Perché l’Italia non sa spendere i soldi dei fondi europei e li spreca
TPI ne ha parlato con Daniel Spizzo, esperto di europrogettazione che insegna al Dipartimento di Scienze Politiche e dell'Amministrazione dell'Università di Trieste
Sono tempi confusi per il Governo italiano in materia di contributi al Bilancio dell’Unione europea.
Nei giorni del braccio di ferro internazionale attorno al caso della nave militare Diciotti, bloccata nel porto di Catania con 150 migranti a bordo dal 20 al 26 agosto, i due vicepremier italiani Luigi di Maio e Matteo Salvini avevano fatto l’occhiolino alla possibilità di non versare quest’anno il contributo dovuto dall’Italia al Bilancio europeo.
“I soldi pagati da italiani e immigrati regolari in tasse devono finire agli italiani. Possiamo diminuire il contributo in quota parte sulla base di quello che l’Europa fa o non fa penalizzando l’Italia. Mi sembra un dovere ridiscutere queste spese condominiali”, aveva affermato Salvini.
Nonostante le minacce, però, il 3 settembre il governo ha versato circa un miliardo di euro di contributi all’Ue nel pieno rispetto dei termini legali e addirittura in anticipo sulla scadenza.
Confusionari sono però, allo stesso tempo, anche i dati riportati dalle forze al Governo sulla somma effettiva che il nostro Paese versa annualmente a Bruxelles.
Secondo Di Maio, i cittadini italiani devolvono all’Unione 20 miliardi di euro all’anno. Un dato citato anche dal capogruppo M5S alla Camera, Francesco D’Uva, secondo cui l’Italia versa all’Ue 20 miliardi di euro ogni anno e ne riceve in cambio appena 10, con un saldo negativo dunque pari a 10 miliardi.
I dati reali rivelati dai documenti ufficiali mostrano però una realtà diversa: nel 2017, ultimo dato disponibile, l’Italia ha destinato al Bilancio europeo poco più di 13 miliardi di euro e ha ricevuto indietro 9,795 miliardi. L’anno precedente erano stati invece versati a Bruxelles 13,939 miliardi di euro ed erano stati ottenuti 11,592 miliardi.
I soldi che tornano all’Italia vengono usati in gran parte per i sussidi all’agricoltura e per le politiche di coesione, soprattutto per colmare il divario tra nord e sud e per finanziare politiche sociali volte alla formazione professionale e contro l’esclusione sociale.
Restiamo, certo, uno tra i “Paesi ricchi” dell’Unione europea che più contribuiscono allo sviluppo comune, ma la differenza tra quanto versato e quanto ricevuto non è da imputare a una Unione europea maligna quanto piuttosto a fattori più complessi.
Uno di questi è la capacità dell’Italia di spendere i fondi comunitari che vengono messi a sua disposizione e, tra tutti, i fondi strutturali e di investimento (SIE).
Sono il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), che si concentra su innovazione e ricerca, agenda digitale, sostegno alle piccole e medie imprese ed economia a basse emissioni di carbonio, il Fondo sociale europeo (FSE), focalizzato su occupazione, istruzione, formazione, inclusione sociale e capacità istituzionale, e il Fondo di Coesione, interessato ai trasporti e alla tutela dell’ambiente nei Paesi meno sviluppati dell’Ue.
Questi fondi vengono stanziati sulla base di un periodo di programmazione di 7 anni.
Per il periodo 2014-2020, per l’Italia sono stati stanziati 42,77 miliardi di euro attraverso 75 programmi nazionali e regionali per occupazione e crescita, potenziamento di ricerca e innovazione, tutela dell’ambiente e aumento della partecipazione al mercato del lavoro.
I fondi SIE sono in gran parte a cosiddetta “gestione indiretta” della Commissione europea: non è l’esecutivo dell’Ue che direttamente pubblica dei bandi e fa le selezioni sui progetti, ma sono una serie di enti delegati sul territorio dell’Unione.
In Italia un ruolo importante spetta alle Regioni, delegate dallo Stato, nel gestire le procedure per le concessioni di questi fondi.
Per capire meglio il funziamento di questi fondi strutturali europei e come l’Italia dovrebbe agire per evitare di “sprecarli”, TPI ha parlato con Daniel Spizzo, esperto di europrogettazione che insegna al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste.
Cosa bisogna fare per accedere ai fondi strutturali e di investimento?
A seconda delle priorità di intervento e dei bandi ci sono diversi enti che possono accedere ai fondi.
Nel caso italiano, Stato e Regioni definiscono una serie di procedure di dettaglio su come finanziare, anche con fondi propri, e su come spendere operativamente i soldi a seconda delle priorità che vengono indicate in parte dall’Unione Europea e in parte concordate con gli Stati, le Regioni e altri enti.
Nel caso delle politiche di coesione finanziate con fondi SIE per il periodo 2014-2020 gli obiettivi tematici su cui vengono fatti confluire i fondi europei sono undici, tra cui troviamo per esempio il rafforzamento della ricerca, il miglioramento della competitività delle piccole e medie imprese, la prevenzione del cambiamento climatico, il miglioramento della pubblica amministrazione e la promozione del trasporto e dell’occupazione sostenibile.
Ci sono una serie di assi d’intervento che includono la possibilità, per esempio per i Comuni o le scuole, di accedere attraverso i bandi a questi fondi con la presentazione di un progetto.
Ovviamente per presentare i progetti ci sono parametri e scadenze da rispettare, siti sui quali si possono reperire i bandi, documenti da scaricare per capire quali sono i parametri di valutazione usati e i criteri per poter finanziare o cofinanziare.
Una volta stabiliti i parametri generali, i bandi vengono quindi pubblicati e sono spesso le Regioni a raccogliere le adesioni.
In generale possiamo dire che, trattandosi di un mondo composto da progettualità complesse, è sempre utile avvalersi di professionalità esterne esperte se si hanno dei dubbi sulle propri capacità progettuali e manageriali.
È anche possibile che vengano ottenuti i fondi per un progetto ma poi non lo si riesca a completare. È un discorso che va preso caso per caso cercando di capire cosa è successo a livello del soggetto o del partenariato che ha fatto domanda.
Ovviamente, restando sempre in contatto con l’autorità che gestisce i fondi, queste cose vanno chiarite con gli uffici in modo trasparente, ma a seconda della casistica può capitare di dover restituire i fondi o di incorrere in sanzioni di vario genere, anche molto gravi.
L’Italia potrebbe gestire meglio questi fondi?
Certamente ci sono Regioni più e meno virtuose, Regioni che hanno cominciato prima a usare questi fondi e che hanno anche fatto dei corsi di aggiornamento continui per i propri euro-progettisti.
Troviamo una cultura amministrativa in alcune aree che magari è particolarmente attenta da anni alla gestione di questi fondi ed è ormai strutturata meglio anche dal punto di vista gestionale. Hanno molto da insegnare, come buone prassi.
Ci sono poi delle Regioni, invece, che hanno dei problemi strutturali a livello di personale, di formazione e cultura amministrativa ma anche di risorse. Bisogna fare delle distinzioni anche in base alle diverse aree all’interno delle Regioni: alcune, marginali o periferiche, non possono essere efficienti quanto altre.
Spesso i fondi europei non coprono l’intero budget richiesto per il progetto, quindi bisogna co-finanziare. Se un ente pubblico ha problemi di budget o se non rispetta le attività previste e/o non raggiunge i risultati che ha indicato di voler raggiungere, questo crea delle difficoltà e dei problemi.
Altre difficoltà in questi anni sono sorte nella fase iniziale di approvazione dei piani operativi. In questo periodo di programmazione ci sono stati tantissimi ritardi dal punto di vista dell’approvazione dei piani operativi nazionali e regionali, ritardi che hanno avuto conseguenze sull’emanazione dei bandi: certi bandi dovevano essere emanati già nel 2014 e sono invece stati aperti molto più tardi.
Questi ritardi fanno sì che nel 2020 si arriverà con l’acqua alla gola.
Che pratiche dovremmo adottare per essere più efficaci da questo punto di vista?
Ci sono lacune importanti nel sistema formativo nazionale che fanno sì che i nostri studenti, soprattutto nel campo delle scienze politiche, sociali o giuridiche, quando escono dall’università non siano preparati con competenze veramente utili per l’europrogettazione operativa.
Mancano sicuramente nei nostri curricula dei corsi e dei laboratori avanzati, di durata adeguata e finanziati in modo ottimale, in cui si lavora direttamente sui bandi- O, se ci sono, sono ancora troppo corti, nozionistici piuttosto che pratici.
Diventa sempre più cruciale lavorare direttamente sui bandi e sui moduli per la presentazione del progetto, simulare situazioni reali del mondo del lavoro, sperimentare situazioni concrete di lavoro in team, scendere sul territorio europeo, collaborare con i Comuni, con le regioni o con gli studi di consulenza che seguono direttamente il tutto, anche stranieri.
In questi ultimi anni abbiamo compiuto alcuni primi tentativi sperimentali in tale direzione con i corsi di Ciclo di Progetto presso il DISPES dell’Università di Trieste e devo dire che abbiamo compiuto dei lavori veramente validi con i nostri studenti.
Comunque una formazione preliminare serve tantissimo perché uno studente che l’ha ricevuta sviluppa poi all’Università alcune skills di base per rispondere alle esigenze del mondo del lavoro reale.
So per certo che in Austria e Germania fanno corsi di project management già alle superiori, e non soltanto nelle scuole specialistiche. I ragazzi già a 17 o 18 anni conoscono alcuni fondamenti di project management e project design.
Manca poi anche una politica mirata e professionalizzante di alternanza scuola-lavoro. In Italia siamo in ritardo. È una questione anche di forma mentis: noi ci concentriamo sull’aspetto teorico e formale delle materie e questo tende a ripetersi anche nelle università. Mancano questi ponti tra il mondo del lavoro nell’euro-progettazione e mondo della formazione.
Ci vuole poi anche una particolare attenzione, in un periodo di euroscetticismo generalizzato, nel difendere una certa idea di Europa. Spesso i fondi europei vanno usati nel quadro di progetti che devono dimostrare di essere a difesa di un chiaro interesse europeo.
Si deve dare un valore aggiunto europeo al tutto. Bisogna quindi guardare al di là del proprio interesse nazionale. Ma oggi si fa molta fatica a spiegare cosa si intenda con interesse europeo: quando progettiamo con tali finanziamenti spesso non lo facciamo nell’interesse dell’Europa ma tenendo in mente quello regionale, locale o quello della propria azienda, mentre un approccio più europeista può distribuire vantaggi e opportunità su una scala più ampia, tra partner di diversi Paesi.
Manca quindi sul piano della “coscienza progettuale” ancora un senso forte dell’identità europea. Insomma, un approccio che adotti un europeismo metodologico convinto.
Ha ragione chi critica i programmi finanziati con i fondi strutturali?
A livello politico ultimamente si critica, talvolta a ragione, l’inefficienza e l’inefficacia dei programmi dal punto di vista dell’impatto sui nostri territori.
Ma, al di là di questo, l’Unione europea in realtà continua a funzionare piuttosto bene su alcune politiche, investendo e creando una serie di benefici per molti cittadini europei.
Un esempio banale è l’abolizione del roaming. Quanti benefici ne abbiamo tratto sul piano della comunicazione digitale in Europa?
Molti sono i programmi, anche finanziati con i SIE, che mirano ulteriormente a potenziare interventi di questo tipo, che funzionano ma che noi non vediamo. Tali politiche comuni ci fanno capire quanto importante sia l’Unione Europea nel creare benefici comuni e più coesione tra Stati e Regioni.