Cosa sta succedendo nel Mediterraneo orientale e cosa c’entra l’Italia
La ricerca di riserve di gas nel Mediterraneo orientale sta alimentando le tensioni tra Turchia, Cipro, Libano, Israele ed Egitto. Da che parte sta l'Italia in questo Risiko, e qual è il ruolo dell'ENI?
Nel Mediterraneo orientale si combatte da anni una guerra non dichiarata sulle risorse energetiche ritrovate nella zona, un conflitto che si inserisce nelle tensioni storiche tra i maggiori stati rivieraschi: Turchia, Cipro, Libano, Israele ed Egitto.
La scoperta avvenuta negli ultimi anni di enormi giacimenti di gas nel cosiddetto bacino del Levante ha alimentato l’appetito dell’Europa e dell’Italia per fonti potenzialmente capaci di limitarne la dipendenza energetica dall’estero. Qual è il ruolo del nostro paese in questo conflitto poco conosciuto e combattuto a colpi di contratti tra le major petrolifere e dichiarazioni al vetriolo tra i principali leader della zona?
Nella foto: il bacino del Levante (mappa del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti)
Il ruolo dell’Eni e i bisogni dell’Italia
Considerato un attore fondamentale della politica estera italiana, l’Eni è presente in progetti energetici in quasi tutti gli stati dell’area: Grecia, Turchia, Egitto e Libano. La presenza della maggiore azienda italiana nella zona è giustificata dal fabbisogno energetico e in particolare di gas del nostro paese.
Secondo Terna – Rete Elettrica Nazionale, l’operatore che gestisce le reti per la trasmissione di elettricità in Italia, a fronte di un consumo di oltre 301mila gigawatt/h di potenza, aumentato del 2,2 per cento rispetto all’anno precedente, nel 2017 il nostro paese ha prodotto più di 215mila gigawatt/h di potenza da combustibili solidi e gassosi, di cui più di 140mila da gas naturale, con un consumo di oltre 25 miliardi di metri cubi di gas.
Il ministero dello Sviluppo Economico rivela che “il sistema nazionale è alimentato prevalentemente con gas prodotto in paesi stranieri, importato per mezzo di gasdotti internazionali o trasportato via mare in forma liquefatta come GNL e importato tramite terminali di rigassificazione”. I dati forniti dalla Direzione generale per la sicurezza dell’approvvigionamento e per le infrastrutture energetiche, mostrano come l’anno scorso l’Italia abbia importato oltre 69 miliardi di metri cubi di gas, di cui il 39,5 per cento direttamente dalla Russia, il 28 dall’Algeria, il 9,7 dal Qatar, il 6,7 dalla Libia e il 4,6 transitato da Austria e Svizzera, ma comunque importato dalla Russia.
L’evidente dipendenza dell’Italia dal gas russo, che da solo copre oltre il 45% delle importazioni, rappresenta un problema strategico per il nostro paese che cerca di rendersi sempre meno dipendente da un unico fornitore. Secondo la Strategia Energetica Nazionale, presentata nel 2017 dall’allora ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, il governo mira infatti a “rendere il sistema energetico nazionale […] più sicuro; rafforzando l’indipendenza” del paese. Il problema della dipendenza dal gas russo riguarda non solo l’Italia, ma l’intera Unione europea, che lo scorso anno ha importato ogni mese in media oltre 40 miliardi di euro di gas dalla Russia, pari a più di 80 milioni di tonnellate al mese. Per questo, la scoperta di risorse energetiche e in particolare di gas nel Mediterraneo orientale ha scatenato gli appetiti del mercato europeo.
Le ambizioni dell’Egitto e i rapporti con Israele
Il paese dell’area in cui Eni è presente da più tempo è l’Egitto, dove la compagnia italiana ha cominciato a operare nel 1954, cinque anni prima del suo primo progetto in Turchia e ben nove anni prima che cominciasse le proprie attività a Cipro. Il cane a sei zampe impiega nel paese arabo un totale di 250 dipendenti, che operano in particolare nel settore Upstream, ossia quello della produzione di gas naturale, olio combustibile e petrolio. Lo scorso anno, Eni ha prodotto l’equivalente di 230mila barili di petrolio al giorno in Egitto, pari al 12,66 per cento della produzione annua, di cui il 60 per cento gas naturale.
Nella foto: i giacimenti gas tra Egitto, Israele e Cipro (mappa dell’Istituto nazionale israeliano per gli studi sulla sicurezza)
La compagnia italiana opera su oltre 25mila chilometri quadrati di concessioni, di cui più di 9mila assegnati all’azienda. A dicembre 2017, Eni ha avviato in tempi record la produzione di gas dal giacimento di Zohr, gestito al 50 per cento dall’azienda italiana, a meno di due anni e mezzo dalla sua scoperta. Si tratta del più grande giacimento di gas del Mediterraneo orientale, situato a 180 chilometri da Port Said, con un potenziale di 850 miliardi di metri cubi di risorse di gas e capace di permettere all’Egitto di raggiungere l’autonomia energetica già dal prossimo anno. Eni prevede che nel 2018 Zohr apporterà alla propria produzione in Egitto l’equivalente di 75mila barili di petrolio al giorno, con un contributo che salirà a 175mila nel 2020 e a 250mila quando sarà a pieno regime, una cifra superiore all’attuale produzione dell’azienda in tutto il paese. La compagnia ha poi annunciato a giugno la scoperta del giacimento di Noor, che potrebbe avere dimensioni pari a tre volte quelle di Zohr, scoperto nel 2015.
L’Egitto si trova attualmente in una situazione delicata dal punto di vista economico, con un’inflazione che viaggia oltre il 17 per cento e una valuta in forte crisi. Il Cairo mira a diventare un esportatore netto di energia, seguendo l’esempio dei propri vicini arabi, usando però le proprie riserve di gas al posto del petrolio.
Ad agosto, il deficit commerciale dell’Egitto è cresciuto dell’8 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Nello stesso mese, le esportazioni del paese sono scese del 12,4 per cento, mentre le importazioni sono aumentate leggermente dello 0,3, tra queste figurano soprattutto petrolio raffinato e gas di petrolio liquefatti. Per questo il Cairo mira a esportare energia.
Le ambizioni dell’Egitto trovano un concorrente sul mercato, che nel tempo è diventato un alleato: Israele. La scoperta degli enormi giacimenti di gas Tamar e Leviathan al largo delle coste israeliane ha permesso infatti al governo di Tel Aviv di nutrire analoghe ambizioni per diventare un hub energetico regionale.
A febbraio, Israele ha firmato un contratto, definito “storico” dal premier Benjamin Netanyahu, per la fornitura di gas naturale all’Egitto. L’accordo ha un valore di 15 miliardi di dollari ed è solo apparentemente in contrasto con le ambizioni dei due paesi.
A ottobre infatti, la società statunitense Noble Energy, che gestisce il giacimento Leviathan insieme alla israeliana Delek Group, che opera a sua volta su quello di Tamar, ha firmato un accordo con la compagnia egiziana East Gas per la gestione del gasdotto EMG che esporterà risorse dai due giacimenti al largo di Israele fino in Egitto, dove si procederà alla raffinazione e alla riesportazione in Europa.
Le riserve di Israele e le rivendicazioni palestinesi e del Libano
Sul fronte energetico, lo stato ebraico è in accordi economici con l’Egitto, ma anche con la vicina Giordania, gli unici due paesi della regione con cui ha concluso un trattato di pace. Israele lavora infatti alla realizzazione di un gasdotto verso Amman, che però ha scatenato diverse proteste tra l’opinione pubblica del regno arabo, visto il mancato accordo sulla questione palestinese.
Anche questi ultimi infatti, nonostante non sia stata ancora raggiunta la pace, rivendicano la propria fetta della torta energetica regionale. Nel 1999 furono scoperte importanti riserve di gas al largo della striscia di Gaza, che però da allora restano inutilizzate. Alla fine degli anni ’90, i blocchi Gaza Marine 1 e 2 furono oggetto di un contratto tra il British Gas Group, la palestinese Consolidated Construction Company e il Palestinian Investment Fund per l’esplorazione e lo sfruttamento delle riserve ivi scoperte.
L’intesa però non ha mai avuto seguito, visto che Israele si oppone a uno sfruttamento diretto da parte dei palestinesi di queste risorse. Questi accusano lo stato ebraico di voler impedire lo sviluppo dei territori e di volersi appropriare di questi giacimenti che potrebbero risolvere la drammatica crisi umanitaria in corso soprattutto nella striscia di Gaza, che ospita circa 2 milioni di persone e dove un residente su due vive al di sotto della soglia di povertà. Nel territorio costiero l’80 per cento degli abitanti fa affidamento sugli aiuti umanitari per sopravvivere, mentre il 53 per cento della popolazione risulta disoccupata, con una percentuale che sale al 70 tra i giovani. L’afflusso di fondi provenienti dallo sviluppo delle risorse energetiche potrebbe risolvere questa situazione, ma Tel Aviv teme che il gruppo terroristico Hamas, che dal 2007 controlla la striscia a seguito di un colpo di stato, possa usare gli eventuali sostanziosi introiti per finanziare una campagna di riarmo.
Prima asta di blocchi offshore in Libano, Amministrazione del Petrolio del Libano
Lo stato ebraico nutre le medesime preoccupazioni e tensioni con il suo vicino settentrionale, il Libano, con cui Israele risulta tecnicamente ancora in stato di guerra, mentre l’ultimo conflitto armato tra i due paesi risale a 12 anni fa. Al momento, Beirut e Tel Aviv hanno una disputa irrisolta sul proprio confine marittimo per una zona di mare di circa 860 chilometri quadrati che si estende lungo il bordo di tre dei cinque blocchi messi in palio quest’anno per la ricerca di petrolio e gas al largo delle coste del paese arabo. Uno di questi blocchi, il 9, confina con le acque israeliane.
A dicembre 2017, il governo del Libano ha tenuto il suo primo round di assegnazione delle licenze offshore. Due blocchi furono allora affidati a un consorzio composto dalla compagnia francese Total, da Eni e dalla maggiore impresa energetica indipendente russa Novatek. A fine novembre, il ministro dell’Energia uscente, César Abi Khalil, e l’Autorità per l’Energia (LPA) libanese hanno quindi lanciato il secondo ciclo di licenze graduali di esplorazione e produzione per altri blocchi al largo del Libano. Nonostante l’avvio del proprio programma di esplorazione e sfruttamento, Beirut accusa il governo israeliano di boicottare i suoi sforzi in ambito energetico. Gli Stati Uniti hanno tentato una mediazione tra i due paesi, ma finora senza alcun successo. La presenza, anche parziale, di Eni in Libano mostra quanto l’Italia sia interessata a tutte le fonti energetiche disponibili nell’area.
Il caso di Cipro e il gasdotto EastMed diretto in Italia
La compagnia italiana è presente anche a Cipro, che rappresenta al momento il caso forse più scottante della disputa sul gas in corso nel Mediterraneo orientale, viste le tensioni con la Turchia. Qui Eni ha cominciato a operare nel 1963 fino a occupare lo scorso anno una superficie lorda di più di 12mila chilometri quadrati, di cui oltre 10mila assegnati all’azienda. La compagnia ha impiegato in tutto 30 dipendenti a Cipro lo scorso anno, operando in particolare nel settore dell’esplorazione e produzione di idrocarburi. A marzo 2017, Eni ha raggiunto un accordo per l’acquisto del 50% del Blocco 11, situato al largo dell’isola e gestito dalla francese Total. Questo si trova vicino al giacimento egiziano di Zohr e si estende per oltre 2.215 chilometri quadrati.
Dal punto di vista energetico, il rapporto di Cipro con l’Egitto è quello di un alleato nello sfruttamento delle risorse scoperte nel Mediterraneo orientale, come dimostrano i vertici trilaterali tenuti sull’isola dal capo dello stato Nikos Anastasiadis con il presidente egiziano al-Sisi e il premier greco Alexis Tsipras. A settembre, Cipro ed Egitto hanno raggiunto un accordo che apre la strada al primo gasdotto sottomarino dell’area, che porterà il gas naturale cipriota negli impianti di raffinazione di GNL del paese arabo, che poi lo riesporterà in Europa, secondo la strategia del Cairo di diventare un hub energetico internazionale. Secondo il ministro del Petrolio egiziano, Tarek El Molla, questo gasdotto costerà almeno 800 milioni dollari.
L’opera collegherà all’Egitto il maggior giacimento di gas cipriota, denominato Afrodite. Questo si trova nel blocco 12 della zona economica esclusiva di Cipro ed è stato il primo giacimento offshore scoperto dai ciprioti nel 2011. Il consorzio che ne gestisce lo sviluppo è composto dalla società statunitense Noble Energy, dalla israeliana Delek e da British BG (British Gas), una sussidiaria di Shell, tutte aziende già impegnate a vario titolo in Israele e Palestina. Secondo il ministro dell’Energia cipriota Giorgos Lakkotrypis, il gasdotto sarà operativo a partire dal 2022.
Nella foto: tracciato del gasdotto EastMed che potrebbe collegare i giacimenti del Mediterraneo orientale all’Italia(mappa di IGI Poseidon)
Inoltre, entro la fine dell’anno, Cipro, Grecia e Israele intendono firmare un accordo per la costruzione del gasdotto East Med, che colleghi i giacimenti al largo del Mediterraneo orientale ai tre paesi e il cui prolungamento, denominato Poseidon, potrebbe portarne il gas fino all’Italia. Con un costo stimato di 5,8 miliardi di euro, quest’opera dovrebbe portare il gas estratto al largo delle coste cipriote e israeliane verso l’Europa, riducendo così la dipendenza del continente dal gas russo e da quello algerino.
L’opposizione della Turchia e le minacce di Erdogan
I progetti di Nicosia, che negli ultimi anni ha firmato accordi anche con la sudcoreana Kogas e la statunitense ExxonMobil, trovano però l’ostacolo della Turchia, le cui truppe invasero nel 1974 il terzo settentrionale dell’isola, istituendo così la Repubblica turca di Cipro Nord, riconosciuta soltanto da Ankara.
Il governo turco si oppone a qualsiasi sfruttamento delle risorse di gas dell’isola che escluda l’autoproclamata repubblica, il cui presidente, Mustafa Akinci, ha proposto a maggio di far passare il gasdotto East Med attraverso la Turchia. L’intervento turco nell’area ha visto anche l’impiego della forza.
A febbraio, alcune navi da guerra turche, con la scusa di partecipare a delle esercitazioni militari nelle acque a est dell’isola, hanno bloccato la piattaforma Saipem 12000, di proprietà della controllata di Eni, in rotta verso un sito offshore all’interno del blocco 3 della Zona economica esclusiva di Cipro, dove era prevista la trivellazione di un pozzo esplorativo. La nave dell’Eni, rimasta ferma per giorni a circa 50 chilometri dal sito conosciuto come “Cuttlefish”, salpò alla fine per il Marocco. L’allora segretario di Stato statunitense Rex Tillerson, che è stato amministratore delegato di ExxonMobil, aveva criticato l’azione navale turca definendola “diplomazia da cannoniera”.
In seguito, la Grecia ha chiesto agli Stati Uniti di proteggere Cipro dalla “aggressione” della Turchia. A fine novembre poi, il governo dell’isola ha deciso di nominare un addetto militare all’ambasciata della Repubblica negli Stati Uniti, al fine di aumentare la cooperazione in materia di difesa tra i due paesi.
Nonostante l’intervento di Washington e le proteste dell’Unione europea, di cui Grecia e Cipro sono stati membri, le minacce turche non si sono fermate. A inizio novembre, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito “pirati” le major petrolifere straniere impegnate nelle esplorazioni dei giacimenti offshore al largo di Cipro. In seguito, Erdogan è arrivato ad affermare che “il comportamento sconsiderato della Grecia e di Cipro, che si muovono insieme, sono diventati una fonte di minaccia in primo luogo per loro stessi”.
Ankara sostiene non solo i diritti dei turco-ciprioti, ma afferma che la Zona economica esclusiva greco-cipriota viola la stessa piattaforma continentale della Turchia. Il governo turco ha cominciato a ottobre l’esplorazione al largo della propria costa meridionale. A metà novembre, sono cominciati poi i primi test di trivellazione alla ricerca di riserve di idrocarburi al largo della costa meridionale della provincia di Mersin, secondo un accordo firmato a settembre con la società statunitense Rowan Companies per l’esplorazione di due pozzi nel Mediterraneo.
La disputa sul gas coinvolge infatti aziende e paesi con cui la Turchia ha rapporti economici e strategici importanti. Come fatto notare recentemente da diversi media turchi, Erdogan affronta un enorme dilemma in quanto alcuni dei giganti energetici coinvolti e gli stati che li controllano hanno joint venture con la Turchia non solo nel settore energetico, ma anche in quello della difesa.
Eni è presente nel paese dal 1959 quando cominciò a operare nel settore turco della distribuzione energetica con Agip. In Turchia, l’azienda impiega sole tre persone e la società è presente soprattutto nel settore della vendita di gas, con oltre 8 miliardi di metri cubi di vendita diretta nel 2017. In particolare, Eni commercializza gas di provenienza russa trasportato attraverso il gasdotto Blue Stream, gestito al 50 per cento con il gigante energetico Gazprom, presieduto per diversi anni dall’attuale premier russo Dmitrij Medvedev. Inoltre, la controllata di Eni, Versalis Kimya, opera nel settore chimico turco.
Ma gli investimenti italiani nel paese non si limitano agli idrocarburi. L’Italia è uno dei principali partner del settore della difesa turco. Le Turkish Aerospace Industries hanno infatti sviluppato con la controllata italiana Leonardo (ex Finmeccanica), AgustaWestland, l’elicottero militare TTA9 ATAK, il più usato dall’esercito di Ankara nelle operazioni antiterrorismo e in particolare in Siria settentrionale, di cui quest’anno sono stati venduti trenta esemplari al Pakistan. La stessa Marina turca ha acquistato alcuni velivoli ATR-72 della Alenia Aermacchi e ha equipaggiato le proprie navi con cannoni Otomelara, oltre ad aver acquistato sistemi di comunicazione Selex. Inoltre, a novembre 2017, la Turchia ha firmato una lettera di intenti con Francia e Italia per rafforzare la cooperazione congiunta in materia di sistemi missilistici. A gennaio, Ankara ha assegnato al consorzio italo-francese EUROSAM un contratto per uno studio sullo sviluppo e la produzione di un sistema di difesa missilistica aerea a lungo raggio, che prevede la collaborazione con alcune compagnie turche per la realizzazione di batterie basate sul SAMP-T, un sistema d’arma già prodotto dal consorzio.
Eppure, nonostante tutti questi rapporti e affari, a febbraio Ankara ha fermato le attività di Eni al largo di Cipro, mentre non ha interferito nelle operazioni di trivellazione effettuate al largo dell’isola dalle società statunitensi ExxonMobil (iniziate il 16 novembre) e Noble Energy (iniziate nel 2011). Perché la Turchia non è intervenuta come nel caso di Saipem? Secondo i media turchi, la risposta risiede nella collaborazione delle imprese energetiche statunitensi nell’esplorazione e nello sfruttamento delle riserve di idrocarburi al largo delle coste del paese. Inoltre, le forze armate turche dipendono molto di più dalle importazioni provenienti dagli Stati Uniti rispetto ai prodotti europei.
La Turchia si trova insomma di fronte a un difficile equilibrio quando si tratta del Mediterraneo orientale, dove deve bilanciare le proprie aspirazioni in presenza di attori con cui condivide forti rapporti economici e strategici. Nonostante questo, Ankara si sente abbastanza forte da selezionare gli interventi e da calibrare le minacce a seconda dei soggetti interessati.
Il ruolo dell’Italia
La presenza di Eni nella maggior parte dei paesi dell’area coinvolti da questa “guerra non dichiarata” chiarisce il ruolo dell’Italia come quello di un cliente interessato che resta alla finestra, in attesa di sfruttare le occasioni che si presentano. L’obiettivo del governo italiano resta infatti quello di diversificare le fonti energetiche e limitare la dipendenza dal gas russo e algerino.