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Alla fine qualcosa ci inventeremo

Immagine di copertina

Pubblichiamo su concessione dell'autore un estratto di Alla fine qualcosa ci inventeremo, l'ultimo libro di Gianluca Nicoletti

Tommy mi cammina sempre davanti, cammina veloce e a volte quasi corre. Devo inseguirlo e non posso permettermi il fiato corto.

Finché un giorno, nemmeno lontano, qualcuno noterà per il quartiere un vecchietto che insegue malfermo un ragazzone spensierato, e non posso pensare che sarò io.

Spero soltanto di avere il sole in faccia se mi capiterà di battere la testa sul marciapiede, non voglio immaginare di vedere Tommy perdersi sul ciglio del mio abisso.

Il mio non è pessimismo, solo un’idea realistica di un possibile mio futuro. Non so se sarà mai possibile far capire il disorientamento di noi che viviamo alla giornata, che sgraffigniamo rapaci ogni residuo abbandonato del tempo altrui per farne la nostra festa.

Abbiamo la continua impressione di alimentarci dagli interstizi vitali lasciati incustoditi dal resto del mondo, cioè da quelli che non hanno autistici per casa, che avranno pure una serie infinita di problemi, sicuramente, ma li vivono in un tempo condiviso.

Noi siamo convinti che per gli altri ci sia sempre la possibilità di riappropriarsi di un tempo personale, di poter vivere dei periodi, dei giorni, delle ore senza dover rendere conto al fardello filiale della propria assenza.

Non è detto che sia così in assoluto, anzi mi rendo conto che quest’idea della fatale reclusione a vita sia qualcosa che lambisce il delirio. Chi invece la pensa come me sia il benvenuto; questo passa per la testa di un genitore di autistico, almeno da quando comincia a essere consapevole di essere stato contagiato da suo figlio e di non osservare più il resto del mondo con lo stesso sguardo che potrebbe avere qualsiasi altro suo simile.

Io adocchio molti miei colleghi genitori d’autistici mettere in atto strategie di difesa molto efficaci, tipo prendersi spazi di libera uscita, fisica e mentale, negoziando con il partner o chi per lui una cogestione condivisa dei turni di sentinella. Confesso d’averci provato più volte anch’io, ma di non esserci mai riuscito, almeno con soddisfacente risultato.

Tommy spesso è in grado di creare in mia temporanea assenza microcataclismi programmati con tale cronologia distruttiva che magari, appena mi siedo al tavolino di un pub e ordino una birra, lui già ha fatto in modo di agganciarsi a un filo d’ansia avvertito nella madre e allora sono costretto ad alzarmi e seguire il messaggio d’aiuto di chi sta a casa. E anche se la telefonata o l’sms di richiesta d’intervento immediato non arrivano, oramai non mi godo più nulla.

Tutto sembra troppo condizionato da circostanze imprevedibili, fino a farmi venire la tentazione d’evitare per principio qualunque attività di quelle che potrei dedicare solo al mio star meglio; parlo di cose semplicissime: una palestra, una cenetta allegra, una bella bevuta, una piccola vacanza senza pensieri di cosa si mangia, di dove si va, delle pillole da prendere sera e mattina, del fai la pipì seduto, adesso dormi, smetti di mugolare… cose che, alla fine, dirle o non dirle cambia ben poco.

Questo è alla base della distruzione progressiva di genitori, di stretti familiari, di persone che hanno un autistico tra le loro necessità quotidiane. Penso che sarebbe molto più facile per chiunque se fra le priorità legate al problema dell’autismo ci fosse anche la conquista di uno spazio temporale per i genitori. cambierebbe tutto anche per i ragazzi, che hanno una sensibilità sin troppo straordinaria per non rendersi conto che è meglio avere accanto una persona il più possibile serena piuttosto che uno spettro vagante.

Molte persone che mi frequentano in maniera più assidua hanno notato che Tommy ha cambiamenti repentini d’umore in ragione del mio stato d’animo, che è già di sua natura molto ondivago e mutevole. Per questa ragione faccio salti mortali per trovare spunti di vita che mi gratifichino: se io sono di buon umore, gestire Tommy è quasi una passeggiata.

È sempre difficile farmi capire quando parlo d’autismo: in genere intuisco che la misura dell’attenzione del mio interlocutore è vicina allo zero e, anche quando vengo ascoltato, mi resta addosso l’impressione che solo per uno scrupolo di cortesia sono stato seguito.

Alla fine, come tanti prima di me, mi stancherò di parlarne e farò definitivamente l’autistico tacendo. Sono nauseato dal pressappochismo degli improvvisati, dalla cialtroneria dei millantatori, dall’ottusità degli amministratori; assieme a molti miei colleghi genitori con la lanterna accesa cerchiamo il grande saggio che ci dia risposte sul come, sul dove, sul quando.

Tra noi genitori, i più inclini all’abbandonarsi allo sconforto decidono di studiare… E allora è finita veramente! Il genitore dotto è un genitore indottrinato, diventa il rappresentante di una categoria che fuggo all’istante, salvo rare ed eccellenti eccezioni. Così a volte, anzi spesso, mi chiedo perché io stia qui a dedicare tanta parte del mio tempo a questo tema, con la presunzione di portare alla luce una fetta grossa di umanità che tutto sommato moltissimi vorrebbero adombrata, non sofferente magari, ma lontana da chi deve correre veloce e non vuole zavorre.

Ricordo esattamente quando concepimmo Tommy. Era un pomeriggio di primavera avanzata, stavamo in una camera con le finestre sul vicolo medievale di via dei Priori, una delle volte che ero passato a trovare i miei genitori a Perugia, quando ancora sopportavo di avere una famiglia d’origine.

Filippo non c’era, forse l’avevamo lasciato dai nonni. Natalia mi disse: «Adesso facciamo il fratello»; come già era accaduto la prima volta, su precisa e ineludibile sua richiesta restò immediatamente incinta.

Nei primi anni della sua vita dedicavo il mio poco tem- po a casa ad ammaestrare Filippo, che chiamavo «il bambino cavia» perché ambivo di farne un nativo digitale prima ancora che questo termine fosse coniato.

Naturalmente è venuto fuori un poeta e studioso d’ideogrammi giapponesi, molto poco appassionato ai segreti del codice binario. Su Tommy non avevo progetti, ma nemmeno sapevo che io sarei stato il suo progetto. Così oggi amministro la mia irrituale eterna giornata di padre frammentato. Ho nostalgia di tutto e tutto allo stesso tempo mi avvelena.

Mi piacerebbe poter tornare alle belle vacanze spensierate in cui si stava un mese al mare assieme. Mi piacerebbe tornare a quei natali in cui andavo a raccogliere il muschio tra la neve strappandolo da sotto le querce imbiancate, assieme ai bambini per poi fare il presepe. Mi piacerebbe tornare a quei sabato pomeriggio ai parchi, con due tipi di pannolino nelle tasche del giubbetto per due piscioni di taglia diversa, Tommy nel passeggino e Filippo in piedi sul predellino dietro e io che spingevo e facevo il cretino con le mamme fingendomi imbranato e chiedendo istruzioni su come cambiare Tommy, in famiglia detto, meritatamente, «Spadone».

Piccole infamità innocenti per passare il tempo della fierezza, che è durato fino a che non è iniziato quello dell’angoscia, seguito da quello dell’accettazione e ora da quello della simbiosi. Le giornate sono sopportabili perché Tommy è senza dubbio la mia migliore compagnia, per il resto vedo solo macerie tenute assieme perché così si deve.

Penso che mi piacerebbe fare un viaggio con mio figlio, ma poi non so se avrei voglia di tornare nel mio paese. il Censis, nel rapporto che ho già citato, conferma quello che tutti noi sappiamo: un italiano su quattro dice di non aver mai avuto a che fare con persone disabili, che nel 2020 saranno quasi cinque milioni.

È mai possibile che cinque milioni di famiglie interessante non diano tracce evidenti della loro quotidiana sofferenza? Tra loro poi come possono sperare attenzione gli autistici, che restano pressoché invisibili? Sempre il Censis afferma che il novantotto per cento dei disabili adulti è a completo carico delle loro famiglie, non credo che per lo specifico degli autistici la statistica possa essere diversa, se non per una percentuale più alta di «inclusione a vita» nella famiglia di chi è affetto da questo problema.

Quello che avverrà poi non abbiamo voglia di dirlo, ma lo sappiamo bene noi che abbiamo figli stralunati attaccati addosso. Lo sappiamo perché ci siamo incamminati lungo una strada di cui non vediamo la fine: possiamo solo andare avanti, anche se lungo il percorso ci perdiamo le persone a cui più teniamo.

Qualcuna prende strade laterali, altre si siedono perché non ce la fanno più. Noi dobbiamo procedere senza far caso al paesaggio che cambia, al tempo che passa, ai pensieri che si dissolvono. Dobbiamo guardare avanti ed evitare gli specchi, ed è facile che un giorno potremo non riconoscere più quel volto che riflettono.

Dobbiamo camminare e sentirci forti nei muscoli, pronti sempre a combattere, voraci nel predare ogni barlume di piacere che scorgiamo lungo il nostro sentiero. Non dobbiamo pensare d’essere santi, non ci salverebbe dare un senso superiore alle nostre rinunce: dobbiamo restare arrabbiati ma sereni, tanto alla fine qualcosa ci inventeremo e riusciremo a sopravvivere a tutti quelli che oggi ci sembrano liberi, spavaldi e indifferenti.

Sarà necessario per noi restare vivi il più possibile, ce lo impone l’unico compagno con cui divideremo fino in fondo il nostro viaggio. Che, di sicuro, non ci lascerà mai soli.

Sa bene che, se smarrisse noi, sull’universo intero per lui calerebbe la tela. Alla fine, e nonostante tutto, resto convinto che avere un figlio autistico che ti cresce accanto è una delle migliori opportunità che ci possano capitare, per non annoiarsi mai. Nessuno potrebbe tenerci in allenamento a ben vivere come lui, che ci corre a fianco sempre più veloce; anche se tu senti che stai rallentando.

Sai che un giorno ti fermerai per naturale andamento delle cose, ma lui non potrà mai oltrepassarti. Quando sarai fermo lo sarà anche lui e ti aspetterà. Ti aspetterà anche se tu ti fossi fermato per sempre.

Gianluca Nicoletti è un giornalista e scrittore italiano. Quello che vi abbiamo proposto è un estratto del suo ultimo libro “Alla fine qualcosa ci inventeremo” (Mondadori 2014), che l’autore ci ha gentilmente concesso di pubblicare. 
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