La storia dell’omicidio di Lidia Macchi e la condanna di Stefano Binda all’ergastolo
Dopo 30 anni di mistero è arrivata la sentenza di primo grado per l'assassinio di Lidia Macchi. La svolta in una poesia recapitata a casa della giovane e intitolata "In morte di un'amica"
Lidia Macchi: storia dell’omicidio | La condanna di Stefano Binda
Dopo 31 anni di fitto mistero, martedì 24 aprile 2018 i giudici della Corte d’Assise di Varese hanno emesso la prima importante sentenza per l’omicidio di Lidia Macchi, studentessa violentata e uccisa con 29 coltellate nel 1987, e il cui cadavere fu ritrovato in un bosco nei pressi di Varese.
Stefano Binda, suo ex compagno di liceo oggi 48enne, è stato condannato all’ergastolo nel processo di primo grado.
Si tratta di un caso per molti versi clamoroso: per quasi 30 anni gli inquirenti e la procura hanno vagliato una serie di ipotesi senza mai riuscire a indirizzarsi su una pista concreta.
Poi, nel 2014, è arrivata una svolta del tutto inaspettata: una macabra poesia intitolata “In morte di un’amica” pubblicata su un giornale locale, la Prealpina, e verosimilmente vergata dall’assassino, una sorta di auto-confessione che era stata ritrovata già nel periodo dell’omicidio a casa di Lidia Macchi.
Stavolta, però, grazie alla pubblicazione sul giornale, un’amica di Stefano Binda ha riconosciuto la calligrafia di quest’ultimo. Da lì l’arresto, successivi accertamenti, perquisizioni, l’acquisizione di una serie di elementi che hanno convinto i giudici della colpevolezza dell’unico imputato.
La morte di Lidia Macchi
Lidia Macchi era una studentessa di giurisprudenza all’Università Statale di Milano. Aveva vent’anni ed era molto attiva negli ambienti del mondo cattolico: faceva parte di Comunione e Liberazione ed era capo scout in una parrocchia di Varese.
Il 5 gennaio del 1987 la ragazza era uscita per andare a trovare una sua amica, ricoverata nell’ospedale di Cittiglio, in provincia di Varese. All’ospedale però non è mai arrivata, e da quel momento si sono perse le sue tracce.
Qualche giorno dopo il cadavere è stato ritrovato in un bosco di Cittiglio. Secondo le ricostruzioni fatte da inquirenti e procura, Stefano Binda, suo ex compagno di liceo, proprio in quel parco l’avrebbe dapprima violentata, per poi infliggerle 29 coltellate.
Lidia Macchi sarebbe poi morta per asfissia dopo una notte passata nel bosco, al gelo.
Sempre secondo le ricostruzioni effettuate, tra la vittima e il suo carnefice c’era un’amicizia e, forse, anche una qualche forma di legame sentimentale. Binda era un ragazzo descritto da tutti come molto colto, affascinante, dotato dal punto di vista intellettuale, ma aveva avuto problemi legati al consumo di droga.
Entrambi facevano parte di Comunione e Liberazione.
Quella notte, la furia di Binda sarebbe scattata proprio in virtù della sua fede estrema e delirante. Dopo aver forzato Lidia a un rapporto sessuale, Binda si sarebbe pentito, vedendo nella giovane la causa del suo peccato di fronte a Dio, e per questo l’avrebbe punita, accoltellandola.
Proprio in virtù di questa dinamica, la condanna di Binda è stata emessa con l’aggravante dei “futili e abietti motivi”. Binda temeva infatti che l’atto sessuale lo avrebbe squalificato di fronte alla sua comunità, in particolare se Lidia avesse rivelato quanto accaduto.
Inoltre, sempre secondo la tesi accusatoria accolta dalla sentenza, si sentiva colpevole moralmente e dal punto di vista religioso proprio a causa di una fede che rasentava il fanatismo.
Come si è arrivati a Stefano Binda
Il giorno dei funerali fu recapitata a casa Macchi una lettera che conteneva una poesia dal titolo “In morte di un’amica”. Nella poesia c’erano riferimenti, sebbene non espliciti, alla morte della ragazza. Il testo è stato quindi considerato una sorta di auto-confessione dell’assassino.
Per risalire all’identità dell’autore si è dovuto attendere il 2013, quando il caso fu riaperto dalla procura di Milano. Vennero disposte nuove analisi del Dna su alcuni reperti, e venne ritirata fuori anche quella lettera, che finì nelle mani del giornale locale Prealpina.
La poesia venne quindi pubblicata, e il 24 luglio 2014 un’amica di Stefano Binda disse agli inquirenti di averne riconosciuto la calligrafia.
“Mi colpì la grafia in quanto da subito mi sembrò familiare. Così andai a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano Binda e con sorpresa notai una grande somiglianza nella grafia stessa”, dichiarò la donna in procura.
Successivi accertamenti e perizie calligrafiche confermarono le impressioni della donna.
A casa di Binda, inoltre, fu trovato un foglio con su scritto la frase: “Stefano è un barbaro assassino”. Anche in questo caso, secondo le perizie calligrafiche la frase era stata scritta dallo stesso Binda.
Stefano Binda si è sempre dichiarato innocente, e i suoi avvocati, dopo la sentenza di ergastolo, hanno dichiarato di voler andare avanti nei successivi gradi di giudizio per provare la non colpevolezza del loro assistito.
Paola Bettoni, madre di Lidia Macchi, ha commentato così la sentenza: “Da una parte sono contenta, dall’altra penso a una mamma che si trova con un figlio in una situazione così, io ho perso mia figlia ma anche lei. Lidia non meritava un morte così”.