Non illudetevi, è da ingenui pensare che la nuova Via della Seta favorirà le aziende italiane
Nè sovranisti né opportunisti:
Anche in un’ottica sovranista, la politica dell’attuale governo italiano, o meglio gli episodici posizionamenti verso questa o quella delle grandi potenze, appaiono incoerenti e controproducenti.
Le affinità politiche e caratteriali fra Salvini e Trump, la retorica anti-immigrazione, la comune avversione verso Parigi, Bruxelles e Berlino spingono la coalizione giallo-verde, e soprattutto la componente leghista, a cercare una sponda a Washington.
Ma allora quanto giova all’interesse nazionale il rifiuto di assecondare il grande alleato nel caso del Venezuela, un’iniziativa certo discutibile ma su cui gli Stati Uniti hanno l’appoggio di tutto l’Occidente?
Una questione assai più importante è il memorandum d’intesa proposto dalla Cina: se verrà firmato, con modifiche poco più che cosmetiche, in occasione della visita di Xi Jinping nonostante la messa in guardia del segretario di Stato Mike Pompeo, l’Italia sarà vista come un partner infido, a Washington come a Bruxelles.
Tanto più che in un altro settore cui tengono molto gli Stati Uniti, quello dell’aumento delle spese per la difesa fino al 2% del Pil, le nostre note difficoltà di bilancio ci impediscono di compiacere il presidente americano.
Su un ulteriore fronte che oppone le due rive dell’Atlantico, l’attuazione o demolizione del Trattato di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico, il M5S dovrebbe per sua natura contrapporsi fieramente alla cinica svolta trumpiana.
Ma questo motivo di attrito è solo teorico; di quella vocazione ecologista il Movimento sembra essersi dimenticato. Si dirà: ma l’ostruzionismo contro la linea Torino-Lione è una battaglia ambientalista. Errato: spostare le merci dalla gomma alla ferrovia contribuisce a ridurre le emissioni di gas a effetto serra.
Una politica di dialogo critico con la Russia malgrado il dissenso sull’invasione della Georgia nel 2008, sull’annessione della Crimea nel 2014 e sull’intervento tuttora in corso nel Donbass, è senz’altro difendibile, anzi opportuna.
Alimentare la spirale di una nuova guerra fredda non è nell’interesse di nessuno. Difficile negare che le sanzioni sono inefficaci e che le inevitabili contro-sanzioni russe danneggiano molte aziende esportatrici italiane.
È altrettanto giusto contestualizzare le azioni militari di Mosca: così come la spedizione punitiva in Georgia fu una reazione al tentativo americano di allargare la Nato fino al Caucaso, la destabilizzazione dell’Ucraina fu una risposta alla super-associazione elargitale dall’Ue, vista come un’operazione geopolitica, un surrogato dell’ammissione alla Nato: in effetti mutilava pesantemente il progetto putiniano di un’Unione eurasiatica contrapposta all’Ue stessa.
Ma tutt’altra cosa è giustificare l’annessione della Crimea per ingraziarsi il padrone del Cremlino. Non si può ribattere il vecchio chiodo del ‘regalo’ fatto arbitrariamente all’Ucraina da Kruscev (da ultimo il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano alla Commissione Esteri del Senato) e dimenticare che nel 1994 la Russia si impegnò come gli Stati Uniti a garantire l’integrità territoriale dell’Ucraina contestualmente alla sua rinuncia alle armi nucleari rimaste sul suo suolo.
È vero che la maggioranza dei crimeani è russofona e forse si è rallegrata dell’Anschluss; ma se questo bastasse a giustificare l’occupazione e annessione, dovremmo applicare lo stesso criterio al Sud-Tirolo?, e ai Sudeti nel 1938?
Una politica estera che non sia dilettantistica e non persegua volutamente la subalternità non può ignorare che le grandi potenze tendono inevitabilmente ad affermare la propria egemonia regionale, o almeno ad estendere la propria influenza e negoziare da una posizione di superiorità, e mirano perciò ad indebolire le alleanze o unioni di stati che fanno loro da contrappeso.
Ciò vale per la Russia di Putin come per l’America di Trump. Indebolire l’Unione europea e dialogare uno a uno significa fare il loro gioco e privarsi di potere negoziale.
Lo stesso discorso si applica ai rapporti con la Cina, a maggior ragione dato il suo maggior peso economico e la sua efficienza tecnologica.
La speranza che l’adesione alla Belt and Road initiative apra alle nostre aziende quel mercato è ingenua, se le insistenze dell’Ue non sono sinora riuscite ad ottenerne la liberalizzazione e se persino l’esito delle pressioni di Trump è incerto. Assai più probabile è che il potenziamento della rete di trasporti, il controllo delle infrastrutture-chiave e gli investimenti diretti accelerino la morìa di industrie locali e la distruzione di posti di lavoro.
La Commissione di Bruxelles non può essere sospettata di antiquato protezionismo, caso mai di pregiudizio liberista. Se invita alla prudenza davanti al miraggio della ‘nuova via della seta’ ci sono buone ragioni.
La Cina non viene in Europa, come già in Africa e Sud-America, per fare regali, ma per acquisire infrastrutture strategiche, ricchi patrimoni di dati informatici, terreni e sbocchi commerciali, e per estendere la propria influenza economica e politica.
È riuscita a sedurre 13 paesi membri dell’Unione, ma l’Italia sarebbe il primo fra i paesi grandi e di vecchia democrazia. Il partner cinese non intende adottare spontaneamente gli standard europei in materia di diritti e sicurezza dei lavoratori, tutela dei dati personali, libera competizione negli appalti o protezione dell’ambiente.
Se vi è una prospettiva di indurlo ad adeguarsi a tali standard è solo mediante un negoziato condotto da una Unione europea ricompattata. Infine, il sovranismo dovrebbe ambire a costringere le grandi società trans-nazionali a pagare le imposte là dove producono reddito, a tutelare la privacy e a ridurre i danni all’ambiente.
Una battaglia difficile, che richiede comunque “più Europa”, non una “Europa delle Nazioni”.