“Noi, emigrati a Parigi: ecco perché abbiamo perso la fiducia nell’Italia”
Secondo l'Istat gli italiani all'estero sono più degli stranieri residenti in Italia. TPI ha intervistato cinque connazionali che vivono nella capitale francese: le loro storie sono tutte diverse ma hanno una cosa in comune, il giudizio sul Paese da cui se ne sono andati
“Non bisogna emigrare e dobbiamo lavorare a non far più emigrare i nostri giovani”. Sono state queste le parole del ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, l’8 agosto 2018, nel 62esimo anniversario della strage di Marcinelle, in Belgio, dove morirono 136 italiani emigrati.
Un obiettivo molto ambizioso, quello del vicepremier pentastellato, se si considera che secondo i dati Istat del 2016 sono più gli italiani residenti all’estero che gli stranieri residenti in Italia: 4.974.942 emigrati contro 3.714.137 immigrati.
A lasciare il Paese sono soprattutto i giovani, tra i quali la disoccupazione è al 30,8 per cento secondo gli ultimi dati. Una fuga tentata non soltanto dai 10mila laureati che nel 2016 hanno deciso di cercare fortuna all’estero, ma anche dai giovani professionisti che dall’Italia hanno ricevuto soltanto tante delusioni lavorative.
Uno di loro è Emanuele, 24 anni e un lavoro come chef in un ristorante parigino dopo due anni in cucina in Corsica. Emanuele è uno degli oltre 373mila italiani che oggi chiamano la Francia “casa”.
Dopo i portoghesi, gli italiani sono la più grande comunità di migranti della Francia metropolitana: un dato che potrebbe stupire, considerati i tanti pregiudizi covati nei confronti dei nostri vicini d’Oltralpe e il risentimento che riaffiora ad ogni mondiale di calcio.
Proveniente dalla Basilicata, tra le ultime regioni per tasso d’occupazione e reddito pro capite in Italia, Emanuele aveva già cercato fortuna fuori dalla propria terra d’origine trasferendosi a Roma per cercare lavoro, rimanendo però deluso.
“Mettevano meno di quanto previsto in busta paga e mi promettevano di pagare il resto dopo qualche settimana, appena avessero avuto i soldi”, ricorda il ragazzo.
Dopo diverse esperienze poco rispettose, ha deciso di lasciar perdere l’Italia per trasferirsi in Corsica, dove aveva già qualche contatto nel campo della ristorazione. Quattro anni dopo, non potrebbe essere più soddisfatto e grato per le opportunità che gli sono state date in Francia, al punto che Parigi gli manca ogni volta che torna in patria.
“Quando vivevo in Italia, era una fatica svegliarsi ogni mattina. Qui certe volte non ho nemmeno bisogno di mettere la sveglia. Ogni giorno Parigi ti dà la possibilità di migliorare come persona”, commenta.
Quando gli viene chiesto se tornerebbe mai in patria, ci ride su: “Tornerei solo se decidessi di aprire un ristorante mio. Altrimenti, assolutamente no”.
L’emigrazione degli italiani all’estero, intensa negli anni Cinquanta e Sessanta e diminuita drasticamente negli ultimi decenni del secolo scorso, ha ripreso vigore dopo la crisi economica del 2008, raggiungendo livelli postbellici.
Linda, 41 anni, due figli nati in Francia e un lavoro stabile in una banca parigina, è però arrivata nella Ville Lumière molto prima della crisi economica.
Proveniente da una Sardegna tanto bella quanto cronicamente a corto di infrastrutture e dipendente dalla terra ferma sia per quanto riguarda i prodotti importati che per i trasferimenti in denaro, la famiglia di Linda si è trasferita in Francia 25 anni fa.
Suo padre, allora pescatore in un minuscolo villaggio sardo senza acqua corrente né elettricità, non voleva che i figli crescessero nella stessa miseria che l’aveva accompagnato nella vita.
Arrivata a Parigi con delle basi zoppicanti di francese, la vita oltre le Alpi non ha trattato bene Linda fin da subito
“Avevo 25 anni quando ho cominciato a pensare di voler tornare in Sardegna: tutta la mia famiglia è ancora lì. Ma proprio allora ho conosciuto l’uomo che è diventato mio marito, quindi sono rimasta”, racconta. E poi il lavoro, i figli nati in Francia, le amicizie strette lontano dall’isola che chiamava casa.
Benché ci abbia messo un po’ ad abituarsi al caos e al ritmo frenetico della metropoli – e alla cronica mancanza di mare color smeraldo a Parigi – Linda oggi riconosce che non riuscirebbe mai a lasciare del tutto la città.
“Anche se penso di tornare in Italia quando andrò in pensione, passerei sei mesi lì e sei mesi qui”, spiega. “La vita a Parigi ti dà molto di più. Prendi per esempio il teatro: qui, un qualsiasi giorno, posso controllare quali spettacoli ci sono la sera e troverò sempre una dozzina di opzioni. Nel posto da dove vengo non sono neanche sicura che ci sia un teatro”.
Le opportunità che offre la capitale francese non sono, però, soltanto culturali. Lo spiega bene Gianluigi, friulano di 28 anni, che ci si è trasferito nel 2016 per un semplice motivo: non sopportava più la mentalità e l’etica del lavoro italiana.
Lasciata una regione industriale e relativamente agiata come il Friuli Venezia-Giulia per una nuova avventura con la fidanzata, Gianluigi in Francia ci è finito quasi per caso. Sognava, piuttosto, il Canada o l’Australia, ma la passione della ragazza per la Ville Lumière l’ha portato ad “accontentarsi” di Parigi.
Quella che ha davvero cambiato la sua percezione del mercato del lavoro in Italia, ricorda, è stata la crisi economica.
“Prima del 2008, era molto più semplice trovare un lavoro che ti permettesse di crescere professionalmente e di essere anche premiato se lavoravi bene. Dopo, la mentalità è proprio cambiata: è come se i datori di lavoro avessero perso tutta la loro fiducia nei propri impiegati, e viceversa”.
Alla Francia Gianluigi invidia la strenua difesa dei diritti dei lavoratori e la capacità dei cittadini di unirsi per far rispettare i propri diritti.
“Certo, ci sono comunque i campanilismi tra città, e un parigino ti dirà sempre che odia Marsiglia e viceversa… Ma sanno quando è il momento di mettere queste storie da parte e combattere insieme per le giuste battaglie. Gli italiani scenderebbero in piazza soltanto se provassi a togliere loro il calcio”, dice.
Non tutti, però, sognavano necessariamente di trasferirsi all’estero per un lavoro migliore: c’è chi, a lasciare l’Italia, è stato quasi costretto. È il caso di Christian, 31enne di Milano laureato alla prestigiosa Bocconi.
Dopo gli studi in Economia, Christian ha cominciato a lavorare in una banca nella sua città, fino a quando la compagnia ha deciso di chiudere il proprio ramo italiano.
Per settimane ha cercato un’offerta che gli permettesse di continuare a lavorare a Milano a condizioni favorevoli, ma alla fine ha dovuto cedere.
“L’Italia è il genere di posto dove se guadagni 2mila euro al mese dovresti già considerarti ricco”, spiega. “Se trovassi un lavoro pagato bene quanto quello che ho qui, tornerei subito”.
Ma, sebbene Milano gli manchi moltissimo, Christian non riesce a non guardare alla situazione economico-politica italiana che con aspro realismo. “Siamo un Paese che non si sente un Paese”, dice.
Sottolinea che il genere di riforme che servirebbero “sono talmente radicali che nessun politico penserebbe mai di proporle”
Peraltro, “la qualità di vita che abbiamo in Italia non la trovi da nessun’altra parte”, sospira, ripensando a come un ottimo espresso e una brioche ripiena di Nutella, a casa, costino soltanto qualche euro, mentre sorseggia il suo bicchiere di vino francese troppo costoso.
Christian si considera un realista quando fa notare che fare carriera in Italia non sembra una via percorribile per quelle persone che hanno in tasca una buona laurea e una certa ambizione.
Un’impressione certamente condivisa da quelle migliaia e migliaia di giovani italiani qualificati che ogni anno “fuggono” per cogliere delle opportunità – del mondo del lavoro come in quello della ricerca – che il loro Paese natio non sembra capace di offrire loro.
Se le tantissime storie di “expat” italiani sbarcati a Parigi per una vita migliore raccontano le tante gioie e opportunità trovate sul cammino lontano dal proprio Paese, nonostante le occasionali lamentele sul meteo, la distanza dal mare o la freddezza del popolo francese, questo non vuol dire che lasciare la sicurezza di casa per una città straniera non abbia un prezzo emotivo.
Lo sa bene Gabriella, che ha lasciato la sua grande, affettuosa famiglia in Sicilia sei anni fa per seguire il marito a Parigi per una ghiotta offerta di lavoro.
Quando hanno lasciato la loro isola, i due avevano alle spalle anni di paghe da fame e lavori in nero ed erano pronti a un nuovo inizio. “Anche se ci offrissero un lavoro buono quanto quello che abbiamo ora a Parigi, non torneremmo mai indietro”, racconta Gabriella.
“Abbiamo perso la fiducia che avevamo nel nostro Paese”. A sentire le storie dei familiari e degli amici rimasti indietro, la sensazione è quella di un luogo alla deriva, dove ristoranti e negozi chiudono uno dopo l’altro. In tanti le domandano consiglio, chiedendosi se dovrebbero andarsene anche loro. Ma Gabriella non pensa che la vita da “expat” sia fatta per tutti.
“La città cerca di spazzarti via, all’inizio”, ricorda, pensando ai tanti italiani incontrati sul cammino che, arrivando da piccole città o paesini, sono tornati a casa dopo qualche mese, delusi e frastornati dal ritmo della metropoli.
Da quando il suo primo figlio, Mattia, è nato a Parigi sei mesi fa, ha deciso di tornare in Sicilia più spesso, in modo che la sua famiglia possa passare più tempo con il bambino.
Questo legame costante con le proprie radici, però, la porta a domandarsi se lei e il marito abbiano davvero fatto la scelta giusta, andandosene dalla Sicilia così. “A volte ti senti in colpa”, dice, “perché le cose vanno male per tutti, ma certe persone amano il posto da cui vengono così tanto che non lo lascerebbero mai, nonostante tutto”.
Sulla schiena, il tatuaggio di una piccola Trinacria, simbolo delle sue origini, le ricorda sempre dove sono le sue radici. Tra le braccia, il piccolo Mattia le ricorda, però, il futuro che lei e il marito hanno deciso di costruire insieme, seppur lontano dalla loro terra.