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“Oggi contiamo meno di un tempo”: Stefania Craxi parla della politica estera italiana ai tempi del padre

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Cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa in legge a Bettino Craxi all’Università cattolica d’America. Washington, 6 dicembre 1989. AFP/RENATO ROTOLO

La figlia di Bettino Craxi ricorda su TPI le scelte geopolitiche dell’Italia durante il governo del padre e commenta l’influenza italiana nell'attuale scacchiere internazionale

Sono passati 18 anni dalla morte di Bettino Craxi avvenuta ad Hammamet, in Tunisia, il 19 gennaio del 2000. Considerato dai suoi sostenitori un esiliato, vittima dell’accanimento giudiziario e mediatico dopo Tangentopoli, e dai suoi critici un semplice latitante, è stato in ogni caso un politico di grande rilievo per il nostro paese negli anni della Prima repubblica.

Craxi, negli anni in cui è stato primo ministro, ha spesso tentato di portare avanti una politica estera quanto più possibile indipendente dall’influenza delle potenze straniere.

Per l’ex segretario del Partito Socialista Italiano le questioni internazionali occupavano uno spazio rilevante nelle scelte di governo.

TPI ha chiesto alla figlia dell’ex leader socialista Stefania Craxi di commentare la politica estera italiana durante gli anni della presidenza del padre, aggiungendo qualche considerazione sulla situazione politica di oggi.

Quali avvenimenti di rilievo internazionale hanno visto come protagonista suo padre e con lui l’Italia?

Capisco che di questi tempi in cui la profondità di analisi e di pensiero si misura in un tweet possa appassionare più il ‘fatto’ in sé che non le ‘ragioni’ che lo determinano.

Ma se vogliamo ricostruire una dimensione internazionale per il nostro paese, che abbia come cardine e bussola il nostro interesse nazionale, dobbiamo recuperare una capacità di ‘analisi’ e di ‘riflessione’ che sembra essersi tristemente smarrita.

Dico questo perché il governo del paese e le sue relazioni internazionali sono una cosa assai seria. Io non parlerei pertanto di episodi, ma di linea politica. Ogni scelta e decisione assunta da Craxi, giusta o sbagliata che fosse, era il frutto di una visione strategica, compiuta in funzione dell’interesse nazionale e del ruolo che il nostro paese doveva svolgere nello scacchiere globale.

Ma, soprattutto, le decisioni, sempre ponderate e proiettate ben oltre le singole contingenze, erano figlie di convinzioni profonde e non erano mai animate da opportunismo e dettate dalle convenienze del momento.

Questi elementi sono propri di una politica estera degna di questo nome. E, ancor più, sono necessari per un paese come l’Italia che, seppur in tempi ed in contesti differenti, continua ad essere una realtà cerniera che potrebbe svolgere un grande ruolo nell’interesse dell’Europa e dell’Occidente tutto.

Non è infatti un caso se oggi contiamo meno di un tempo. La nostra politica è debole. Sono venute meno visioni e strategie, siamo subalterni e, sempre più spesso, le nostre scelte di politica estera sono dettate da interessi e logiche che non fanno le fortune altrui.

Craxi, alla sua Italia, non lo avrebbero mai permesso. Lui pensava al nostro Paese come una potenza mediterranea in grado di dire la sua, alla pari, in ogni consesso internazionale. Per inciso, se proprio vuole un esempio, le dico che era l’Italia di Sigonella.

Oggi gli Stati Uniti sono guidati da Trump, da alcuni paragonato a Ronald Reagan. Con Trump, Craxi sarebbe stato in grado di creare un dialogo, o meglio, di tenere il “pugno duro” sulle ultime scelte della sua amministrazione in ambito internazionale? (Dal clima alla questione du Gerusalemme capitale)? 

Non mi avventuro su terreni ‘paranormali’. Non so cosa sarebbe in grado o meno di fare Craxi con Trump. Le sedute spiritiche le lascio ad altri professoroni, alcuni dei quali hanno contribuito in tempi non lontani a ‘svendere’ il nostro paese.

Io, per certo, so che Craxi non era un uomo che ragionava ed approcciava gli argomenti e le questioni in modo dogmatico e, come oggi avviene, con pregiudizio.

Di certo avrebbe rispettato la volontà del popolo americano di eleggersi il presidente che più lo rappresenta e, da cultore delle istituzioni, ci avrebbe interloquito tenendo fermi le questioni e i principi che animavano la sua azione politica e di governo, senza farsi tirare per la giacca.

Nell’episodio di Sigonella, Craxi dimostrò non solo che l’Italia non era un paese a “sovranità limitata”, ma che la correttezza delle scelte paga, molto più dell’essere subalterni. Reagan lo capì.

Non è un caso se l’anno dopo Sigonella iniziarono per la prima volta i negoziati di pace in Medioriente.

Le tematiche internazionali pare che non siano la priorità nei dibattiti elettorali elettorali dei partiti in corsa per le elezioni del 4 marzo. Si parla di tutto, tranne di ciò che è veramente importante. Il nostro stare in Europa non è una variabile da lasciare al caso e agli eventi.

Alcuni membri della Commissione europea (Moscovici, Katainen e Timmermans) hanno espresso una forte preoccupazione per la situazione di incertezza politica che si potrebbe venire a creare dopo il 4 marzo in Italia. Crede che questa interferenza esterna possa essere vista come una spinta per riportare l’attenzione sulle tematiche internazionali, finora trascurate nei dibattiti pre-voto?

Penso che non basti una dichiarazione ad influenzare l’elettorato italiano, tanto più se fatta da un euro-burocrate, una categoria che non mi sembra riscuota grande fascino in questo momento né in Italia né in molti paesi dell’Unione europea.

Ho grande fiducia nell’elettorato italiano, che pure oggi è scoraggiato e distaccato da una politica che, dobbiamo dirlo, non ha dato prova né di capacità né di poter essere una guida salda in tempi di crisi.

Premesso ciò, credo che dobbiamo in un qualche modo abituarci, e considerare quasi normali, fisiologiche, le esternazioni di rappresentanti politici ed istituzionali di paesi dell’Ue e della Commissione.

Viviamo in economie che con il tempo si sono sempre più integrate e le scelte i comportamenti di un paese dell’Unione, specie se dell’eurozona, si riverberano su tutti gli altri.

Semmai il discorso è di tipo diverso. Anziché indignarsi per queste dichiarazioni che, ad ogni modo, questi signori della Commissione potrebbero risparmiarsi, dovremmo ragionare su come avviare concretamente un processo di democraticizzazione della vita comunitaria, all’insegna di più partecipazione e più protagonismo dei cittadini, in grado di superare assi privilegiati che rischiano di andare a scapito di tutti gli altri.

È questo il tema cruciale che dovrebbe animare ogni nostro sforzo ed iniziativa, che dovrebbe caratterizzare il dibattito elettorale prima ed istituzionale poi. 

Un recente studio del Pew Research Center ha rilevato che l’Italia è il paese con il minor numero di persone che seguono la politica internazionale. Crede che siano argomenti troppo complessi e poco vicini alle preoccupazioni dell’elettore? Parlarne ora, in campagna elettorale, sarebbe una mossa poco funzionale ad accrescere il consenso?

È un’anomalia tutta italiana figlia della Seconda repubblica e della distruzione dei partiti. Il nostro paese su molte questioni segue il flusso, senza nessuna iniziativa e nessun protagonismo. Io penso che questo atteggiamento porti anche disaffezione e disinteresse nei cittadini.

Ma a mio avviso, lo ripeto anche a costo di essere pedante, la questione primaria su cui dobbiamo cimentarci, se non altro perché da questo dipende il nostro futuro come Paese e come democrazia, è la questione europea, il futuro dell’Unione, perché così com’è e come l’abbiamo conosciuta in questi anni non funziona più.

È uno scoglio, anzi, un iceberg, sul quale siamo incagliati e dal quale non possiamo uscire con una manovra a bassa intensità. Un simile atteggiamento ci porterebbe ad affondare, seppur lentamente. Bisogna ritrovare lo spirito delle origini, un afflato di futuro.

La settimana scorsa, il 17 gennaio, la Camera ha approvato la missione militare italiana in Niger. Craxi avrebbe considerato questa decisione come un assoggettamento a Parigi (difendere gli interessi della Francia in Niger) o un mezzo di contrasto capace di frenare il flusso di immigrati che arrivano in Italia (passando per la Libia)?

I migranti non si fermano con le barriere. Credo nessuno lo pensi, perché sarebbe folle. I flussi migratori si arrestano con politiche di sviluppo e di crescita che richiedono risorse, piani di investimenti e tempo.

Credo che con Parigi i nostri interessi non collimino molto, ma questo non vuol dire che una missione internazionale sia un favore ai francesi, specie in un’area devastata da problemi di natura epocale.

Detto ciò, torniamo al punto precedente. Il nostro ‘stare’ in Europa in questi anni non è proprio stato un esempio fulgido da seguire e perpetuare. Dobbiamo ritrovare una nostra visione e dimensione internazionale con urgenza. Come vediamo gli altri paesi non aspettano. Il rischio di ritrovarci ancora una volta su carri che hanno destinazioni a noi non gradite è assai alto.

Leggi anche: Ricordando Bettino Craxi

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