“Sei peggio di una mer** di cane”: la fiera dell’odio dei fan del M5s contro Matteo Dall’Osso
Fino a pochi giorni fa Matteo Dall’Osso era uno dei più ammirati “cittadini in Parlamento” del Movimento 5 Stelle, oggi sulla sua pagina Facebook c’è chi gli scrive: “A te manco i cani ti usano come posto per piscia**…”.
Sono gli effetti collaterali (si fa per dire) del magnifico mondo della “democrazia diretta” in cui si agita quel famigerato “popolo della rete” che secondo qualcuno un giorno potrebbe sostituire il Parlamento votando le leggi con dei clic, magari usando la stessa logica e le stesse competenze di chi si cura il cancro cercando su Google, senza ricorrere a degli “inutili” dottori.
Dall’Osso è un mite quarantenne, lo si incontra spesso sui divani del Transatlantico durante le pause dei lavori d’aula. Ha un carattere estroverso, la battuta facile, non ostenta la boria e l’ingiustificata saccenza di chi – magari durante le discussioni sulla manovra economica in Commissione Bilancio – finisce per farsi beccare nei bagni a fare tutt’altro.
A diciannove anni scopre di avere la sclerosi multipla e decide di iniziare a raccontare la sua malattia, le cure, i miglioramenti. A trent’anni l’incontro con la politica e con il Movimento 5 Stelle, seguono la prima elezione alla Camera dei Deputati nel 2013 e la riconferma il 4 marzo scorso.
Per lui il partito nato dai “vaffa-day” di Beppe Grillo era la scelta più giusta perché – come scrisse – rimase affascinato da come “tutti i partecipanti al Movimento fossero coinvolti nel risolvere problemi comuni”.
La sua attività parlamentare si concentra sin da subito sui diritti e sul tema a lui più caro per ovvia empatia: la disabilità, ma col tempo si rende conto che le sue battaglie non trovano spazio in un partito che ha ben altre priorità.
Qualcosa si rompe definitivamente il 3 dicembre, quando durante una seduta della Commissione Bilancio della Camera implora con le lacrime agli occhi i suoi compagni di partito di non bocciare un emendamento a sua firma che voleva istituire un fondo da 10 milioni l’anno per tre anni, presso il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, per interventi di innovazione tecnologica delle strutture, contrassegno e segnaletica per la mobilità delle persone con disabilità.
Dopo la bocciatura da parte del relatore di maggioranza, Dall’Osso decide di abbandonare il Movimento 5 Stelle e di passare al gruppo di Forza Italia.
Il suo gesto scatena la rabbia degli haters di fede grillina: gli “odiatori seriali” che al grido di “onestà” si sentono in diritto di insultare chiunque non la pensi come loro. In centinaia si riversano sulla sua pagina Facebook per insultarlo e dargli del traditore, un film già visto in occasione di altri addii più o meno eccellenti.
Una vera e propria “fiera dell’odio” che sui social network è ormai una consuetudine e che trova nei partiti populisti (in Italia Lega e M5S) il maggior numero di comparse.
Laura T. commenta (rigorosamente in maiuscolo): “PER CORTESIA,CAMBIA IMMAGINE IN ALTO!! NN SEI DEGNO DI STARE VICINO A LUIGI!!!” (Di Maio, ndr), Manu C. è più tranchant: “durerai meno di una cacata”.
Una delle accuse più frequenti che gli viene fatta è quella di lasciare il movimento degli onesti per approdare “nel partito nato dalla mafia, finanziato dalla mafia, militato da gente della mafia, per l’interesse della mafia” (Massimo B.).
Molti insinuano che il cambio di casacca sia frutto di corruzione: “Quanto ti ha pagato Berlusconi per passare a forza italia? Sei penoso” (Marisa. P), “E quindi fammi capire… viene bocciato un emendamento e tu scappi tra le braccia del mafio-pedo-nano??? A far cosa, a farti riempire le tasche di soldini?” (Riccardo F.).
Tantissimi gli rinfacciano i soldi che non “restituirà” approdando al nuovo gruppo: in fondo quella del “restitution day” è la campagna più azzeccata del Movimento 5 Stelle, che non potendo contare sulla competenza e sulla bravura dei suoi figuranti li trasforma in moderni eroi francescani, imponendo loro il versamento di parte dello stipendio in un fondo gestito in modo assai arbitrario.
“Allora è vero maledetto zozzone traditore – scrive Francesca Amanda, una donna distinta sulla cinquantina – lo fai per i soldi e infanghi il Movimento con le stesse miserabili accuse di altri sacchi di letame. Togli il simbolo, ogni immagine che ricordi la gente onesta e perbene, tu vai col pregiudicato, il delinquente naturale. TU FAI SCHIFO. TI AUGURO IL PEGGIO COME AGLI ALTRI SALTAMER** COME TE”.
Ci sono poi i disgustosi riferimenti alla sua malattia. Mario R. gli scrive: “La tua vera disabilità è essere un traditore!”.
Agghiacciante il commento di Fabio G.: “Il tuo handicap non è negli arti superiori ed inferiori, ma solo nel tuo cervello bacato… Spero solo che la SLA non ti porti via presto come ha fatto con mia suocera, ma spero che camperai per molti anni navigando tra villa Arcore e le Olgettine che potranno solo cambiarti il pannolone”.
A confronto, Salvatore C. con il suo “SEI PEGGIO DI UNA MER** CACATA DA UN CANE” fa quasi tenerezza.
Nel 1994 Andrea Barbato, grande giornalista scomparso, dedicò una delle sue “cartoline” all’allora comico Beppe Grillo che in quel periodo, durante i suoi spettacoli, urlava e faceva urlare al suo pubblico dei “vaffa” a personaggi del mondo della politica e dell’economia additati nel corso dei monologhi.
Osservava Barbato rivolgendosi a quello che sarebbe diventato il fondatore del Movimento 5 Stelle: “Non nego il valore comico, liberatorio una tantum di una bella imprecazione lanciata all’indirizzo giusto: ma lei crede davvero che la sacrosanta rabbia, la furia contro i poteri, le corruzioni, le meschinità, le inefficienze, le arroganze… che tutto questo venga soddisfatto, sanato da una trasgressione verbale, da un grido insultante da curva calcistica, trasformando magari per un solo istante il professionista, il funzionario e le loro signore in esseri urlanti e vituperanti? A scopi terapeutici dice un giornale, ma io ne dubito: che terapia è questa? È la strada maestra dell’illusione qualunquistica, dello sberleffo fine a sé stesso, della vendetta anonima pronunciata da una poltrona in penombra…”.
Oggi quelle poltrone in penombra sono degli schermi che illuminano e al contempo “schermano” le vite delle persone, rendendole più sole e più rabbiose, anche in quei momenti in cui l’illusione del branco che si crea quando un singolo viene virtualmente insultato da centinaia di profili virtuali fa credere a queste persone di essere meno sole. Perché a terminale spento resta la realtà di “un’Italia che – come disse Barbato a chiusura del suo editoriale – è sempre lì: eterna nei suoi errori. E a prova di insulto”.