Ci siamo già scordati di Genova? Ecco come la città cerca di ripartire dopo il crollo del ponte
A tre settimane dal crollo del ponte, siamo stati a Genova. Abbiamo trovato una città spaccata, una parte che continua a scorrere frenetica e l'altra è bloccata nel quartiere sotto al ponte. Abbiamo incontrato gli sfollati che combattono con i mutui da pagare e con le case vuote da arredare; i commercianti costretti a chiudere perché confinati nella zona rossa e quelli che soffrono l'assenza di traffico nella zona rosa
Valentina e il compagno questo settembre pagheranno 300 euro di mutuo e sono in attesa di ricevere un alloggio dal comune. Vivono in albergo da quando il ponte è venuto giù.
Silvio e la moglie Maria si sono trasferiti a casa della madre di lui, a Mignanego, paesino alle porte di Genova, e anche loro aspettano di poter entrare in una casa del comune. Magari non lontana da via Porro, come tutte quelle che sono state proposte loro fino ad oggi.
Il benzinaio all’inizio di via Walter Fillak ha chiuso i battenti, pur non essendo in piena zona rossa: di qua non passa più nessuno ed è inutile tenere l’attività aperta. Anna, invece, ha iniziato a pagare un affitto di 400 euro, che rientra appena nel contributo per gli sfollati della Protezione civile.
La tavola ancora apparecchiata, il libro aperto sulla scrivania, la tv rimasta accesa. Il tempo in via Porro si è fermato alle 11.50 di quel piovoso martedì mattina del 14 agosto. Il quartiere che dorme all’ombra del Ponte Morandi è immobile, vuoto, quasi spettrale.
Sullo stradone ampio di via Fillak – quella che si stende sotto il ponte, perpendicolare al viadotto –le foglie si rincorrono in una giornata di fine estate attorno alla prima fila di transenne che segna il confine tra la zona rossa e quella rosa. Di qua il presidio del comitato degli sfollati di via Porro, di là il silenzio.
Erano i palazzi dei ferrovieri, quelli color crema che si alzano in via Porro. Solo nel 1967 era arrivato il ponte Morandi, che aveva tolto loro uno spicchio di cielo. Ostile e familiare allo stesso tempo per decenni.
Un anziano si è spinto oltre le colonne d’Ercole della seconda fila di transenne. Con le mani dietro la schiena, passeggia lento e alza lo sguardo al cielo. Il mostro è ancora lì: fermo e minaccioso, il moncone del Ponte Morandi si staglia contro il cielo bianco, carico di pioggia e scoramento.
Sotto il tendone del presidio, tra Croce Rossa e volontari, gli sfollati siedono attorno ai tavolini di plastica. È qui che si ritrovano tutti i giorni. Pranzano insieme, come una grande famiglia, accomunati dalla stessa sorte.
Dalla sera del 14 agosto, quando quel boato feroce li ha buttati via dalle loro case spingendoli fuori dalle loro vite con prepotenza, vivono in albergo, da parenti o amici. Ogni giorno, però, tornano qui. Aspettano speranzosi a due passi dalle loro case che qualcuno dia loro il permesso di tornare dentro. La disperazione si consuma tutta nell’attesa di rimettere piede in casa, di riprendere quella fotografia, di portare via il peluche del bambino, il copriletto ricamato della nonna.
L’attesa diventa ancora più pesante per chi quella casa stava ancora finendo di pagarla. Le storie degli sfollati sono tutte diverse e tutte drammaticamente uguali. “In quella casa ci sono i sacrifici di una vita”, dice Valentina con la voce tremante. E così tutti gli altri. Un coro amaro di testimonianze che si susseguono: “I piatti di mia suocera sono ancora lì. Lo so che può sembrare una cosa assurda, ma ci sono affezionata”, continua.
“Noi siamo al 12, il palazzo proprio sotto al ponte, e abbiamo comprato casa nove anni fa. L’abbiamo ristrutturata, abbiamo deciso di fare parecchi lavori perché la zona non è bellissima – continua la donna – L’anno scorso abbiamo speso quasi 11mila euro per rifare le finestre, quest’anno abbiamo deciso di rifare il bagno. Abbiamo speso un po’ di soldi. È straziante sapere che la nostra sarà una di quelle case che sicuramente verrà buttata giù”.
Valentina e il compagno hanno acquistato la casa in via Porro grazie a un mutuo aperto con Barclays. “Era quello con i tassi di interesse più bassi e così ci siamo affidati a loro”, spiega. “Subito dopo il crollo del ponte, quando ci hanno fatto uscire di casa, abbiamo cercato di metterci in contatto con la banca, che ha sede solo a Milano, e all’inizio ci hanno detto che non sapevano nulla”.
“È dovuto intervenire il comune che ha contattato la banca, ma solo dopo sedici giorni ci hanno sospeso il mutuo”. Il problema resta ad oggi, perché la certezza di non dover pagare quella rata si esaurisce allo scadere dei dodici mesi di emergenza. Dopo, resta il dubbio di dover ricominciare.
“Paradossalmente il nostro problema è anche prendere il contributo per l’affitto. Il mio compagno ha un lavoro fisso, io potrei non lavorare il mese prossimo. Quindi se così fosse, pagare un affitto e continuare a pagare il mutuo non ci conviene. Per questo siamo in lista per avere una casa dal comune”.
“L’importante è che sia dignitosa”, spiega Valentina. Ma anche in questo caso i problemi non mancano: le case del comune sono spoglie, non ammobiliate. “Se decido di prendere la casa in affitto e la arredo con i fondi di Autostrade – novemila euro in due – una volta che dovrò lasciare l’abitazione, che cosa ci faccio con i mobili? Ecco perché abbiamo pensato di prenderli di seconda mano, di arrangiarci”.
“Noi abbiamo ancora venticinque anni di mutuo da pagare: centomila euro di debito residuo da pagare. Mi piacerebbe, certo, che la banca mi cancellasse il debito, ma finché non lo vedo, io penso solo che dovrò continuare a pagare”.
Solo Intesa Sanpaolo al momento ha deciso di cancellare l’intero mutuo agli sfollati che ne avevano aperto uno con l’istituto.
Maria Teresa, casalinga di 59 anni, aveva un mutuo di 15 anni per circa 300 euro al mese con Intesa Sanpaolo e aveva appena iniziato a pagarlo quando il ponte Morandi è crollato e la sua casa è stata interdetta.
“Ho comprato casa l’anno scorso a giugno e ci sono entrata a settembre”. La casa sostitutiva che ha trovato è più piccola di quella che aveva acquistato, ma “almeno è in una posizione comoda.”
Il Gruppo Intesa Sanpaolo in un comunicato stampa ha dichiarato che “la banca ha deciso di procedere con la remissione unilaterale dei mutui prima casa a favore di tutti coloro che si trovano a pagare un finanziamento per un immobile sito nella zona rossa che verrà dichiarato inagibile e non più abitabile oppure abbattuto”.
“A tale scopo è stato stanziato un plafond di 4,5 milioni di euro”, aggiungono. “A tale importo, si aggiunge l’attivazione della moratoria dei finanziamenti che prevede la sospensione di 12 mesi e volontaria dei finanziamenti a privati ed imprese”.
Il Gruppo Sanpaolo ha anche messo a disposizione di famiglie e imprese “un plafond di 50 milioni di euro di finanziamenti dedicati alla ricostruzione e al ripristino delle strutture danneggiate: abitazioni, negozi, uffici, laboratori artigiani e aziende”.
Dal canto suo, il comune, nella persona dell’assessore al Bilancio Pietro Piciocchi, si impegna a fare pressione sulle banche affinché procedano all’estinzione totale dei mutui, sull’esempio di Intesa Sanpaolo.
La storia di Valentina è quella di tanti altri sfollati, costretti, ad oggi, a convivere con la spada di Damocle del mutuo non estinto.
La vicina di Valentina (“ex, ormai”) era entrata in quella casa di via Porro da appena dieci giorni. Tre figli e due cani, adesso finiti in canile. L’ha comprata senza mutuo, ma ha dovuto aprirne uno da 40mila euro per ristrutturarla. Mutuo sospeso e non estinto.
Ha rifiutato la casa che le è stata proposta dal comune perché inadatta alla vita di una famiglia di cinque persone. Adesso vivono tutti in albergo in attesa di una soluzione migliore.
Sono 566 in tutto gli sfollati, 251 i nuclei familiari. Tutti costretti a cercare una nuova sistemazione. Quello che chiedono con forza è che prima che si proceda alla demolizione del ponte e delle case si trovi una soluzione dignitosa per loro. Hanno due opzioni davanti, per ora: accettare la casa messa a disposizione dal comune o usufruire di un contributo d’affitto.
75 le case assegnate fino ad oggi; 58, invece, le domande per l’autonoma collocazione. Una terza via è quella delle abitazioni dei privati messe a disposizione degli sfollati, a un canone molto basso, 73 per ora.
Se per le case del comune gli sfollati non dovranno sborsare un euro per dodici mesi, in entrambi i casi in cui si prevede l’affitto, i cittadini riceveranno un sussidio che va dai 400 ai 900 euro, a seconda della composizione dei nuclei familiari. Contributo valido per un anno, a partire da agosto 2018. Le case, però, non sono ammobiliate. E così come si presentano, non possono accogliere immediatamente gli sfollati.
Una signora sulla settantina si ritiene fortunata: “Ho scelto la casa del comune, ma devo ancora aspettare un po’. Per i mobili vedremo, ancora non so come fare. Vivevo in quella casa da quasi trent’anni, per me il problema più grande è lasciare questo posto”.
Non si rassegna all’idea di doversi spostare da via Porro e così tutte le mattine arriva in via Fillak, sulla sponda dell’area rossa. Prende un autobus e poi la metro, un tratto a piedi e poi arriva qui, sotto i tendoni bianchi del presidio.
Anche Valentina e il compagno hanno rifiutato una casa proposta dal comune e oggi vivono in albergo: “Ci hanno proposto un appartamento situato dall’altra parte della città, sotto un altro viadotto e accanto a un’isola ecologica. Dopo quello che è successo, posso andare in un posto del genere? Ho rifiutato”.
“Lo so che sono sistemazioni provvisorie, ma non l’ho voluto io che mi cadesse un ponte sulla testa. Almeno vorrei un’abitazione dignitosa”, aggiunge.
Monica ha 36 anni e viveva nella casa in via Porro da sola. Prima ci abitava suo nonno e da qualche mese si era trasferita lì, nel palazzo proprio sotto al viadotto. “Stavo studiando quella mattina, con gli occhi sul libro. Pioveva tantissimo e a un certo punto ho sentito un tuono pazzesco, ho alzato gli occhi e non credevo ai miei occhi: il ponte era venuto giù. Non so dove ho trovato il coraggio di fare questa foto”. Il ponte sgretolato, così vicino da non sembrare vero.
“Ci hanno fatto rientrare una volta sola per prendere qualcosa in casa – spiega – Ho lasciato le valigie sulla porta perché i vigili del fuoco mi hanno detto che ci sarebbero state altre occasioni per tornare. Sono passate due settimane ed è assolutamente vietato accedere alla zona rossa”.
“Vivevo in una casa grande, avevo il giardino. Il comune non può propormi di andare a vivere in un monolocale solo perché sono single, in una zona della città degradata e lontana da qui”. Per questo Monica ha optato per il contributo d’affitto: “Nessuno ha scelto di andarsene da qua, almeno vorrei vivere in una casa decente”, dice.
“Sono sola, quindi ricevo appena 400 euro di contributo. Per fortuna alcuni amici di famiglia mi hanno messo a disposizione un appartamento non distante da qui, a un prezzo più che ragionevole. Ma se avessi dovuto prendere solo il contributo della Protezione civile non sarei riuscita a coprire tutto”, aggiunge la 36enne.
In più torna il problema delle case non ammobiliate: “È inutile acquistare mobili nuovi per una casa provvisoria. La soluzione più conveniente per gli sfollati è quella di affidarsi alla generosità dei concittadini”.
Sono tanti i genovesi, infatti, che hanno deciso di regalare i mobili che non usano agli sfollati. C’è anche una ditta di traslochi che ha messo al servizio dei cittadini di via Porro furgone e operai per spostare i mobili nelle nuove abitazioni.
Sabrina ha preso il numeretto e siede col suo bambino in attesa che arrivi il suo turno. Poco distante da via Porro, in una scuola di Certosa, è stato allestito un ufficio comunale provvisorio per andare incontro alle esigenze degli sfollati. Qui si viene per capire a che punto è la situazione: la graduatoria per l’accesso alle case e gli indennizzi di Autostrade.
“Siamo quattro persone: io, mio marito, il mio bambino, mia figlia di 19 anni, un cane e un gatto. Siamo 87esimi in graduatoria, quindi dovremo aspettare ancora. Ci hanno detto che forse arriveremo ad avere una casa a fine settembre”.
Nel frattempo, tutta la famiglia alloggia in un hotel poco lontano dalla vecchia casa. “Sono due settimane che viviamo in quattro in una stanza di albergo. Non riusciamo nemmeno a camminare lì dentro”. Ma non è questo a preoccupare di più Sabrina e il marito: “La priorità è il mutuo. Non possiamo pensare di continuare a pagare per una casa che ci è stata tolta”.
Per questo scelgono la casa del comune: “Siamo in attesa che ci chiamino, ma non possiamo pensare di andare in affitto. I soldi del contributo sono troppo pochi per permetterci una abitazione dignitosa”.
Ma anche i fondi erogati da Autostrade e destinati ad arredare le case – da 9mila a 12mila euro a nucleo familiare – non sono sufficienti per rimettere in piedi una una famiglia: “Ci permettessero di rientrare in casa. Siamo nel 2018: facessero in modo di mettere in sicurezza il ponte e permetterci di prendere le nostre cose. È impossibile pensare di riacquistare tutto con quella cifra”.
A quel punto – spiega – non sarebbero i mobili la priorità: “Siamo usciti di casa con un paio di pantaloni e un paio di magliette, pensano davvero che ci bastino quei soldi per riacquistare tutto?”. E non si rassegna all’idea di veder seppelliti in quella casa i ricordi di una vita, Sabrina: “Lì dentro c’è tutto. I filmini di mia figlia piccola, le foto, i giochi del più piccolo. Non posso permettere che tutto questo vada perso”.
Luigi, Simona e il loro cane Mia hanno optato per il contributo d’affitto. “Siamo in due, non sono tanti i soldi che ci mette a disposizione la Protezione civile, ma tutte le case che ci hanno proposto erano lontane da qui. Noi siamo nati e cresciuti a Certosa, non abbiamo intenzione di andarcene. Ci siamo sposati da poco e pensavamo di aver realizzato i nostri sogni comprando una casa tutta nostra”.
Invece la felicità è rimasta intrappolata in quelle mura. “Ci hanno detto che l’indennizzo sarà di circa centomila euro. Ma abbiamo subito un danno psicologico, un trauma troppo grandi, i loro soldi non saranno mai abbastanza”, dice Luigi.
I centomila euro di cui parla Luigi corrispondono alla cifra di indennizzo cui gli sfollati avranno diritto sulla base di un calcolo preciso. Come spiega l’assessore al Bilancio Piciocchi, “al massimo tra un anno, tutti dovranno avere un risarcimento”.
L’indennizzo si quantifica partendo dal valore di stima degli immobili, a cui si applica un coefficiente di rivalutazione (perché gli immobili oggi hanno un valore decisamente inferiore rispetto a prima del crollo del ponte), dopodiché si applica la legge del PRIS (Programmi regionali di intervento strategico, ndr).
Ovvero, “ci sarà un contributo di 43mila euro, oltre al valore della casa, a cui verrà aggiunta la perdita del valore degli arredi, il risarcimento del danno biologico e quello delle spese notarili per l’acquisto di un’altra casa. Le risorse economiche le metterà tutte Autostrade”, assicura Piciocchi.
Filippo si allontana dall’ufficio con passo svelto. Ha 81 anni ma ne dimostra almeno dieci di meno. Lo sguardo dolce e fermo di un uomo del sud che sessant’anni prima ha spostato la vita in quella città sconosciuta: “Insieme a mia moglie abitavamo da anni in un appartamento di via Porro”.
Scala C, interno 8, dice. “L’avevo ristrutturata io con le mie mani, avevo ritinteggiato e rifatto il bagno”. Gli occhi lucidi e la voce incerta: “Mia moglie mi ha lasciato due anni fa, vivevo da solo ormai. Non ho bisogno di tanto, perciò ho accettato la casa del comune. È piccola, ma mi sta bene così”.
Le storie sono tante, si rincorrono e si intrecciano sotto il ponte e il desiderio per tutti è sempre lo stesso: riuscire a rientrare in casa, portare via quelle valigie lasciate sul ciglio della porta a poche ore dal crollo del ponte, riprendersi i ricordi, i brandelli di vita rimasti incastrati nei palazzi schiacciati dal ponte.
Sotto al viadotto, però, non ci sono solo le case degli sfollati. A patire le conseguenze del crollo del 14 agosto sono anche i commercianti. E si parla non soltanto degli esercizi commerciali chiusi perché situati nella zona rossa, ma anche quelli che rientrano nella cosiddetta zona rosa, in cui il passaggio di auto e persone è consentito, ma è frenato dalle transenne.
Marco Colladon, proprietario 63enne di un’officina, ha appeso un cartello con la scritta ‘aperto’ sulle transenne stesse. “Stamattina mi hanno chiesto di toglierlo, ma io dico: stiamo scherzando?”, racconta. “Abbiamo sempre lavorato sul passaggio, passa talmente tanta gente! Adesso quella situazione non esiste più chiaramente e di conseguenza anche le vendite sono crollate”. Colladon ha cinque dipendenti e 35mila euro di rate da pagare.
All’inizio di via Fillak, all’incrocio col resto della città che continua a vivere, un uomo in piedi accanto alle transenne si è appeso al collo il cartello della sua attività.
È Ugo Vergano, che in via Fillak vende materiale edile: “Ho sei dipendenti sulle spalle, la mia è una piccola azienda e queste transenne scoraggiano le persone ad accedere alla zona. Do fastidio ai vigili se resto qui con questo cartello appeso al collo, ma non posso non protestare. Da quando è caduto il ponte non abbiamo guadagnato nulla, eppure siamo fuori dalla zona rossa”.
Secondo il vicepresidente del municipio V – Valpolcevera, Fabio Carletti, sono almeno 158 le aziende che si trovano nel perimetro a rischio. Tra queste, soltanto cinque sono effettivamente chiuse. Il municipio ha messo in moto due iniziative: una di carattere morale invitando i residenti a continuare a rivolgersi alle attività nella zona rosa, l’altra di carattere istituzionale per registrare in un censimento tutte le aziende che potrebbero subire danni e quantificarli.
“Il commercio sta morendo”, dice Carletti. “A oggi Certosa è la zona che più subisce le modifiche alla viabilità, con la conseguente penalizzazione del commercio”.
E la politica, unita, scende in strada e si schiera al fianco degli sfollati. Alberto Pandolfo, consigliere Pd di Genova, va spesso in via Fillak, incontra i commercianti e cancella le distanze tra amministratori e cittadini. “Il dramma vero oltre a quello degli sfollati è quello dei commercianti. Questa era una zona trafficatissima e adesso è praticamente morta. Dobbiamo ripartire da qui”.
Un altro problema è quello dei presidi sanitari: “Il dramma è che nella Valpocevera, da Arenzano in poi, non ci sono grandi ospedali. Il San Martino come il Galliera – gli ospedali più grandi della città – sono tutti nel Levante. Per cui se mi sento male a Voltri – all’estremità opposta – posso fare solo una strada, che è quella su cui oggi passano anche camion e mezzi pesanti, dove il traffico è denso e il rischio di non arrivare mai alto”.
Il problema sanitario preoccupa molto i municipi del Ponente e dell’alta Valpolcevera, sottolinea Pandolfo: “Quasi viene più facile raggiungere Savona, piuttosto che infilarsi in città. E ancora non c’è il traffico che abbiamo normalmente”. Una preoccupazione sollevata dal consigliere che si somma a quelle emergenziali con cui deve fare i conti la città segnata dal crollo del ponte.
Ma i problemi travalicano i confini della croce di strade di via Fillak e ponte Morandi. Le vie di Genova tornano a popolarsi dopo le ferie estive, ma stavolta al solito traffico si somma la mole enorme di quello che scorreva lento sul ponte.
Città portuale, città snodo, Genova si carica del traffico che dalla Francia arriva in Italia, da nord scende verso il sud, da ovest si dirige verso est. E il problema principale saranno i mezzi pensanti. I lumaconi dell’industria abituati a calcare ponte Morandi si vedono costretti oggi a entrare in città, a mischiarsi al traffico privato e a contribuire al congestionamento della città.
“Al momento stiamo misurando dei flussi di traffico veramente incredibili, stanno crescendo giorno dopo giorno”, afferma il vicesindaco di Genova e assessore alla mobilità Stefano Balleari, che assicura una serie di interventi importanti per fluidificare il traffico già consistente.
“Per quanto riguarda la zona di Cornigliano, la zona di passaggio dal centro della città verso il Ponente abbiamo già apportato modifiche importanti alla viabilità. Abbiamo invertito sensi di marcia e creato sensi unici. Abbiamo anche creato una rotatoria che allunga il percorso di 800 metri, ma fa defluire il traffico in maniera diversa”, continua.
L’intervento più grande, però, riguarda i mezzi pesanti. Per evitare che questi entrino in città, si sta costruendo una nuova strada: “Si tratta di un novo percorso che utilizzerà un sedime che non faceva parte del comune di Genova, ma è di autorità portuale, di Ilva. È all’interno di queste aree che faremo passare i mezzi pesanti”, assicura Balleari.
La nuova arteria sarà pronta per metà settembre, secondo le stime degli amministratori: “Gli operai lavorano giorno e notte per accorciare i tempi”, aggiunge Piciocchi.
Nelle parole degli sfollati ritorna l’idea di una sorte ingiusta, evitabile: “Se fossimo fuori casa per un terremoto, sarebbe stato altrettanto difficile, ma l’avremmo accettato con più facilità. Tutto questo invece poteva essere evitato, doveva esserlo”, afferma una sfollata.
Il trauma segna le vite delle centinaia di persone finite in strada. È per questo che, accanto ai volontari della Croce rossa, accanto agli scout che ogni giorno arrivano in via Fillak per assistere gli sfollati, ci sono gli psicologi di Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
L’associazione nasce proprio per intervenire a livello emergenziale sui casi di stress post traumatico. E così i 40 psicoterapeuti specializzati in interventi d’emergenza, dalla fase acuta, alle fasi successive fino a novembre, si muoveranno tra il presidio di Buranello e quello di via Porro.
Come spiega il presidente Isabel Fernandez, “a Genova sono state molte le persone che hanno chiesto e ricevuto supporto psicologico. C’è stata molta richiesta, il che vuol dire che c’è consapevolezza che esistono bisogni di natura psicologica in queste situazioni”.
I terapeuti intervengono sul processo di elaborazione della paura, della perdita della casa, delle difficoltà che il crollo del ponte ha creato in un mondo che prima funzionava. “La sensazione di impotenza e di perdita del controllo su quello che stava succedendo è una fase profonda e intensa delle reazioni da stress”, spiega ancora Fernandez.
Gli psicoterapeuti sono intervenuti su diversi tipi di popolazione: i sopravvissuti, ma anche le famiglie delle vittime, le persone che erano sul ponte e si sono salvate, i soccorritori, chi viveva nella zona rossa e ora è stato evacuato, perdendo la loro quotidianità.
Manuela il 14 agosto alle 11.50 stava attraversando il ponte Morandi insieme a Nicola, suo figlio di 11 anni. Attraversava il viadotto come era abituata a fare più volte al giorno, da sempre. “Pioveva tantissimo quella mattina. Ho visto il camion davanti a me inchiodare, poi le doppie frecce. Ho pensato che fosse il solito traffico. Quando ho visto l’autista corrermi incontro urlando che il ponte era crollato, non riuscivo a realizzare”.
Poi Manuela ha visto le altre auto in coda in retromarcia. Lungo il ponte, solo panico e terrore. “Ho iniziato a realizzare soltanto quando ho visto le macerie in tv. Saremmo potuti esserci io e mio figlio in fondo al Polcevera, ci siamo salvati per pochi metri”.
Nei giorni successivi al crollo del viadotto, Manuela non dormiva più, continuava a vedersi davanti agli occhi quell’uomo che le correva incontro urlando, le macerie e la disperazione. “Lì sono morte persone che conoscevo. Anche il più forte del mondo non resisterebbe a una cosa del genere”.
Per questo, appena ha saputo del centro di psicologi di Buranello, Manuela non ha esitato a chiedere aiuto. “Mi hanno aiutata a elaborare la tragedia, mi hanno dato le risposte di cui avevo bisogno e hanno liberato il mio cuore da questo peso enorme”. Dopo una settimana e alcuni incontri con gli specialisti, Manuela è riuscita a salire di nuovo in macchina: “Ogni volta che attraverso un ponte ho paura, ma ora il terrore non è più quello di prima”.
I presidi di via Porro e di Buranello, da una parte e dall’altra del ponte spezzato, diventano punti di riferimento imprescindibili per la comunità ferita. Le persone si ritrovano, sperano insieme. Ricuciono, resilienti, uno squarcio difficile da suturare.
La città continua a vivere, spaccata in due. Levante e Ponente si sfiorano ma non si toccano più come prima. Il ponte è crollato e in mezzo alle macerie, in fondo al Polcevera, si consuma la tragedia nella tragedia. 43 vite spezzate e 566 in balia di un destino incerto.