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Home » News

Il paese in cui l’ispezione anale per i gay è legale

Immagine di copertina

Gli omosessuali libanesi rischiano fino a un anno di carcere e i sospetti gay possono subire “il test della vergogna”. TPI ha raccolto alcune delle loro testimonianze

Era il 2012 quando trentasei uomini che uscivano da un cinema per gay sono stati arrestati e obbligati a subire un test anale per rivelare la loro eventuale omosessualità. Quest’ultima in Libano è ancora un reato.

Secondo l’articolo 534 del codice penale libanese, introdotto nel 1922, durante il mandato francese, “sono punibili gli atti sessuali contrari all’ordine di natura” e il “colpevole” rischia fino a un anno di carcere. Nonostante alcune sentenze siano andate contro questo articolo, questa norma è ancora in vigore.

La legge libanese, inoltre, autorizza gli agenti di polizia a sottoporre ad un test di “controllo sessuale”, tramite ispezione del canale anale e analisi dello sperma, qualunque individuo condotto in caserma perché sospettato di essere gay. Anche se il sindacato dei medici ha vietato ai suoi iscritti tale pratica, in molti, dal 2012 in poi, hanno denunciato di aver subito i “test della vergogna”, così ribattezzati dalla comunità Lgbt libanese.

Lo conferma a TPI Genwa, una volontaria di Helem, un’associazione che dal 2004 combatte per i diritti degli omosessuali.

La sua associazione lavora per abolire l’articolo 534 e per aiutare la comunità Lgbt a prendere coscienza dei propri diritti. Ma non solo: la sede dell’associazione, che si trova nel quartiere di Gemmayze, cuore pulsante della movida della capitale Beirut, è un’oasi di libertà per tutti i gay.

Fra le poche stanze, colorate e ben arredate, i membri di Helem si ritrovano per chiacchierare, rilassarsi o dibattere. Il centro, inoltre, mette a disposizione un assistente sociale e supporto medico specializzato.

L’emarginazione degli sciiti omosessuali

“Nelle famiglie musulmane i figli vengono spinti verso il matrimonio sin da giovanissimi”, dice a TPI Ahmed, un giovane ragazzo libanese nato in una famiglia musulmana sciita. “Io mi ero appena diplomato quando ho cominciato ad avvertire questa pressione da parte di mia madre e mio padre, e ho capito che non potevo aspettare ancora. Dovevo assolutamente dirgli che ero gay”.

Ma essere sciita in Libano vuol dire quasi sempre essere legato a un preciso movimento che nel paese pesa come un macigno, quello di Hezbollah. “Alcuni membri della mia famiglia sono ufficiali del Partito di Dio”, racconta il giovane. “In questo momento i miei fratelli e cugini stanno tutti combattendo in Siria nelle fila degli Hezbollah”.

Questa appartenenza familiare ha reso la verità di Ahmed ancora più scomoda per i suoi parenti e penosa per lui da confessare.

“Il primo a cui l’ho detto è stato mio cognato, il marito di mia sorella”, continua Ahmed. “A quel tempo eravamo molto legati e io mi sono fidato di lui. Ma lui è andato subito a dirlo ai miei genitori, e da quel giorno tutto è cambiato”.

La vita di Ahmed si è trasformata improvvisamente in un incubo, i suoi affetti più cari gli si sono rivoltati contro. Nessuno dei suoi familiari lo ha più guardato con gli stessi occhi. “Mi hanno insultato e minacciato, anche fisicamente”, racconta il giovane con il fiato spezzato.

Era il 2012 quando Ahmed ha deciso di lasciare la casa della sua famiglia per trasferirsi da alcuni amici che vivevano dall’altro lato di Beirut. “Sono andato via e da quel giorno non sono più tornato a casa, loro non vogliono più avere a che fare con me”, racconta. “Qualche mese fa è nata la figlia di mio fratello, ho mandato loro un messaggino per congratularmi, ma non ho ricevuto neanche una risposta”.

Ahmed fa una pausa, abbassa il capo e sospira. Sono passati molti anni da quando ha detto ai suoi la verità, ma il dolore per il trattamento subito da parte della famiglia, che ancora oggi non vuole saperne niente di lui, è vivo più che mai.

“Riesco a provvedere a me stesso economicamente e ho molti amici”, spiega Amhed, che oggi lavora per una organizzazione non governativa a sostegno dei molti siriani in fuga dalla guerra presenti in Libano. “Certo all’inizio è stata dura: ho pianto molto perché non potevo vedere mia madre, ma ora sto bene”.

La “libertà a metà” dei libanesi

Nonostante le numerose difficoltà quotidiane della comunità Lgbt, c’è anche chi considera il Libano come una piccola oasi di libertà in Medio Oriente.

Molti bar e club sparsi per la capitale aprono le porte nel weekend a gay di ogni appartenenza confessionale. Uno dei più noti è il Bardo: un’ambiente chic con luci soffuse, in cui uomini e donne benestanti si ritrovano per ballare e rilassarsi in totale libertà.

Ma è una libertà a metà. A pochi passi dal locale c’è un check point: i due militari libanesi ci fermano, chiedendoci perché ci stessimo recando al Bardo e insistendo nel voler sapere la nostra identità e la nostra provenienza.

La tolleranza traballa pericolosamente tra il pericolo di uno scandalo pubblico e il fare finta di niente. La stessa atmosfera di oasi viene vissuta al Projekt, una discoteca a pochi chilometri da Beirut, dove i giovani una volta entrati si spogliano dalle preoccupazioni per le possibili conseguenze con la giustizia e si lasciano andare. In gruppo o singolarmente, uomini e donne, si scatenano in pista al ritmo di musica elettronica accalcandosi al bar del locale per un cocktail.

“Purtroppo il mondo dei media è diviso in due”, spiega a TPI Naji, membro dell’associazione Lgbt Media Monitor, che monitora tutto ciò che viene pubblicato o detto sui social media e sui media tradizionali segnalando, sui propri canali, frasi o commenti omofobi.

“Molti artisti e cantanti, oltre a diverse televisioni, hanno preso posizione sostenendo la comunità omosessuale, ma sono ancora troppe quelle che attaccano i gay trasmettendo musica di cantanti i cui testi invitano le donne a stare chiuse in casa o mettono in guardia la società dal pericolo dell’omosessualità”.

Le conquiste delle associazioni Lgbt

Helem, Lgbt Media Monitor e altre associazioni lavorano con forza per migliorare la vita della comunità Lgbt in Libano, ed è anche grazie al loro impegno se il paese sta da poco muovendo piccoli passi verso la depenalizzazione dell’omosessualità.

Il cammino legislativo è ancora lungo, come ci confermano i volontari delle associazioni intervistati, ma intanto un verdetto, per certi versi storico, è arrivato dal giudice della Corte di Cassazione libanese, Rabih Maalouf il 26 gennaio 2017.

Il magistrato, trattando il caso di una coppia di ragazzi gay accusati di “atti contro natura”, ha sentenziato che l’omosessualità non è punibile, in quanto “è una scelta personale e non un reato”.

Un’altra sentenza a favore della comunità è arrivata nel gennaio 2014 dal giudice Naji al Dahdah. In questo caso il magistrato ha archiviato il caso di una persona transessuale che aveva avuto rapporti con un uomo, motivando per la prima volta la sentenza con la considerazione che “l’articolo 534 non fornisce una chiara interpretazione di cosa sia contro natura, ed una relazione omosessuale non è un atto innaturale”.

Se dal punto di vista giudiziario, considerando queste sentenze, si intravede una breccia per la depenalizzazione dell’omosessualità, dal punto di vista della società libanese le resistenze sono ancora molte. Molti ragazzi e ragazze hanno confermato la difficoltà di poter vivere serenamente la loro sessualità.

Come mostra la storia di Ahmed, l’emarginazione avviene soprattutto tra le mura domestiche, dove l’essere gay è ancora sinonimo di peccato e vergogna.

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