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Basta minimizzare la storia per non scontentare i nuovi fascisti, facciamo i conti con il passato lercio del nostro paese

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Pare che il sindaco di centrodestra di Trieste, Roberto Dipiazza, abbia fatto retromarcia rispetto alla sua decisione di non accogliere in Comune una mostra sulle leggi razziali del 1938leggi razziali commento

Sembra che in un primo momento Dipiazza abbia trovato deplorevole la locandina dell’evento, che ritrae tre ragazze sorridenti e abbracciate su cui si abbatte il macigno della legislazione razzista di Stato.

Tutto ciò è apparso al sindaco “pesante”, a tal punto da spingerlo a dichiarare: “Dico io, è proprio necessario sollevare ancora quelle cose?”. Le “cose” che urtano il sindaco sono ben evidenziate dalla riproduzione sulla locandina di una pagina del Piccolo, il giornale di Trieste, così come appariva in un giorno del 1938.

A caratteri cubitali e con tono esultante, il quotidiano proclamava: “Completa eliminazione dalla scuola fascista degli insegnanti e degli alunni ebrei”.

Di fronte a questa truce realtà il sindaco ha chiesto di “abbassare i toni”, di “ammorbidire quel manifesto”. Come se fosse un’operazione legittima minimizzare o edulcorare la storia.

Tuttavia, data la leggerezza invocata, è strano che proprio uno come Dipiazza non si scomponga allo stesso modo nell’essere sostenuto politicamente da un partito che gode nel tenere ferme in mare imbarcazioni con centinaia di persone sofferenti e traumatizzate, lacerate da ferite devastanti.

Strano che il sindaco esiga delicatezza di fronte a eventi storici brutali quando egli stesso rilascia interviste televisive in cui con disinvoltura pronuncia la parola “negro”.

Il sindaco dice che ci troviamo a vivere un periodo “strano” e che non bisogna per questo scontentare nessuno. Chi precisamente? Forse i militanti di Forza Nuova presso le cui manifestazioni egli si reca per porgere i saluti della città?

In effetti, ci vuole fegato per addentrarsi in questa parte della nostra storia, nelle nefandezze compiute dallo Stato italiano contro migliaia di propri cittadini. Tanto è vero che con esse il paese non ha mai voluto far bene i conti, non solo per ragioni di opportunismo politico ma perché c’è molto di cui vergognarsi.

Soprattutto nel momento in cui ancora persiste il mito degli italiani “brava gente” a fronte di tutte le violenze compiute durante il periodo dittatoriale fascista.

Sapere che ad un certo punto questo paese ha deciso di perseguitare una parte della propria cittadinanza, espellendola dalle scuole, dalle università e dalle funzioni pubbliche, censendola e costringendola ad autodenunciarsi, è un motivo di estremo disonore.

Basta ascoltare le testimonianze di chi quei provvedimenti li patì per sapere come migliaia di legami vennero recisi, come a molti bambini e bambine fu negato il rientro in classe con i propri compagni, così come agli insegnanti e ai professori universitari di origine ebraica, le cui posizioni furono velocemente occupate da rampanti colleghi non perseguitati.

Trovandosi senza lavoro, ridotti in stato di povertà, squalificati a livello sociale, in molti si suicidarono, mentre un gradasso dalle movenze ridicole e bislacche, forzate e innaturali, continuava a dimenarsi sui balconi dei palazzi di governo, dichiarando alla nazione l’intento di creare l’“italiano nuovo”.

Il tutto nella piena remissività e passività di una popolazione stordita e resa ottusa da quasi vent’anni di regime.

L’“italiano nuovo” doveva nascere dunque sulle chiacchiere imbastite dalla dittatura fascista, sulla violenza, sull’eliminazione dell’opposizione politica, sulle cariche di gas lanciate vigliaccamente sugli abitanti dell’Africa orientale, al fine di vincerli e sterminarli, sulle leggi razziali scagliate contro alcuni cittadini dello Stato. Sulla guerra.

Nonostante il lavoro degli storici, duole constatare che questa memoria non si è dignitosamente depositata tra le coscienze individuali.

Come scriveva l’attualissima Hannah Arendt? Quando i cittadini pattinano sulla superficie degli eventi, senza radici nel passato, questi sono i risultati. Si compie il male senza saperlo, convinti che sia buonsenso.

Il problema non è solo Salvini, che sparge e rinfocola odio, ma la massa che si muove dietro di lui, del tutto incapace di leggere la realtà. Se sapesse leggerla, infatti, non si farebbe ingannare con il primo racconto che le viene propinato: quello dei migranti che ledono la gloria della nazione.

Quale gloria? Sono anni che gli italiani si rimettono nelle mani di chi promette loro miracoli svendendo invece illusioni.

È un circolo che non muore e che produce sempre più esasperazione, senza che dall’esperienza pregressa si impari nulla. Accadrà anche questa volta, fermo restando che la violenza fomentata non si riassorbirà da sola.

Nel 1938 i bambini espulsi da scuola, relegati in una condizione di diversità, venivano additati dalla gente in strada, oppure non considerati, trattati con indifferenza. Esistevano anche gli amici con la “A” maiuscola, come diverse volte ha testimoniato Liliana Segre, ma vi era anche chi si sentiva libero di gridar loro “ebreacci!” o di chiuderli a chiave in aule separate nei giorni della licenza elementare.

Proprio a Trieste nel 1938, Mussolini sostenne che “il prestigio dell’impero”, il ridicolo impero italiano, poteva essere garantito solo attraverso “una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime”.

Quali superiorità? Il sindaco Dipiazza saprebbe dirlo? Forse proprio per questo egli preferisce tenere lontani i ricordi, per evitare che qualche coscienza si risvegli, arrivando persino a stabilire connessioni con il presente.

Meno si conosce e si ricorda e meglio è, in effetti, perché così non ci si rende conto della “merde” che è tracimata letteralmente dalla fogna, dal passato lercio e inutilmente ricoperto di questo paese.

Un paese dove si sa tutto a proposito dell’olio di palma contenuto nei biscotti e ben poco dell’olio di ricino usato per le torture nelle carceri fasciste.

Se si vuole capire, se ci si vuole muovere verso la profondità offerta dai legami di senso che si creano intorno alle narrazioni, si ascolti la voce calda e sapiente di Liliana Segre, che a tutto questo è sopravvissuta, quando racconta della sua esperienza di bambina milanese di otto anni espulsa da scuola perché ebrea.

Il confronto con questo passato appare gravoso in un primo momento, ma successivamente offre la possibilità di una tenuta, quando si decide da che parte stare. Cioè sul versante dei legami che si costituiscono, della solidarietà sociale, della comunità che avanza in modo costruttivo cercando soluzioni vitali, non disgregandosi attraverso l’odio e la violenza. Questo è pesante, questo è mortifero.

Promuovere la distruzione dell’Unione europea o costringerla in una corazza piuttosto che rifondarla a partire da principi di umanità, uguaglianza e giustizia, significa avviarla alla morte. Perché la chiusura è sospetto, paura, diffidenza, impoverimento delle esistenze.

Le idiozie razziste elevate a ideologia di Stato dal regime fascista e l’indifferenza di una intera società ridussero in uno stato di disperazione circa 50mila cittadini, senza che ci si preoccupasse dello stravolgimento dello loro esistenze, delle sofferenze arrecate in modo brutale e arbitrario.

Furono vite imprigionate in uno stato di forzata diversità, obbligate dopo l’8 settembre 1943 alla clandestinità, alla fuga, e in diverse migliaia di casi alla deportazione e alla morte.

Con un gesto riparativo di rilievo, perché indica una direzione e una consapevolezza profonda, il presidente della Repubblica Mattarella quest’anno ha voluto che Segre diventasse senatrice a vita.

Come lei stessa ha dichiarato, in quel momento la bambina a cui uno Stato criminale aveva chiuso le porte della scuola, negandole un diritto, veniva riaccolta attraverso le porte del Senato, dopo molti anni e dopo la scelta della democrazia e della Repubblica.

Ci sono voluti ottant’anni perché questa cesura in qualche modo si colmasse, perché a Segre venisse dimostrato in modo simbolicamente definitivo da che parte si trovava la colpa.

Non la colpa “di esser nata”, ma quella di uno Stato che l’aveva perseguitata e arrestata, collaborando a deportarla verso  Auschwitz.

Ancora adesso molti si ostinano a non voler vedere quanto immondo è stato questo nostro passato. Chi si illude che il cambiamento arriverà sappia che il meglio, in senso costruttivo, arriva solo in seguito ad un confronto onesto con le proprie radici, se si decide di trarne qualcosa di buono, e mai dall’ignoranza sbandierata ai quattro venti insieme alla violenza che vi si affianca.

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