L’Italia guarda all’Africa subsahariana
L'interesse dell'Italia per l'area, benché tardivo, è un segnale incoraggiante sia dal punto di vista economico che geostrategico. L'analisi di Giovanni Carbone
A un certo punto le cose sono cambiate, e l’Italia ha finalmente scoperto – o riscoperto – l’Africa. Dimenticarsene, in passato, è sempre stato piuttosto facile.
Con legami relativamente labili ed episodici, a eccezione parziale di Libia e Corno d’Africa, la politica estera, commerciale e di cooperazione dell’Italia in Africa è stata storicamente altalenante, con il prevalere nei decenni recenti di un senso di distanza, timore e disinteresse.
Dagli insuccessi e dalla brevità di un’esperienza coloniale all’epoca frustrante quando confrontata agli spazi che Londra e Parigi si erano creati nel continente, ai risultati migliori ottenuti a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta in aree e settori limitati.
Come una cooperazione allo sviluppo sostenuta con risorse che, al momento di generosità massima verso la metà degli anni Ottanta, erano seconde solo a quelle francesi, oppure la mediazione, all’inizio del decennio seguente, per portare al tavolo della pace i belligeranti del Mozambico, fiore all’occhiello per un paese con una politica estera dalle ambizioni modeste.
E poi di nuovo giù. Le controverse vicende legate al fallimentare intervento umanitario internazionale in Somalia. Gli aiuti allo sviluppo che scendono gradualmente fino a toccare livelli minimi, sia come valori assoluti che rispetto a tutte le altre economie avanzate.
L’assenza completa dell’Africa nera dal radar dei nostri governanti, senza alcun presidente del Consiglio che trovi il tempo o le ragioni per oltrepassare il Sahara e andare in visita bilaterale in uno dei quarantanove paesi della regione (con la parziale eccezione della visita di Romano Prodi all’Unione Africana, in Etiopia, nel 2007).
Un numero di ambasciate che resta mediamente basso, non oltre una ventina (Turchia, Brasile, Russia e Germania ne hanno 30-35 ciascuno, per non parlare di Francia, Stati Uniti e Cina).
Tentativi di cambiare le cose rimasti sostanzialmente sulla carta e presto dimenticati, come il Piano Africa abbozzato dal ministero per lo Sviluppo economico nel 2009.
Poi è arrivato il 2013, sulla scia di una crisi economica che aveva innescato nuove, forti pressioni sul paese e sui nostri governanti e la conseguente necessità di inventarsi qualcosa.
In un’Italia che faticava (e fatica) a recuperare ossigeno, tutto doveva essere al servizio della ripresa economica, incluse le relazioni estere gestite dalla Farnesina.
Occorreva riorientarle, anche per rilegittimarne il ruolo e la funzione in un contesto di tagli diffusi, assegnando centralità alla cosiddetta ʻdiplomazia della crescita’, ovvero l’appoggio da parte della rete, delle strutture e delle competenze del ministero degli Affari esteri all’internazionalizzazione economica e a imprese italiane disperatamente alla ricerca di mercati esteri con cui rifarsi dei cali sofferti sulla scena nazionale.
Nel dicembre 2013 viene quindi lanciata dall’allora ministro degli Esteri, Emma Bonino, l’Iniziativa Italia-Africa. Nulla di organico, ma il segnale di una nuova attenzione.
A cavallo tra il 2013 e il 2014 iniziano infatti a fiorire una serie di altre iniziative e occasioni che enfatizzano il crescente potenziale dei mercati africani emergenti.
Qualcosa che fino a quel momento è sfuggito a un tessuto produttivo di piccole e medie imprese con scarsa vocazione a coprire paesi lontani e difficili. Ma studi e analisi, articoli e riviste dedicate (come ʻAfrica e Affari’), fiere, conferenze e missioni istituzionali scoprono e fanno scoprire che l’Africa si muove, e che va forte.
Con l’attenzione delle imprese crescono le esportazioni. Anche i dati Ice relativi al 2014 registrano una crescita dell’8,9 per cento rispetto all’anno precedente nelle esportazioni italiane di merci, con il settore dei servizi (molto minoritario) arrivato a un totale di 6,8 miliardi di euro e un saldo che, complice il calo del greggio, riduce da -2,6 miliardi a -2 miliardi il deficit commerciale che storicamente soffriamo nei confronti di una regione da cui tendiamo a importare (energia, soprattutto) più che a esportare.
La quota di export italiano diretta in Africa subsahariana è in lenta ma costante crescita, dall’1,2 per cento all’1,6 per cento nel decennio 2004-2014, seppur con scambi che restano molto inferiori non solo a quelli della Germania, ma anche di Francia e Regno Unito.
Lo stesso Matteo Renzi non tarda a fiutare che anche da questa regione ʻpoco ovvia’ può venire qualcosa di interessante. L’energia e le migrazioni sono dossier caldi per il governo.
Così, il primo ministro infila tre missioni tanto inedite quanto inattese nel corso di solo un triennio, visitando dapprima l’area centro-australe (Mozambico, Angola e Congo Brazzaville), poi l’Africa orientale (Kenya ed Etiopia, con tanto di visita all’Unione Africana), approdando infine sul fronte occidentale all’inizio di quest’anno (Nigeria, Ghana e Senegal).
Si reca in Africa anche il presidente Sergio Mattarella, forse un po’ a sorpresa, capace di recuperare quell’interesse mediatico che pareva essere in buona parte mancato per le visite del presidente del Consiglio.
Ma sporgersi con maggiore curiosità verso l’altra sponda del Mediterraneo – e in particolare verso l’area subsahariana – è stata un’idea tutta italiana, frutto di una posizione geografica che sembra puntare quasi naturalmente in quella direzione?
Tutt’altro. Quello italiano è stato per lo più un risveglio tardivo e graduale. Ci erano già arrivati in molti nei passati quindici anni. La Cina e l’India, la Turchia e il Brasile, la Russia e i paesi arabi, ad esempio, seppur in misura e modi molto diversi.
E anche francesi, inglesi e americani, partendo da presenze già più sviluppate. Quasi tutti questi paesi hanno visto crescere in maniera importante e continua scambi commerciali, investimenti produttivi e aiuti allo sviluppo (i secondi non sempre chiaramente distinti da questi ultimi), accompagnandoli con un’espansione di reti diplomatiche, culturali e di altro tipo.
Né è del tutto sganciata dall’interesse per i mercati africani emergenti l’espansione di una presenza di carattere militare, guidata principalmente ma non esclusivamente dalla preoccupazione di mantenere o rendere più stabile una regione di crescente interesse geopolitico, oltre che economico.
Gibuti è il caso più eclatante. Il piccolo stato costiero, un porto naturale situato strategicamente tra il Golfo di Aden e l’imboccatura del Mar Rosso, è sede di basi militari di Stati Uniti, Francia e Giappone, di soldati spagnoli e tedeschi operativi nell’Oceano Indiano, e di una base cinese in via di costruzione, ed è inoltre meta di una fila di altri paesi apparentemente intenzionati ad aumentare l’affollamento delle divise, inclusi sauditi, indiani e russi.
Ma torniamo all’Italia. La parabola del ritrovato interesse italiano per l’Africa tocca il suo culmine con la Conferenza ministeriale Italia-Africa organizzata dalla Farnesina per il 18 maggio, che ha portato a Roma un numero di ministri degli Esteri africani mai visto prima.
Un’occasione importante per alimentare relazioni ben al di là del corteggiamento per i voti africani in vista dell’elezione per i seggi non permanenti nel Consiglio di sicurezza dell’Onu (a giugno l’Italia si gioca con Olanda e Svezia i due posti riservati agli europei), benché le prossime votazioni abbiano indubbiamente dato la spinta decisiva per lanciare l’incontro.
Il contesto è assai più ampio. Quattro sono i temi portati sul tavolo della conferenza – sviluppo economico, sostenibilità socio-ambientale, migrazioni, conflitti e stabilità – ma molte sono le implicazioni trasversali, dalla nuova Agenda 2030 e i suoi Obiettivi di sviluppo sostenibile (lanciati nel settembre scorso dalle Nazioni Unite) al rilancio di una crescita africana oggi appannata a causa del crollo dei prezzi delle materie prime; dalla capacità di spingere ulteriormente l’internazionalizzazione economica delle nostre imprese alle questioni energetiche; dalla sicurezza e il cambiamento climatico agli spazi per la politica di cooperazione italiana recentemente riformata.
Passo dopo passo, dunque, tra un cambio di governo e l’alternarsi di singoli ministri, l’Italia mantiene l’orientamento alla riscoperta dell’Africa inaugurato solo pochi anni fa. È già una notizia. Speriamo non sia solo l’ennesima oscillazione del pendolo.
— L’analisi è stata pubblicata da Ispi Online con il titolo “Italia-Africa: verso la ‘normalità’ del nuovo corso?” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore.
*Giovanni Carbone, ISPI e Università degli Studi di Milano