribuendo al mantenimento delle condizioni presenti.
Sono degli oppressi, privi di garanzie e tutele da parte dello Stato.
I compromessi dei giovani italiani
Come se fossero a contatto con un’idrovora, gli sfruttati vengono risucchiati di tutta la linfa vitale che possiedono, fino a non vedere più la via dell’emancipazione, come se la realtà fosse immutabile. Chi viene trattato male e continua a subire questa condizione pur vivendo in democrazia, lasciandosi guidare esclusivamente dallo stato di necessità e dal ricatto padronale, ha già perso la fiducia in sé e l’amore per se stesso.
Quando gli oppressi si rendono conto di essere offesi nella loro dignità e vorrebbero introdurre un cambiamento, sono spesso troppo sfiniti, svuotati, minati nell’autostima, talvolta corrotti essi stessi, per poter osare un moto di ribellione.
Possibile che si accetti di subire tutto ciò nell’arco di una vita così breve, quale è il tempo che ci è concesso di vivere? La necessità di lavorare e di guadagnarsi non solo il pane ma anche lo smartphone non dovrebbero comportare il sacrificio della propria umanità.
Chi perde se stesso ha perso la sua vita, ha ben poco da offrire agli altri, può solo campare e muoversi lungo binari prestabiliti. Ritrovandosi infine a fare i conti con gli ultimi giorni di una esistenza consumata da altri.
Si provi a guardare il film Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne. La protagonista è inizialmente depressa, prostrata e affranta perché l’azienda per cui lavora ha deciso di licenziarla, lasciando che siano gli altri lavoratori a decidere. Tuttavia, anche grazie alla solidarietà mostratale da una parte dei colleghi, Sandra recupera la consapevolezza del proprio valore.
Nonostante la sofferenza, è lei a dire “no” al datore di lavoro che vorrebbe riassumerla licenziando qualcun altro; è lei a rifiutare la logica violenta di chi vede “strumenti passivi dell’impresa” (S. Weil, Oppressione e libertà, 1933) laddove ci sono esseri umani.
Sandra riprende la strada, sapendo di meritare qualcosa di meglio, con la sicurezza e la bellezza che le discende dall’essere finalmente padrona della sua vita. La rivoluzione non è un concetto, ma una pratica quotidiana. E il primo passo consiste nell’avere rispetto per se stessi.
Ripartire dal rispetto per sé stessi
In Italia gli ultimi atti di resistenza di cui le cronache parlano provengono non a caso da chi ha patito profondamente. Si pensi alla rivolta delle donne e degli uomini ammassati nel campo di Cona (Venezia) in condizioni subumane nonostante le cospicue quantità di denaro affluite nelle tasche di chi gestisce questo e altri centri di accoglienza.
Si pensi ai tre uomini originari del Senegal che a Napoli non hanno voluto pagare il pizzo alla criminalità locale. Si pensi a Yvan Sagnet, il giovane camerunense che si è ribellato al caporalato nelle campagne pugliesi, dove ogni giorno, sui corpi e sulle anime di centinaia di persone si consuma una violenza immane.
Sono donne e uomini che offrono un esempio di resistenza a chi, reso molle da una società che combatte esclusivamente per il denaro, subisce ogni giorno la violenza del precariato, dello sfruttamento, del licenziamento, assistendo inerme allo sprofondamento e alla liquidazione della propria anima.
Se trascuriamo la nostra umanità, siamo i primi ad autorizzare la sua distruzione.
La domanda deve partire innanzitutto da se stessi, di fronte al sopruso perpetrato su di sé e sugli altri. Perché lascio che questo avvenga? È per questo che sono venuto al mondo?
Le donne e gli uomini che si sono ribellati, fuggiti da condizioni devastanti di miseria e di catastrofe umanitaria, non sono certamente venuti in Italia per sottostare alla mediocrità dei bulli nostrani ma per costruire una vita che possa definirsi tale. Qui, pur vivendo in democrazia, è stata data ai bulli, ai signorotti che affollano le strade, le aziende, i luoghi istituzionali, dal goveno alle università, la licenza di opprimere indisturbatamente.
Non ci si ribella perché non si è radicati nell’essenza dell’esistenza e del suo valore, non si è sintonizzati con essa, navigando piuttosto in superficie.
Come scrive Simone Weil in Oppressione e libertà, una società sfruttante ha tutto l’interesse a coltivare il senso di impotenza degli individui, rimandando ad essi l’immagine di quanto poco valgano. Chi vuole un esercito di servi non deve fare altro.
Viviamo nella società del narcisismo, per cui a questa violenza ci si accosta spesso con basi già fragili e minate, finendo per sottostare ad essa. Si crede di valere poco e si offre il fianco a chi su questa ferita marcerà implacabilmente, rafforzandola.
Non coltivare la propria umanità, non dispiegare ciò che si è, non rafforzare se stessi con la scoperta interiore significa consegnarsi alla mercé di chi vuol fare di noi quello che vuole. Lavorare per ore e ore, spesso sottopagati o addirittura in cambio di nulla, è tradire se stessi.
Lo sfruttamento corrompe l’anima, e spesso gli stessi schiavi, qualora abbiano dei sottoposti, mostreranno di essere diventati molto simili ai loro padroni, perpetuando la violenza e l’oppressione da un gradino gerarchico all’altro, da una generazione all’altra.
È questo l’abbruttimento, visibile nei contesti in cui chi ha subito fa pagare a sua volta, fino a che il carico della violenza si scatena sugli elementi più deboli. Quale nuova realtà potrà sorgere da chi è abituato a subire e a praticare l’esercizio del compromesso?
L’Italia del presente è diffusamene questa, e chi è scomodo è meglio che se ne vada. Sono in molti a pensarlo. Giuliano Poletti ha dovuto scusarsi, essendo più esposto, ma gli altri continueranno ad operare indisturbati, fino a che glielo si permetterà.
Rompere le catene
La vita quotidiana è densa di situazioni e contesti in cui ognuno potrebbe fare la propria parte, inceppando il meccanismo del servilismo e della prostrazione di sé, soprattutto dove l’oppressione viene agita come se fosse naturale, un’espressione dell’ordine delle cose.
Non lo è, l’oppressione è stata costruita dai prepotenti e assecondata da chi si è piegato ad essa, pur potendo sottrarsi ed esigere di meglio.
Le catene del presente, in Occidente, non sono fisiche ma mentali. L’istruzione e la conoscenza dovrebbero servire a spezzarle, a preservare quantomeno la propria dignità.
Se si pensa che sia il mondo ad andare così e che sia impossibile cambiarlo è perché, in fondo, si è già scesi al compromesso. Al limite si vota per protesta chi appare ricco e potente, “riuscito”, o chi asserisce che “uno vale uno”, il nuovo slogan che certamente non restituisce valore al singolo cittadino, ma lo getta nella massa dell’indifferenziato, dove non esiste identità, singolarità e ricchezza, ma anonimato, sostituibilità e perfetta manovrabilità, come insegnano Elias Canetti e Hannah Arendt.
La cultura dell’antica Grecia spronava a diventare quello che si è, a sviluppare la propria essenza, a guardarsi dentro e a capire chi si è e cosa si vuole diventare. A essere fedeli alla propria umanità, per la conquista della libertà interiore e di coscienza, la prima arma di ribellione contro l’abuso e la sopraffazione.
Le parole del ministro Poletti non sono passate inosservate ed è triste vedere che egli ancora ricopra un ruolo importante in un paese che nell’ultimo anno ha visto tre giovani italiani all’estero morire a causa del terrorismo internazionale e di quello di Stato.