Ricordando la strage di Bologna
Il 2 agosto 1980 un attentato colpiva la stazione di Bologna causando la morte di 84 persone
La strage di Bologna: ricordando l’attentato del 2 agosto 1980
Sono trascorsi trentanove anni dalla strage di Bologna del 2 agosto 1980, che ha provocato 85 vittime e circa duecento feriti. Tuttavia l’evento è oggi di sconcertante attualità. Sia perché parole come strage e attentato sono entrate prepotentemente nel gergo quotidiano della generazione presente e sia perché a distanza di tanto tempo esistono ancora nella vicenda delle questioni irrisolte.
I FATTI
È sabato 2 agosto 1980, per molti italiani il primo giorno delle ferie estive. Migliaia di famiglie bolognesi si recano alla stazione centrale per partire alla volta delle vacanze e i numerosi studenti fuorisede per raggiungere i luoghi di origine.
Sono le 10:25, fa molto caldo, sono giorni in cui la temperatura del capoluogo emiliano supera di solito i 35 gradi.
I partenti attendono il loro treno nella sala d’aspetto della seconda classe. “Se ci fosse stato un fotografo sulla sala d’aspetto, magari un cronista del Carlino per un articolo sulla Bologna d’estate, avrebbe fermato nel tempo l’immagine di una grande sala piena di gente e con molti bambini.
La gente legge, parla, dorme, beve, fuma. Se ci fosse stato un fotografo sulla porta di quella sala non sarebbe riuscito a fotografare le sensazioni e i pensieri ma forse noi saremmo riusciti a capirli guardando la fotografia, dalle espressioni e dagli atteggiamenti”, dice Carlo Lucarelli in uno speciale di qualche anno fa sulla strage. Tranquillità, ansia, voglia di partire o di tornare.
Sono tante le storie che si mescolano in questo caleidoscopio di persone. A distruggere tutto, alle 10.25 in punto di quel 2 agosto 1980, scoppia una bomba collocata in una valigia in un angolo della sala. Il muro portante crolla, tirando giù le lamiere della pensilina e i mattoni del tetto e le schegge investono il treno per Chiasso nel binario 1e i taxi fuori dalla stazione.
Il botto è avvertito in tutta la città e da centinaia di metri è possibile vedere il fumo dell’esplosione. Sul posto arrivano subito i sanitari e tutte le forze dell’ordine e autobus e mezzi pubblici si trasformano in infermerie mobili.
Arrivano anche i giornalisti a raccogliere le prime sconcertanti testimonianze dei sopravvissuti. Sconcertanti sono anche le immagini catturate dalle telecamere: un inferno a cielo aperto di corpi, detriti e macerie. Si sentono urla di strazio, richieste d’aiuto e anche qualche umanissima bestemmia.
Alla fine all’obitorio di Bologna arriveranno 85 persone, tra quelle morte sul colpo e quelle che moriranno dopo alcuni giorni di agonia. La voce rotta del Presidente Pertini all’uscita dell’ospedale è il simbolo di un’Italia in ginocchio per la maggiore strage avvenuta in tempo di pace.
Perché intanto la notizia si è diffusa in tutto il Paese: gli italiani al mare, che l’hanno ascoltata alla radio, si precipitano in casa ad accendere la televisione e a provare a rintracciare amici e parenti che sapevano in viaggio in quelle ore. Per fortuna, la città di Bologna mette a disposizione gratuitamente autobus e taxi per accompagnare i congiunti all’ospedale Maggiore e negli altri ambulatori di città e provincia.
Un’organizzazione impeccabile che probabilmente contribuisce anche a salvare molte vite umane. Ma chi ha messo la bomba? E soprattutto perché?
LE INDAGINI E I PROCESSI
La prima fantasiosa ricostruzione attribuisce l’esplosione allo scoppio della caldaia di un ristorante della stazione. Ma la gente non ci crede: “ è un attentato bello e buono, si sentiva l’odore della polvere da sparo” affermano alcuni testimoni. E allora già dopo pochi giorni, sollecitata anche dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio Cossiga che parla di “deflagrazione dolosa”, la procura di Bologna apre un fascicolo contro ignoti per strage.
La magistratura seguì inizialmente una strada che porta all’estremismo di destra, basandosi anche su alcune stragi degli anni precedenti che avevano avuto una dinamica simile (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, il treno Italicus).
Per questa ragione, il 28 agosto vengono emessi 28 ordini di cattura nei confronti di militanti di estrema destra, per lo più appartenenti al gruppo dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Tra questi ci sono Giusva Fioravanti e Francesca Mambro.
Ma quando sembra che la verità stia per venire fuori, iniziano i depistaggi, orditi soprattutto dai vertici dei SISMI e da Licio Gelli, che pochi mesi dopo si scoprirà essere il capo della loggia massonica P2, alla quale peraltro sono affiliati molti uomini di vertice dei servizi segreti militari come il vice comandante Pietro Musumeci.
Proprio quest’ultimo, insieme al colonnello Belmonte, tenta di sviare le indagini, prima creando a tavolino un rapporto intitolato “Terrore sui treni” e poi facendo collocare da su un treno Taranto-Milano dell’esplosivo simile a quello usato a Bologna in una valigia contenente anche i documenti di due neonazisti (un francese e un tedesco) legati al gruppo eversivo Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie. Questo e tanti altri depistaggi, che allontanano dalla verità, spingono i magistrati, ad un anno dalla strage, addirittura a riflettere sull’archiviazione del caso.
Ma i parenti delle 85 vittime non possano accettare che un delitto così grave rimanga senza colpevoli e il primo giugno del 1981 decidono di costituire l’Associazione parenti delle vittime della Strage di Bologna per cercare di tenere viva e pressante la voglia di giustizia. I membri dell’associazione fanno sentire da subito la loro voce, partecipando a dibattiti televisivi, scrivendo al Presidente della Repubblica e soprattutto commemorando ogni 2 agosto la morte dei propri congiunti e perciò contribuiscono a far proseguire il lavoro dei magistrati.
Nel giugno del 1986 vengono condannati per associazione sovversiva Gelli, Belmonte, Musumeci e un consulente del SISMI, Francesco Pazienza, secondo i magistrati a capo di un’organizzazione che commissionava attentati a gruppi neofascisti.
A commettere materialmente la strage sarebbero stati invece Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, membri dei NAR, compagni nella vita e già condannati a diversi ergastoli per una decina di omicidi, e Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca dei fatti.
Contro di loro ci sono alcune testimonianze, come quella di un falsario di documenti al quale Fioravanti avrebbe chiesto alcuni giorni più tardi della strage una carta d’identità e una patente per la Mambro. Fioravanti avrebbe detto al suo futuro accusatore: ”Hai sentito che botto?” e soprattutto gli avrebbe confessato che il 2 agosto si trovava alla stazione di Bologna.
Contro di loro c’è anche la mancanza di un alibi, ma come dirà più tardi lo stesso Fioravanti: “Un latitante non può avere un alibi perché cerca di non farsi vedere e di non farsi notare”. Nonostante i due neghino sempre un coinvolgimento e rigettino l’azione dal punto di vista morale, l’11 luglio del 1988 la Corte d’Assise di Bologna li condanna all’ergastolo e condanna a 10 anni Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte per calunnia aggravata.
Nel luglio del 1990 la Corte d’Appello annulla le condanne per strage, assolve Gelli e abbassa le altre condanne, ma due anni dopo la Cassazione ritiene l’ultima sentenza priva di fondamento e ordina che si cominci da capo il processo. Nel 1994 Fioravanti e Mambro vengono nuovamente condannati all’ergastolo e la Corte d’appello conferma anche le condanne per depistaggio del 1988.
L’anno successivo la Cassazione riconfermerà tutto. Nell’aprile del 2002 viene condannato all’ergastolo anche Luigi Ciavardini, pena poi ridotta a 30 anni nel 2008.
Dunque, da un punto di vista squisitamente giuridico, ci sono delle sentenze definitive che forniscono nomi e cognomi di alcuni responsabili, ma ancora non è chiaro perché la P2 e settori deviati dei servizi segreti abbiano agito in modi e tempi tali da suggerire un forte interesse a nascondere la verità.
Per le stragi degli anni precedenti si è parlato di strategia della tensione, cioè del tentativo, attraverso un connubio tra classe dirigente, servizi segreti e destra radicale, di instaurare in Italia un regime autoritario e militare commettendo attentati e sfruttando il panico e le incertezze successivi.
Ma nel 1980, rispetto agli anni precedenti, la situazione è mutata grazie ad una maggiore stabilità politica e ad una figura popolare come il Presidente della Repubblica Sandro Pertini e perciò le motivazioni politiche che spiegano i numerosi depistaggi dietro a Piazza Fontana, a Piazza della Loggia e al treno Italicus non sono le stesse in grado di giustificare quello che è successo per Bologna.
A distanza di 39 anni questa vicenda merita delle risposte certe: le pretendono i parenti delle vittime, che cercano una motivazione per la perdita dei propri cari e ne ha bisogno un Paese intero per poter finalmente fare i conti con uno dei momenti più bui della propria storia. Per provare ad avere almeno in parte tali risposte è necessario tenere sempre viva la memoria di questi eventi.
Perché un Paese senza memoria (anche di fatti tristi) è un Paese senza futuro.