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Se l’Italia è il mio paese, perché non posso diventare sua cittadina?

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TPI ha raccolto le testimonianze di quattro ragazzi che si sentono italiani a tutti gli effetti e che vogliono essere riconosciuti formalmente dallo Stato. Alcuni ce l’hanno fatta, altri aspettano ancora

“L’Italia mi completa, l’Italia è il mio paese. Eppure non sono sua cittadina. ​Non essendo nata in questo paese e avendo genitori stranieri, per legge non sono italiana. E adesso purtroppo il requisito dell’autosufficienza economica è venuto meno a causa delle difficoltà finanziarie in cui versa la mia famiglia”.

A parlare è Sara, una ragazza di 21 anni che vive in Italia ma è nata a Casablanca. A TPI racconta il suo desiderio di diventare una cittadina italiana a tutti gli effetti.

“Sono arrivata in Italia 16 anni fa. Ho vissuto qui tutta la mia infanzia, compresi i miei studi. Tutti i miei amici e colleghi sono ovviamente italiani. Eppure son passati 16 anni dal mio arrivo. La condizione di ‘eterna straniera’ si riversa sulle mie scelte costantemente: sono automaticamente esclusa dai concorsi pubblici, sono perennemente legata ad un permesso di soggiorno, non posso fare viaggi fuori dall’Europa se non grazie a visti speciali che difficilmente si ottengono soprattutto per un cittadino non europeo”, racconta Sara.

“La riforma sulla cittadinanza è la nostra salvezza, perché grazie ad essa noi saremo riconosciuti quello che siamo già: italiani!”.

La storia di Sara è simile a quella di oltre ottocentomila ragazzi di seconda generazione, nati o cresciuti in Italia ma sempre stranieri. Almeno fino a quando non sarà approvata la legge dello ius soli, in esame dal 15 giugno al Senato.

TPI ha raccolto le testimonianze di Chouaib Ben Mouden, Ouness Warhou, Aida Aicha Bodian, Ilham Mounssif, quattro ragazzi che si sentono italiani a tutti gli effetti e che vogliono essere riconosciuti come cittadini dallo stato. Alcuni ce l’hanno fatta, altri aspettano ancora.

Chouaib Ben Mouden

Il  mio nome è Chouaib, ho 24 anni e sono arrivato in Italia nel 1994 quando avevo un anno insieme alle mie due sorelle, a mio fratello e a mia madre. Mio padre ci ha portati qui per garantirci un futuro migliore. Ho frequentato l’asilo nido dall’età di 2 anni per poi iniziare la scuola materna, proseguendo gli studi fino al diploma.

All’età di 18 anni mi sono trasferito a Trieste dove tuttora vivo, lavoro e mi mantengo da solo. Insomma un italiano a tutti gli effetti, se non fosse per la legge che non mi permette di esserlo anche formalmente: dopo 22 anni su 23 passati nel mio paese, l’Italia, ancora mi ritrovo a vivere con un permesso di soggiorno, senza diritto di voto e senza l’opportunità di intraprendere un’esperienza all’estero da “italiano”.

La cosa paradossale è che nel frattempo nella mia famiglia sono tutti italiani. Mio padre ha acquisito la cittadinanza quando io avevo già compiuto 18 anni e non potevo ormai più ottenerla per ius sanguinis. Incredibile, ma vero. Sono l’extracomunitario di casa.

Non sono poche le cose a cui ho rinunciato e le difficoltà che incontro. Poco tempo fa ho ricevuto un’offerta di lavoro negli Stati Uniti, ma ho dovuto rinunciare perché se fossi partito avrei perso il permesso di soggiorno in Italia. La legge italiana prevede infatti che coloro che si assentano per oltre 12 mesi consecutivi dal territorio della Repubblica perdono il permesso di soggiorno.

Youness Warhou

Mi chiamo Youness Warhou, ho 22 anni e sono giunto in Italia all’età di 14 anni con i miei genitori che sono di origine marocchina. Inizialmente abbiamo vissuto a Napoli, città meravigliosa dove ho cominciato a frequentare la scuola superiore Itis Ettore Majorana.

Lì ho provato i miei primi amori e stretto amicizie indimenticabili. Parlo il napoletano e gran parte dei momenti vissuti lì saranno sempre dentro di me anche se mi sono trasferito a Reggio Emilia. Qui vivo con la mia famiglia, perché non posso cambiare residenza, rischierei altrimenti di perdere il permesso di soggiorno poiché sono studente senza reddito autonomo.

Se mio padre, camionista, perdesse il lavoro anche io vedrei automaticamente decadere il diritto di stare in Italia. Io continuo la mia corsa contro il tempo per evitare di arrivare ai 26 anni senza aver concluso l’università ed essermi trovato un lavoro. 

Ultimamente mi è successa una cosa molto triste. Non avevo pagato la tassa del permesso di soggiorno perché il consiglio di Stato ne aveva annullato i costi, ma lo Stato non aveva ancora applicato la sentenza e stavo rischiando mi venisse revocato.

Tutta la mia vita in Italia non valeva nulla per la legge in quel momento e nemmeno il mio attivismo sociale valeva qualcosa: ero un immigrato qualunque che per errore burocratico che non dipendeva da me. Rischiavo di essere rimpatriato per reato di clandestinità.  Qualsiasi mia scelta viene condizionata dal non essere cittadino: ho spesso rinunciato a sogni e opportunità che potevano cambiarmi la vita, primo tra tutti quello di diventare pilota. Non ho potuto accedere all’Accademia militare. Ancora, l’anno scorso ho dovuto abbandonare un progetto interculturale europeo perché, come al solito, avevo un permesso in fase di rinnovo.

Aida Aicha Bodian

Sono Aida, italiana di origini senegalesi. Era il maggio 1992 quando arrivai in Italia, a Lonato del Garda. L’unica cosa che pensavo mi differenziasse dagli altri bambini era la poca conoscenza della lingua. Ma curiosa com’ero impiegai poco tempo ad imparare l’ italiano.

Crescendo invece ho dovuto capire che le differenze andavano oltre. Per prima cosa c’era l’aspetto estetico, non pensavo che il colore della pelle potesse spesso essere un motivo per fare distinzioni tra le persone.

Un altro aspetto, forse ancora più importante era legato all’identità. Scoprii che nonostante sapessi praticamente più cose dell’Italia rispetto al mio paese natale, per la legge non ero considerata italiana. Ricordo benissimo i vari rinnovi per il permesso di soggiorno e le lunghe file in questura, nonché le grandi spese per rinnovare il permesso di stare a casa mia.

Poi é arrivata la svolta della carta di soggiorno, che ci ha liberato dall’incubo di rinnovare il permesso periodicamente, ma non ha di certo reso giustizia all’identità che rivendichiamo.

La cittadinanza italiana mi è stata concessa solo nel 2014, dopo 22 anni in Italia!  Per quanto triste e assurdo, le nostre vite e il nostro futuro sono legati ad un pezzo di carta. Per questo sostengo la riforma sulla cittadinanza, perché per esperienza ci sono passata, ed è tempo che cambino le cose perché di bambini e giovani nati e cresciuti in Italia con storie simili alla mia ce ne sono tantissimi.

Ilham Mounssif

Mi chiamo Ilham Mounssif, ho 22 anni e sono originaria del Marocco. Sono nata a Marrakech e dall’età di 2 anni vivo in Sardegna, dove i miei genitori risiedevano già prima della mia nascita.

In Italia ho trascorso tutta la mia vita: dall’asilo nido agli studi universitari. In Marocco, dopo il trasferimento in Sardegna, non ci ho più vissuto fino a questo momento. Attualmente infatti svolgo il servizio civile per una ong veronese nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo. Sono quindi un Casco Bianco impegnato nella lotta non armata e nella difesa della patria. Mi occupo della promozione dei valori e dei principi della Repubblica italiana, della quale però non sono cittadina.

Sono italiana quando la Camera dei deputati mi ha definito tra i migliori laureati d’Italia, ma non abbastanza per entrare nel luogo simbolo della nostra democrazia, il parlamento, se non grazie all’intervento della presidente della Camera Laura Boldrini.

Italiana, sarda fino al midollo, come i miei fratelli, dopo 20 anni dei miei 22 spesi nel “bel paese”. Io che, laureata in Relazioni Internazionali, ambisco ad una carriera di respiro internazionale ma ad ogni opportunità che mi si presenta sono costretta a rinunciare in quanto non cittadina italiana.

Cittadina del paese di cui parlo perfettamente la lingua, di cui conosco leggi ed istituzioni, paese che chiamo da sempre casa mia, che sogno di rappresentare ma che non mi dà modo di divenirne formalmente cittadina. Carriere e ambizioni a parte, non potete immaginare quello che sono – siamo – costretti a vivere, a partire dall’essere legati ad un permesso di soggiorno che se dovessimo perdere, ahimé, farebbe prendere il sopravvento all’incertezza sulla nostra permanenza in Italia e sul futuro.

Ho brutte esperienze legate alla mia condizione, in particolare relative a mia sorella, anch’essa in Italia da sempre. Da oltre dieci anni è inferma mentale e per continuare a stare insieme alla sua famiglia, unica sua ancora di salvezza, secondo lo Stato dovrebbe lavorare o studiare. Una malata la cui infermità mentale è stata riconosciuta dall’Inps stessa, deve dimostrare di “fare qualcosa in Italia” per potervi soggiornare. Un’assurdità che ha costituito mesi di angoscia e disperazione per la mia famiglia, che difficilmente dimenticheremo. Anzi mai. Nessuno di noi dimentica ingiustizie e porte in faccia.

Come spiega a TPI Ilham Mounssif, l’attuale disciplina in materia di cittadinanza, regolata dalla legge 91 del 1992 è basata sul principio dello ius sanguinis e prevede:

– cittadinanza al minore in seguito alla naturalizzazione del genitore straniero se vive con lo stesso in maniera stabile e comprovabile;

– cittadinanza al minore nato in Italia da genitori stranieri, se risiede nel territorio della Repubblica in maniera ininterrotta,  a partire dai 18 anni, su sua richiesta entro un anno dal compimento della maggiore età.

– cittadinanza a coloro che non sono nati in Italia, al compimento dei 18 anni, solo se hanno maturato 10 anni di residenza e se superano i requisiti di reddito.

La riforma dello ius soli attualmente al vaglio del  Senato introduce 3 fattispecie, che rispondono alle esigenze delle attuali istanze sociali:

– ius soli temperato, per cui al nato in Italia è concessa la cittadinanza solo se figlio di stranieri possessori di permesso di soggiorno Ue di lunga durata (quest’ultimo richiede 5 anni di residenza, superamento dei requisiti linguistici, di reddito e di alloggio);

– ius culturae, per cui il nato o arrivato in Italia entro i 12 anni di età diviene cittadino se ha frequentato regolarmente per 5 anni uno o più cicli di studio, oppure alla conclusione positiva di un corso di formazione primaria;

– cittadinanza per naturalizzazione a coloro giunti in Italia tra i 12 e 18 anni di età, se vi risiedono legalmente da 6 anni oppure se hanno frequentato e concluso un ciclo di studi.

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