La lotta delle femministe musulmane per i diritti delle donne in Italia
Negli ultimi anni una generazione di donne musulmane sta tentando di combattere gli stereotipi e creare un proprio modello di femminismo
“Sono musulmana. Sono femminista. Sono qui per confondervi”.
Mona Eltahawy, una giornalista di origini egiziane e autrice del libro “Headscarves and Hymens: Why the Middle East needs a sexual revolution”, ha aperto così una sua conferenza nel 2010.
Femminismo e Islam sembrano profondamente inconciliabili. Nel corso degli ultimi 20 anni però, un vero e proprio movimento femminista musulmano ha guadagnato crescente legittimità e notorietà, sia in Europa che nel mondo musulmano.
“Il femminismo musulmano è una realtà molteplice e poco conosciuta. Per questo anche le istituzioni e le stesse femministe fanno una gran fatica a lavorare e integrarsi con le attiviste musulmane” spiega a TPI Marisa Iannucci, islamologa, ricercatrice, attivista per i diritti umani e presidentessa dell’associazione Life Onlus di Ravenna.
“In Occidente, e in particolare in Italia, il femminismo è sorto anche come atto di ribellione alle restrizioni della religione, per questo quello musulmano è difficile da comprendere” continua.
Uno dei movimenti femministi sorti negli anni ’90, e quello in cui l’associazione Life Onlus si ritrova, è il “Gender Jihad“, una battaglia combattuta da donne, ma anche da uomini, che si richiamano al primo significato della parola jihad che è quello di “sforzo”, inteso come lotta interiore che i singoli individui devono intraprendere per migliorare se stessi e l’ambiente che li circonda.
Una delle argomentazioni che ha avanzato Amina Wadud, attivista, professoressa di religione, filosofia e teorica del pensiero “Gender Jihad”, è che il patriarcato sia una forma di shirk (diventare partner di Dio) perché mette gli uomini al di sopra delle donne e contraddice la visione coranica delle relazioni uguali e reciproche, violando il requisito della supremazia di Dio.
I movimenti femminili e femministi sono nati in gran parte del Medio Oriente e del Nord Africa alla fine dell’Ottocento e sono stati affiancati alla lotta per la liberazione dai regimi coloniali.
Il Nahdah è un movimento di rinascita culturale sorto fra la fine Ottocento e inizio Novecento, mentre il termine “femminismo” compare per la prima volta in Egitto nel 1909 negli scritti di Malak Hifni Nasif , il cui pseudonimo era Bahithat al-Badiyah (La ricercatrice del deserto).
Dagli anni Venti il numero di donne coinvolte aumenta e nasce in Egitto la prima organizzazione apertamente femminista: l’Egyptian Feminist Union (UFE).
Questa diventa presto molto popolare, anche grazie alle prese di posizione radicali delle sue esponenti: nel 1923 due di loro (Huda Shaarawi e Safia Zaghlul) si tolgono il velo in pubblico.
Nei decenni successivi il movimento si radicalizza ulteriormente verso idee di stampo marxista e socialista e negli anni Ottanta compare un vero e proprio femminismo islamico.
Sono molti i pregiudizi sulle donne musulmane che portano molti a ritenere inconciliabili femminismo e religione islamica. Ci si dimentica però che il cristianesimo ha contemplato delle forme di oppressione della figura femminile.
I primi teologi come Tertulliano incolpavano le donne della mortalità umana, un’idea ereditata poi anche da Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino e infine Martin Lutero e Giovanni Calvino. “Tu sei la porta del diavolo”, oppure “tu, donna, hai distrutto così facilmente l’immagine di Dio, l’uomo” scriveva Tertulliano nel secondo secolo nel suo De cultu foeminarum.
Così come espressioni di questo genere hanno giustificato il maltrattamento delle donne per duemila anni nella cristianità, allo stesso modo oggi vengono utilizzate interpretazioni tribali della legge della sharia per giustificare il maltrattamento delle donne di religione islamica.
Il femminismo musulmano è inoltre contestato dalle femministe che considerano la religione, in particolar modo l’Islam, come ostili all’emancipazione delle donne.
Tutte le religioni sarebbero infatti patriarcali, quella musulmana sopra ogni altra, e la lotta per la parità dei sessi passerebbe necessariamente per una messa a distanza della dimensione religiosa.
Ma proprio secondo i movimenti delle donne musulmane, la reinterpretazione del Corano svela invece un messaggio più genuino e di sostanziale uguaglianza tra donne e uomini.
Così, le attiviste musulmane lavorano sulla reintepretazione delle scritture sacre e cercano di sottrarle alla normatività delle culture patriarcali che le hanno tradizionalmente interpretate, proponendo una riforma di quelle leggi e di quelle istituzioni maschili che hanno agito contro la donna in nome dell’Islam.
Secondo queste donne, la religione non significa un ritorno al passato, ma rappresenta una forma di reinvenzione individuale e collettiva che deve fare i conti con la società contemporanea e si propone di riscriverla nella forme della modernità.
“Il Jihad, termine molto usato dai media negli ultimi anni (ed erroneamente al femminile), non ha nulla a che fare con la guerra – spiega a TPI Marisa Iannucci – in arabo vuol dire sforzo, impegno. È tutto quello che è lotta per raggiungere un obiettivo, concreto e spirituale. Per questo abbiamo pensato che non fosse improprio tradurlo come lotta femminista, come sforzo per l’emancipazione e per la realizzazione di sé”.
Una lotta, individuale e collettiva, contro le diseguaglianze di genere, i cui principali strumenti sono le fonti religiose dell’Islam stesso.
Nei paesi islamici, le donne vedono limitati i propri diritti, sono soggette a discriminazioni sia sul piano giuridico che personale e vivono in condizioni di povertà, analfabetismo, disagio sociale, senza contare le violenze domestiche che subiscono. Le stesse problematiche continuano a viverle una volta espatriate e arrivate nel nostro paese.
Ma a Ravenna, l’associazione Life Onlus ha creato una rete di condivisione di esperienze di donne appartenenti a culture diverse ma accomunate dallo stesso elemento arcaico e insopportabile: il patriarcato, le cui profonde radici attraversano epoche, culture e continenti fra loro lontani.
Ed è proprio nel comune rifiuto verso questi schemi che le attiviste della rete sono riuscite a trovare un solido punto di incontro.
A Roma, in modo diverso, l’Associazione Donne Marocchine in Italia (Acmid) lavora sulle questioni di genere e, in particolare, sull’appoggio alle donne vittime di violenza e all’inserimento delle donne musulmane nel lavoro.
Uno studio francese del 2014 ha confrontato la probabilità di ottenere un colloquio di lavoro per curricula con un nome dal suono francese (Valérie Mauron) e una foto senza hijab e per altri con un nome dal suono arabo (Djamila Khimssi), e una foto con un hijab.
Circa 800 curricula sono stati inviati a società in diverse regioni francesi. Lo studio ha rilevato che il 72 per cento dei curricula con il nome dal suono francese ha ottenuto un colloquio di lavoro rispetto all’1 per cento con il nome dal suono arabo con una foto di una persona che indossa un hijab.
Uno studio simile condotto dall’università di Linz in Germania nel 2013 ha mostrato che il 18 per cento delle candidate con curricula con nomi dal suono tedesco ha ricevuto un invito per un colloquio di lavoro, rispetto al 13 per cento di quelli con nomi dal suono turco e del 3 per cento dei richiedenti con una foto con un hijab.
In Italia, la situazione non è diversa.
“La discriminazione è un problema serio, il fatto di essere molto limitate nell’accesso al lavoro, soprattutto nelle posizioni più qualificate è un problema che incontriamo spesso tra chi si rivolge a noi”, ricorda Marisa Iannucci. “Perché, spesso, tra le ragazze più giovani dietro al fatto di indossare il velo c’è l’esigenza comprensibile di professare ed esprimere un’appartenenza culturale”.
Souad Sbai, giornalista di origine marocchina, presidentessa e fondatrice dell’Associazione Donne Marocchine in Italia (Acmid) di Roma, intervistata da TPI, si dice fermamente convinta che non ci possa essere emancipazione se non si è disposte a non indossare il velo negli ambienti che lo vietano.
Souad rivendica con forza il diritto di non doversi coprire il capo e tantomeno il viso, e lo fa in nome di molte donne musulmane.
Apparentemente in contraddizione con ciò che viene professato dal femminismo musulmano, Souad Sbai collega il rifiuto di togliere il velo con l’espressione di un’appartenenza politica ben definita e fondamentalista, che teme si diffonda anche in Occidente, soprattutto nelle nuove generazioni.
“Giovani musulmane portano il velo solo perché sono state insultate o molestate per il fatto di non avere il capo coperto e noi cerchiamo di aiutarle e liberarle, per altre è l’espressione di un’appartenenza religiosa di tipo fondamentalista”.
Anche secondo Laila Maher, ambasciatrice per la pace di origine marocchina intervistata da TPI, “non esiste libertà femminile indossando il velo”.
“Molte donne sono costrette ad indossarlo e ogni giorno subiscono violenze solo per aver avuto la ‘sfortuna’ di essere nate donne. Certe femministe non combattono realmente contro la violenza che le donne musulmane subiscono ogni giorno; il femminismo islamista è un femminismo politico, di assoggettamento all’uomo e contro la donna”.
Come ricorda l’islamologa Marisa Iannucci, in effetti, ci sono diversi tipi di “femminismo” che andrebbero distinti.
Le femministe islamiche sono consapevoli di una certa oppressione che colpisce le donne e cercano di lottare contro questa attraverso principi islamici.
Ma sono anche convinte che i problemi delle donne siano da attribuire in parte al tentativo di eguagliare gli uomini, mentre il concetto da loro proposto è quello di ‘complementarietà’ tra i sessi piuttosto che di uguaglianza.
Per questo tipo di militanti è la realizzazione della società islamica nel suo insieme (accettando in parte la sottomissione) che porterà benefici alle donne. E questo, effettivamente, non ha nulla a che fare con le rivendicazioni femministe dei diritti della donna.
Molto diverso è invece il discorso delle femministe musulmane, le quali possono o meno definirsi femministe, ma pongono come centrale il raggiungimento dell’eguaglianza tra i generi nella società, che esse vedono non solo come valido nell’Islam ma, addirittura, come auspicato dallo stessa religione islamica.
La prima moglie di Maometto era molto più vecchia di lui, ricorda anche Suad Sbai, ed era una ricca imprenditrice indipendente che viaggiava e manteneva il marito. Il loro fu un matrimonio monogamo e felice.
Le femministe laiche, categoria in cui si riconosce in parte Souad, d’altro canto, sostengono che il femminismo islamico sia un’ossimoro. Esse fanno riferimento alle convenzioni internazionali e ai diritti delle donne come diritti umani, e ritengono che la religione debba rimanere confinata alla sfera privata.