La battaglia di Rachele Vered, perseguitata dalle leggi razziali, a cui lo stato non riconosce la cittadinanza italiana
Da cinque anni la donna, nata a Milano, chiede il riconoscimento delle provvidenze riservate agli internati nei campi di concentramento e ai loro familiari
Rachele Vered è una signora di 79 anni: è nata a Milano il 20 settembre del 1939 da genitori polacchi, arrivati in città per sfuggire alle persecuzioni razziali. La madre e il padre all’epoca erano residenti in Italia come apolidi, quindi privi della cittadinanza.
Da cinque anni Rachele sta portando avanti una contesa con il ministero dell’Economia, che le nega il riconoscimento riservato agli internati nei campi di concentramento e ai loro familiari. Come riportato dal Giorno, che ha raccontato la storia, nel 2013 la commissione ministeriale incaricata di esaminare la domanda ha rifiutato la richiesta perché i genitori di Rachele non erano italiani ma polacchi.
Secondo la commissione del ministero, nel periodo delle persecuzioni razziali la signora Vered non aveva la cittadinanza italiana perché l’impiegato dell’anagrafe, al momento di segnare nei registri milanesi la nascita della bambina, aveva indicato la sua nazionalità come polacca, come era quella dei genitori, e non italiana.
La donna non si è tuttavia arresa e il Tar del Lazio per ora le ha dato ragione, annullando il rifiuto della commissione e dichiarando che il 20 settembre 1939, data di nascita della signora, Rachele è nata italiana. La decisone del tribunale si basa su un compromesso tra due leggi, una italiana e l’altra polacca.
Quando Vered è nata, infatti, in Polonia una legge prevedeva che ai cittadini polacchi soggiornanti all’estero venisse revocata la cittadinanza qualora non fossero rientrati nel paese “entro la data prestabilita su richiesta della rappresentanza estera della Repubblica Polacca”.
La norma, che è diventata decisiva per il Tar, è stata incrociata con la legge italiana numero 555 del 13 giugno 1912 che assegnava la cittadinanza italiana per nascita a “chi è nato nel Regno se entrambi i genitori sono ignoti o non hanno cittadinanza italiana, né quella di altro Stato”.
I giudici del Tar del Lazio hanno proseguito logicamente: secondo la legge polacca, nel 1939 i genitori della signora erano apolidi, quindi privi della cittadinanza, e quindi la figlia nata a Milano aveva acquisito la cittadinanza italiana.
I genitori della donna, inoltre, non erano mai tornati in Polonia. “Nel 1939 i genitori si trovavano con certezza a Milano, come attesta l’estratto di nascita della ricorrente e la loro presenza dopo tale data è stata accertata in alcuni campi di concentramento siti in Italia e destinati a cittadini di religione ebraica”, hanno scritto i giudici.
Tuttavia la battaglia legale non è finita perché il ministero ha impugnato la sentenza del Tar davanti al Consiglio di Stato, che ha chiesto all’Ambasciata italiana a Varsavia di trovare “documentati chiarimenti sull’effettiva avvenuta perdita della cittadinanza polacca, alla data del 20 settembre 1939, da parte dei genitori della ricorrente”.
Dalla Polonia ancora nessuna risposta.