Ludopatia, il governo vuole dare una stretta al gioco: siamo andati nella Las Vegas slovena a due passi dall’Italia
Viaggio nei casinò di Nova Gorica, frequentati quasi esclusivamente da italiani: così, oltre la frontiera, si elude la lotta della politica al gioco d'azzardo. E aumentano le vite piegate dai vizi
Fin da quando vigeva il regime comunista di Tito, le terre dell’odierna ex Jugoslavia sono state pervase da una spessa coltre di contraddizioni. Chi conosce il nord-est italiano sa bene che la sua storia, dal secondo dopoguerra agli anni Novanta, è stata segnata dalla convivenza, molto spesso scomoda, con questo suo vicino “rosso”, che ancora a conflitto mondiale acceso avrebbe voluto inglobare entro i propri confini Gorizia e Trieste.
Non per questo, però, chi viveva sul lato occidentale del confine si rifiutava di oltrepassarlo e i motivi dei loro viaggi non erano limitati al mero acquisto di sigarette, carne e benzina. La Slovenia dell’ovest, in particolare le regioni del Goriška (Goriziano) e dell’Obalno-kraška, è stata infatti storicamente una meta per gli amanti della fortuna: nel 1913 a Portorož (Portorose) venne aperto il primo casinò del Paese, all’epoca territorio dell’Impero austro-ungarico, e tutt’oggi rimane una delle case da gioco slovene più antiche e ancora aperte.
Oggi “Casinos Portorose – since 1913” è diventato un marchio che raggruppa quattro strutture della località turistica, d’estate presa d’assedio da yacht e bolidi provenienti da tutta Europa: un giro d’affari nato prima della dissoluzione della Repubblica Federale, che attirò perfino le esigenze di riciclare denaro di Felice Maniero, come raccontato da Ugo Dinello nel libro “Mafia a Nord-Est” (BUR).
Non serve raggiungere le coste dell’alto Adriatico, però, per ritrovarsi circondati da casinò. Appena varcato il confine che divide Gorizia dal proprio alter ego sloveno Nova Gorica, infatti, le luci sfavillanti di insegne e cartelloni pubblicitari seguono lo straniero in ogni suo spostamento: “straniero” perché trovare uno sloveno, tantomeno un novagoriziano, all’interno di uno dei tanti edifici dedicati al gioco d’azzardo è molto difficile.
La legge slovena, infatti, proibisce agli abitanti del luogo di entrarvi per giocare – come accade a Venezia – e basta dare un’occhiata al parcheggio di una di queste strutture per capire la nazionalità dei suoi frequentatori: targhe italiane ovunque. Non che sia una cosa rara vederle in questa zona di confine, ma il fatto che molte riportino le sigle di città venete o di altre regioni lasciano pochi dubbi sul perché siano stazionate lì.
È perfino impossibile far finta che non sia cosi: nel solo centro cittadino, si contano tre enormi casinò, senza contare gli altri che si trovano nell’hinterland, sempre a ridosso del confine. In tutto, nella sola Nova Gorica e nei paesini limitrofi, sono presenti poco meno di una decina di colossi di cemento e neon, al cui interno quasi tutti sono anche hotel e ristoranti.
Tra questi, c’è il Perla: un enorme mappamondo bronzeo sul tetto ne indica la posizione a centinaia di metri di distanza, quasi come la sede della redazione del Daily Planet, il giornale in cui lavora Clark Kent-Superman. All’interno, anziché giornalisti alla ricerca di scoop, la “fauna” umana è composta principalmente da persone di mezza età, che affollano le stanze da gioco: uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur camminano invece nei corridoi tra le stanze del lussuoso albergo e il sala-congressi, pronti a discutere di affari.
Attenti a non perdersi nel più grande casinò del Paese. Seduti in un bar della cittadina, non si nota alcunché di ciò che accade lì dentro. Quei giganti che attraggono persone da centinaia, se non migliaia di chilometri di distanza, alla fine riescono a “mimetizzarsi” in quel tessuto urbano sviluppatosi a Nova Gorica partire dalla fine degli anni Settanta: proprio in quegli anni, infatti, il governo di Belgrado chiamò come consulente Stevan Stojanovic, serbo di ritorno da Las Vegas, per imprimere una svolta turistica alla zona.
All’architetto Isidor Simcic fu chiesto di ideare le case da gioco d’oltre-confine e, come raccontò al giornalista de Il Piccolo, Roberto Covaz, “all’epoca c’erano due modelli cui ispirarsi per i casinò: quello francese e quello americano”. “A Portorose scelsero il modello francese pensando di sfondare, a Nova Gorica invece ricevemmo l’incarico di progettare il Park all’americana. Dal 1984 il successo fu travolgente”.
Il Park, nato nel 1964 come hotel, esiste tutt’oggi ed è il primo casinò in cui ci si imbatte arrivando dalla Erjavčeva ulica, lungo viale che parte dall’ex valico e porta fino in centro. Questo, insieme al già citato Perla e a molte altre strutture sia in città sia nel resto della Slovenia, appartiene al Gruppo Hit, discendente dell’HGP, l’organismo parastatale jugoslavo per il turismo che aveva dato il via a quello sviluppo.
Ad oggi il sistema conta 2.100 dipendenti, di cui 1.200 nella sola Nova Goriza, come ci spiega il presidente del gruppo, Dimitrij Piciga. Questa è una realtà con cui le autorità locali e nazionali non possono non dialogare, come dimostrano le collaborazioni sul fronte del turismo, tanto che perfino sul sito dell’Ente sloveno per il turismo c’è una sezione dedicata ai casinò nazionali.
La partnership prosegue anche con l’organizzazione di eventi di promozione all’estero, continua Piciga, e le collaborazioni sarebbero anche con associazioni sia italiane che slovene dedite alla “responsabilità sociale”. Quando però gli chiediamo quali esse siano e cosa facciano di preciso, la risposta è un vacuo “non lo so”.
Una cosa è certa: alle istituzioni locali non piace parlare con la stampa del rapporto tra città e casinò. Dopo ripetuti tentativi di contattare gli assessorati di competenza e lo stesso sindaco, Matej Arčon, nessuno ha ritenuto necessario rispondere a una nostra richiesta di intervista sul tema.
Molto più preziosi per comprendere gli effetti sociali della presenza di così tante case da gioco sono stati invece gli enti sul confine italiano, ossia coloro che da anni si occupano di aiutare le persone finite nel tunnel del gioco a uscirne vive. Perché se è vero che, come dichiaratoci sempre da Piciga, che “solo” il 2 per cento delle persone affette da ludopatia sono sloveni della zona, molti altri sono italiani o quantomeno si rivolgono al dipartimento delle dipendenze goriziano.
Nel solo Friuli Venezia Giulia il volume di gioco raccolto è di 1,392 miliardi di euro, oltre 74 miliardi a livello nazionale (dati 2016 dell’Agenzia delle dogane e dei Monopoli). A confermarci che il problema legato al gioco c’è e non è trascurabile è Carlo Benevento, educatore professionale al Sert di Gorizia, la cui sede si trova nell’ex ospedale psichiatrico dove Franco Basaglia diede il via alla sua rivoluzione.
Da quando qui è attivo il servizio di aiuto contro la ludopatia, ossia una decina d’anni – Gorizia e Trieste furono tra le prime in Italia ad aprirlo, proprio in virtù della loro posizione geografica -, i casi accolti sono stati molti e nel solo 2017 sono stati una sessantina tra il capoluogo isontino e Monfalcone. Anche se il numero di chi si intossica oltre-confine non è mai calato da quando è monitorato, la percentuale ultimamente è inversamente proporzionale a chi invece finisce nella tela delle sale slot e VLT, ci spiega Benevento.
I due tipi di utenza sono però diversi: “Chi gioca ai casinò ha più bisogno di accudimento”, analizza l’esperto, poiché “in quei posti trova un’accoglienza strutturata”, cosa che invece non c’è mai nelle sale che si trovano anche in Italia. “Chi è passato da uno all’altro ha notato la minor piacevolezza del luogo”, aggiunge l’educatore.
La piaga della ludopatia è un tema che ha creato un fronte comune fra maggioranza e opposizione in consiglio comunale a Gorizia: Andrea Tomasella (Lega), Andrea Picco (lista civica Forum) e Luca Braulin (Fratelli d’Italia) hanno presentato una mozione per contrastare il gioco d’azzardo sul territorio comunale. Il provvedimento non ha però potere sulle strutture oltre-frontiera, anche se per chi manifesta sintomi di dipendenza verso quest’ultime una soluzione c’è: in Slovenia è infatti possibile iscriversi a delle liste di auto-esclusione, valide su tutto il territorio nazionale, in modo da impedire di accedervi in un momento di debolezza.
Molto di più si fa in Svizzera, sottolinea ancora Benevento, dove ci sono addirittura dei consulenti che aiutano i clienti malati ad organizzare un proprio percorso di cura. La soluzione meno controllabile in Europa è invece quella italiana, in cui non esiste un sistema di “prevenzione” e la diffusione di sale slot è indiscriminata.
Le possibili idee proposte da Di Maio su questo fronte, come il blocco della pubblicità delle aziende di scommesse e l’obbligo di uso della tessera sanitaria per le macchinette, sono viste con fiducia dall’intervistato.
In Slovenia come affrontano il tema delle dipendenze? Anche in questo caso, le richieste da parte di TPI di avere un colloquio con i dirigenti della Casa Sanitaria (Zdravstveni dom) di Nova Gorica non hanno ricevuto risposta, ma è ancora Benevento che ce ne parla: dall’altra parte del confine i servizi contro le dipendenze sono affidati ai dipartimenti psichiatrici e non esiste un modello simile a quello dei servizi territoriali italiani.
L’analogia è invece con le strutture austriache, cliniche ospitanti comunità terapeutiche, a volte associate a gruppi religiosi.
Per chi si affida alle istituzioni italiane, invece, l’individuo rimane nella società in cui ha sempre vissuto ma è soggetto al monitoraggio economico, che dura dai due ai tre anni: il paziente non può gestire autonomamente il proprio denaro, ma è affidato a un familiare o a un amministratore di sostegno.
“Non tutti riescono a superare il periodo”, ammette a malincuore l’educatore, e sono soprattutto i più giovani a interrompere il percorso. “Servirebbero attività peculiari per loro” rivela, ma come sempre le carenze di budget dettano la linea.
“La situazione negli ultimi anni è peggiorata. A Trieste c’è perfino un servizio taxi gratuito che porta fino a i casinò”: sono le parole di un’operatrice dell’Azienda sanitaria locale, che ci chiede di rimanere anonima. A tutto ciò si aggiungono le corriere che arrivano dal Veneto piene di persone proprio per andare a giocare, tutto pagato dalle sale gioco stesse.
Non c’è quindi da sorprendersi se anche la politica ha finalmente iniziato a prendere provvedimenti in questa direzione, come dimostra la modifica alla legge regionale 1/2014, approvata il 17 luglio 2017, che vieta l’oscuramento delle vetrine delle sale slot, i cui luoghi angusti sono uno degli elementi che contribuiscono alla caduta nella dipendenza. La nostra stessa interlocutrice ammette, però, che il provvedimento non è rispettato da tutti.
In Piemonte, invece, da settembre 2017 si è arrivati addirittura alla chiusura di moltissimi di questi locali, tanto che il giro d’affari è precipitato da 15 miliardi a 3 miliardi annui. Il tintinnio dei soldi sembra quindi oscurare qualsiasi altro rumore. Perfino lo straziante silenzio in cui piombano migliaia di persone ogni anno e il cui peso sociale ed economico investe famiglie, comunità, reti sociali.
La “morale” che ne esce è che i risultati finali sovrastano i costi che si lasciano dietro, anche se non si tratta solo di risparmi andati in fumo ma di vite piegate dai propri vizi. Chi ci guadagna non vuole guardarsi indietro, molto meglio ammirare le luci intermittenti al neon che rimbalzano su autobus e macchine targate Montecarlo. Chi cerca di aiutare coloro che vengono ingoiati da questo turbinio si ritrova a fare i conti con problemi sempre più grandi, ma con mezzi proporzionalmente sempre più ridotti.
Nel frattempo, il cartellone pubblicitario sull’autostrada, raffigurante una bellissima ragazza vestita da sera che gioca alla roulette, continua a immortalare il desiderio segreto di molti. L’incubo di moltissimi.