“Chiamare mammone chi vive in casa coi genitori è un’offesa a chi, come me, non ha alternative”
Evidenziare generici “fattori culturali” per spiegare perché il 66 per cento dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive ancora con i genitori distoglie l’attenzione dal fatto che le condizioni economiche di moltissimi giovani siano tragiche
“Non nego che magari ci sono persone che scelgono di vivere con i genitori perché non sono in grado di vivere da soli. Ma, ecco, io non conosco nessuno che faccia parte di questa categoria”.
A parlare a TPI è Carol – 25 anni e la corona d’alloro di una laurea magistrale a pieni voti appoggiata sul comodino della sua stanzetta, nella casa di sua madre.
Carol manda CV e aspetta, fiduciosa, come d’altronde fa un quarto dei giovani tra i 20 e i 29 anni, secondo l’Eurostat. “Sono in un loop in cui mi offrono tirocini di 6 mesi non pagati per i quali devo però comunque avere competenze super specifiche, oppure lavori entry level dove però mi chiedono tre anni di esperienza”.
Tornata nel piccolo paese del Friuli dove è cresciuta dopo aver passato cinque anni fuori sede, tra Italia, Polonia e infine Uganda, Carol rientra, statisticamente, in quel 66,4 per cento di giovani tra i 18 e i 34 anni che nel 2018 vivono ancora con i genitori – e che vengono in conseguenza bollati, senza mezzi termini, come mammoni o al limite bamboccioni.
Dipinti come choosy, schizzinosi che preferiscono “la pappa pronta” a una vita autonoma perché dipendenti, psicologicamente prima che economicamente, dai genitori, oppure come opportunisti che scelgono l’ovile perché “fa comodo” o per non lavarsi i calzini, i giovani italiani che non vogliono lasciare il caldo nido familiare sono uno stereotipo duro a morire – e trapelato anche all’estero.
Politici, giornalisti e intellettuali che su altri temi hanno ben poco di cui spartire si sono trovati spesso d’accordo a dare ai giovani degli “sdraiati”, degli “sfigati”, degli schizzinosi.
Ascoltando, però, le storie di quei “mammoni” che, volenti o nolenti, condividono ancora il tetto con i genitori, l’immagine che emerge è ben diversa. “Ho dovuto ridefinire le mie priorità: una volta volevo avere abbastanza soldi da potermi permettere di avere una famiglia e una vita normale – ora spero solo di avere i soldi per sopravvivere e mangiare quando i miei non ci saranno più”, racconta Alberto, napoletano di 28 anni.
Laureato in Psicologia, cerca da tempo un lavoro che gli permetta di sostenersi, invano. Volendo rimanere in Italia, quella di restare a vivere con i genitori gli è apparsa più come necessità che come scelta.
“Avrei tanto voluto una vita normale”
“A me, avere una famiglia sarebbe piaciuto davvero tanto. Ora invece mi devo iscrivere ai gruppi dove chiedere come fare ad iscrivermi per la colletta alimentare – e sono incensurato, ho una laurea. Se avessi fatto qualcosa di grave nella mia vita per essere rifiutato dai datori di lavoro lo potrei pure capire, ma non così”, dice.
In un paese dove l’occupazione cresce quasi soltanto grazie ad un aumento di posti precari e meno pagati e i giovani sono tra le fasce a maggior rischio di povertà, quello di andarsene di casa e tentare la fortuna è un lusso che non tutti possono permettersi.
Nel 2017, l’Italia era il terzo Paese d’Europa – dopo Grecia e Portogallo – dove i giovani sono pagati meno nei contratti d’ingresso: 21.300 euro di stipendio netto annuale, ovvero 8.200 euro in meno rispetto ad un coetaneo in Francia e 16mila in meno rispetto a uno tedesco.
Di fronte a poche offerte lavorative e paghe basse, più di 100mila giovani decidono di lasciare l’Italia. Altri si accontentano di lavori in nero – in tutto, secondo la CGIA di Mestre, sarebbero 3,3 milioni gli italiani impiegati in modo irregolare.
Poi ci sono i NEET, ovvero quelli che non studiano, non hanno un lavoro (né lo cercano) e non sono impegnati in qualche tipo di formazione: 29 per cento nella fascia 20-24 anni.
Lo stato occupazionale dichiarato dai giovani che vivono con i genitori, secondo i più recenti dati Eurostat, riflette questa molteplicità di fattori: il 26,2 per cento ha un impiego a tempo pieno, il 5,6 un lavoro part time.
Il 22,8 per cento è composto da disoccupati, il 3,6 per cento è inattivo. Sopra a tutti, gli studenti: il 41,8 per cento.
La difficoltà di coniugare studio e lavoro
“Io non vedo l’ora di essere indipendente, ma voglio anche aspettare di finire il mio percorso di studi e non posso permettermi di lavorare allo stesso tempo”, spiega Arianna, che a 23 anni studia Biologia Evoluzionistica a Padova, facendo la pendolare dalla casa dei suoi a Vicenza.
“Non siamo tutti incapaci di prenderci cura di noi stessi – ci sono i motivi più disparati dietro al fatto che una persona scelga di restare a vivere con i suoi genitori. Bisognerebbe considerarlo, prima di sparare sentenze”, dice.
Le fa eco Erika, 26enne di Torino che vive con i genitori in attesa di completare gli studi di Medicina: “Ad eccezione di qualche lavoretto occasionale con cui mi sono sempre pagata piccole spese, è un percorso di studi che non mi avrebbe permesso un lavoro parallelo che mi desse l’indipendenza economica. Adesso sto per laurearmi e spero, dopo l’abilitazione, di entrare in specializzazione e andare a vivere da sola grazie alla borsa di studio”.
Ad Erika, di essere definita “mammona” non va. “C’è chi crede ancora che l’universitario sia un bamboccione privilegiato perché ha i genitori ricchi, ma allo stesso tempo nessuno agevola gli studenti delle superiori a lavorare durante gli studi né a trovare lavoro dopo il diploma. Chiamarci mammoni è un insulto a tutti quelli che, come me, studiano sodo e lavorano occasionalmente per non pesare troppo sui genitori”.
Eppure, il fatto che nella classifica Eurostat l’Italia sia posizionata peggio di altri Paesi che pur hanno un alto livello di disoccupazione, come la Spagna, porta molti a puntare il dito contro a un famigerato, inestricabile “fattore culturale” che porta gli italiani a dipendere da mamma’ fino ai trent’anni inoltrati.
Anche in questo caso, i dati aiutano a mettere tutto in prospettiva. Se, infatti, gli italiani hanno storicamente avuto la tendenza a rimanere a casa più a lungo rispetto agli altri europei, il numero di “mammoni” tra i 18 e i 34 anni registrato dall’Eurostat ha cominciato a crescere vertiginosamente a partire dal 2009 – in seguito a quella crisi economica da cui ancora stentiamo a riprenderci.
Aggiungiamo il fatto che, come facevano notare ancora nel 2006 i ricercatori Marco Manacorda ed Enrico Moretti, il sistema di welfare italiano è concentrato quasi esclusivamente sulle generazioni più vecchie, lasciando quei giovani che altrove riceverebbero ben più sostanziosi aiuti per cose come l’affitto e le tasse universitarie scoperti e dipendenti dai genitori, e otteniamo la tempesta perfetta.
Nell’occhio del ciclone, sottorappresentati, sottopagati e incompresi, i “mammoni”.