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Come è andata l’Expo di Milano

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Un giornalista ha visitato per TPI l'Expo di Milano negli ultimi giorni di apertura, e ha fatto un bilancio su cosa l'evento abbia significato per la città

Negli ultimi giorni di Expo non c’era modo migliore per raggiungere la fiera se non imbarcarsi per un’ora su una metropolitana sovraffollata, direzione Rho-Fiera nella periferia Nord-Ovest di Milano. Dopo la soffocante traversata ti aspettavano circa due ore di coda all’ingresso. Tanto più quando TPI ha visitato il sito, dal momento che mancavano solo un paio di giorni alla fine.

Nelle settimane prima della chiusura i visitatori sono diventati circa 200mila al giorno, davvero troppi per la struttura, per quanto il sito di Expo sostenga ne possano essere ospitati 250mila. Nella coda all’ingresso la gente sosteneva di non poter mancare a “questo storico evento” – e il loro umore non era stato guastato dalla folla.

Alcuni si erano svegliati all’alba per raggiungere Milano, altri avevano costruito un’intera vacanza nel nord Italia per venire all’Expo. “Sono dieci anni che se ne parla, dai tempi del colpaccio targato Prodi-Moratti”, spiega Giovanni, milanese sui trent’anni, “non potevo perdermelo per nessun motivo”. Chissà se l’avrebbe pensata allo stesso modo un paio d’ore dopo, una volta entrato nell’Expo.

“Non posso credere di aver speso 35 euro per soffocare nella folla”, si lamenta Sara, studentessa inglese. “Sono sfinita e non è neppure mezzogiorno”. Nell’oceano di persone cominciano a spuntare cartelli con numeri fra 3 e 8. All’inizio la gente rimane confusa, poi qualcuno scoppia a ridere quando capisce che si tratta di ore d’attesa per i padiglioni.

Altri la prendono male e iniziano a sostenere che le donne in corsia preferenziale “non sono davvero incinte”. I padiglioni più quotati, fra cui Giappone, Emirati Arabi Uniti e Corea del Sud, sono mera utopia. Ma anche quelli meno titolati richiedono un paio d’ore di pazienza.

“Ho fatto due ore di coda per vedere il Nepal”, dice Antoine che è venuto dalla Francia, “e c’era solo un bustino di Buddha circondato da monetine”. “Nulla a che vedere col tema della sostenibilità alimentare”, aggiunge la fidanzata Mira, anche se borbotta qualcosa sul terremoto per scusarli. In Sudan lo staff all’ingresso informa TPI che “questo è il Sudan del nord, quelli del sud non hanno nulla a Expo”.

Il loro padiglione, tuttavia, assomiglia a un negozio di souvenir come se ne trovano tanti senza fare ore di coda. La gente esce perplessa fra catenine, borsette e qualche elefantino di legno. Degli Emirati stupiscono i video proiettati su apparecchi ipertecnologici e gli ologrammi, ma stupisce anche come il racconto dello sviluppo fulminante del Paese non faccia menzione del petrolio.

Israele ha perlomeno qualcosa da dire riguardo il tema, visti i miracoli sionisti in fatto di risparmio d’acqua e coltivazione di zone desertiche. Nessun padiglione, in ogni caso, vale le ore d’attesa che richiede. Si aspetta per tutto: per mangiare, bere, andare in bagno. Non stupisce che singoli e associazioni facciano causa a Expo per riavere i soldi del biglietto indietro.

Mentre la gente impazzisce all’Expo, a Palazzo Marino la nomenclatura milanese brinda. Il sindaco Pisapia e Giuseppe Sala possono festeggiare 21 milioni e mezzo di visitatori totali con una media di 116.000 al giorno. Non solo le cifre vanno oltre le attese, ma il buon funzionamento della macchina fa tirare sospiri di sollievo dopo i timori di ritardi e inefficienze che hanno caratterizzato i mesi prima dell’apertura.

In un pezzo per il quotidiano la Repubblica dello scorso aprile, Carlo Verdelli aveva scritto che solo Mary Poppins o Harry Potter avrebbero potuto trasformare “questo non-luogo in qualcosa di presentabile al mondo fra meno di 3 settimane”.

Alla fine il miracolo lo ha fatto Giuseppe Sala, scelto nel 2013 per mettere ordine e impedire infiltrazioni criminali negli appalti. Ora in molti lo vedono lanciato verso Palazzo Marino, e fonti che lo conoscono da vicino confermano a TPI che ha intenzione di candidarsi.

Non piace certo alla sinistra più rossa, in particolare dopo che ha gestito l’Expo valendosi del lavoro di migliaia di volontari che difficilmente verranno “lanciati nel mercato del lavoro dopo la fiera” come gli era stato promesso.

Ma ha condotto i lavori alla velocità della luce evitando all’Italia figuracce all’apertura, per poi lanciare una campagna di marketing appoggiata generosamente dai media che ha garantito all’evento un successo sproporzionato. Ora il drago dell’Expo è pronto per il grande salto. 

L’Expo è l’ultimo di una serie di eventi che hanno rilanciato Milano, rendendola una “tappa immancabile e glamour” come la definisce una turista americana dal suo padiglione. Uno tsunami d’innovazione l’ha portata a scavalcare Firenze e Venezia nella classifica delle città più visitate d’Italia, davanti rimane solo Roma.

Il rifacimento della Darsena, i nuovi locali sulla passeggiata del canale, i grattacieli di Porta Nuova che la fanno sembrare Dubai. Il Bosco Verticale, grattacielo di Stefano Boeri, ora pare lo vogliano rifare in Cina.

Si aggiungono poi le mille iniziative culturali, l’enorme sede Feltrinelli che sta sbocciando in viale Pasubio, numerosi nuovi locali e ristoranti all’ultima moda. Ora che anche l’Expo sembra un grande successo (gli ultimi timori riguardano un’impropria bonifica del terreno che avrebbe contenuto amianto, ma per ora non è emerso nulla di grave) Milano può davvero fare festa.

Mentre Milano sboccia, Roma affonda. Mafia Capitale ha fatto luce sulla complicità delle istituzioni col malaffare. Lo psicodramma Marino ha rivelato – oltre alla sua aggravata goffaggine politica – la difficoltà di fare il primo cittadino a Roma senza piegarsi a perverse logiche di potere. Mentre l’affare degenera in anarchia politica, strade e spazi pubblici vengono abbandonati.

L’Atac versa in condizioni patetiche, fra bancarotta e nepotismo. Nel settore turistico si continua a maltrattare i visitatori – tanto abbiamo il Colosseo e continueranno sempre a venire, i finti gladiatori e i tassisti continuino pure a raggirarli in pace. A cinque settimane dal Giubileo, Verdelli direbbe che ci vorrebbe un miracolo di Mary Poppins o Harry Potter per trasformarlo in quello che l’Expo è stato per Milano. 

Mentre Dubai prepara l’Expo 2020, a Milano si riflette su cosa fare col sito che rimane. Mentre il Crystal Palace di Londra, costruito a Hyde Park per il primo Expo di sempre nel 1851, finì rimosso e infine bruciato nel 1936, Palazzo Italia dovrebbe rimanere al suo posto. L’albero della vita sarà un altro superstite ora che i 144 partecipanti cominciano a rimuovere i padiglioni dal sito.

Per gli organizzatori dovrebbe diventare un nuovo simbolo di Milano, come la Tour Eiffel lo fu per Parigi dopo l’Expo 1889. O come l’improbabile Atomium di Bruxelles, rimasto simbolo della capitale d’Europa dal 1958.

Come scrive David Van Reybrouk, l’importanza di quell’Expo di Bruxelles non fu tanto il lavoro fatto sul suo tema quanto piuttosto l’impatto che ebbe sul contesto politico-culturale del Congo.

I congolesi che raggiunsero l’esposizione da zone diverse del paese cominciarono a conoscersi e a identificarsi come una nazione. Vedere la società belga gli permise inoltre di sfatare quel mito sulla razza colonizzatrice – popolo sempre bello, prestante, composto solo da semidei.

A Bruxelles c’erano anche poveri, emarginati e appestati. Per Van Reybrouk, quell’assunzione di consapevolezza dell’Expo fu decisiva per il processo di decolonizzazione compiutosi un paio d’anni più tardi.

In maniera analoga, l’Expo di Milano non verrà certo ricordato per i contributi dati all’innovazione in campo alimentare o per la lotta alla fame nel mondo. Potrebbe essere ricordato, casomai, per aver rilanciato Milano e forse, con gli anni, l’intera Italia. 

Questo articolo è disponibile anche in lingua inglese.

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