“Non solo il mio Enzo Tortora, ogni anno ci sono 1.000 detenuti innocenti dimenticati nelle carceri italiane”: la denuncia della compagna
A trent'anni dalla morte di Enzo Tortora, e in occasione del ritorno in tv dello storico programma 'Portobello', TPI ha intervistato Francesca Scopelliti, sua compagna, che ancora oggi si batte per tutti i casi di ingiusta detenzione in Italia
Sono mille i detenuti innocenti che ogni anno finiscono nelle carceri in Italia. A distanza di così tanti anni dal più eclatante caso di malagiustizia italiana, quello del celebre conduttore Enzo Tortora arrestato ingiustamente per associazione camorristica e traffico di droga, la compagna Francesca Scopelliti si batte ancora per tutti i casi di ingiusta detenzione.
A trent’anni dalla morte di Enzo Tortora, l’intervista di TPI a Francesca Scopelliti, compagna di Enzo, destinataria delle lettere spedite durante il periodo in carcere, compendiate nel volume a sua firma Lettere e Francesca (2016, Pacini), oggi Presidente della Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora, che prosegue l’opera di denuncia ma anche la battaglia per la tutela dei diritti umani.
D. Presidente Francesca Scopelliti, sulla nuova edizione di Portobello, la trasmissione che riprende i temi dello storico programma condotto da Enzo Tortora, ha dichiarato che Antonella Clerici avrebbe dovuto ricordare meglio la “vergognosa vicenda giudiziaria che ha portato Tortora alla morte nel 1988”. Cos’ha ucciso il suo compagno?
R. A sentire il “commosso ricordo”, sembrava quasi che fosse morto di vecchiaia. Enzo morì di malagiustizia. Dopo l’arresto disse “Mi è scoppiata dentro una bomba al cobalto”: non era altro che quel tumore ai polmoni che se lo portò via il 18 maggio 1988. In un Paese democratico non è possibile accettare che personalità dello Stato, come Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, vengano uccisi dalla malavita; peggio ci si sente se un uomo perbene viene ucciso dalla malagiustizia, cioè dallo Stato.
D. Quanti Enzo Tortora esistono oggi?
R. Gli errori giudiziari continuano ad esserci, ci sono persone che trascorrono anche più di vent’anni in galera, da innocenti. A Belluno, qualche giorno fa, ho incontrato Giuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo quando appena diciottenne: si è fatto 22 anni da innocente; ho conosciuto Angelo Massaro, 21 anni di carcere per un delitto mai commesso e una vita distrutta. Uomini senza più dignità, neppure professionale, e nessuno che provveda a restituirgliela. Il 17 giugno scorso, il Partito Radicale ha organizzato nella sede storica di via di Torre Argentina, a Roma, un convegno per ricordare il 35esimo anniversario dell’arresto di Enzo. Tra i presenti, vittime di malagiustizia e anche un parlamentare della Lega e, dal momento che sono al Governo, gli ho chiesto una Legge che consenta alla vittima dell’errore giudiziario l’ottenimento di un punteggio ulteriore nella lista di collocamento, così da porla al primo posto e, uscita dal carcere, nella facoltà di riappropriarsi della dignità di un lavoro.
D. Presidente Francesca Scopelliti, a distanza di così tanti anni dal più eclatante caso di malagiustizia, qual è il primo ricordo legato all’impegno di Enzo Tortora per una lotta di civiltà?
R. Vi leggo la lettera del 30 agosto 1983, quando Enzo era ancora in carcere durante la campagna di fango. “Frustato a sangue da questa realtà, il mio compito è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza: ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che ‘onorano’, per paradosso, il fascismo, vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazioni di pazzi criminali”. In questa circostanza pensò a un impegno in una battaglia politica per la giustizia giusta, a dispetto di chi lo volesse colpevole e camorrista a tutti i costi.
D. Non poté in alcun modo confrontarsi con i pentiti, o presunti tali, che lo accusarono?
R. Mai. Questo mondo della criminalità organizzata era distante mille miglia da Enzo, che era un uomo liberale e rispettoso dei valori democratici, intelligente e onesto. Un esempio? Quando fece l’asta su Antenna 3 per la raccolta fondi per i terremotati dell’Irpinia, volle consegnare l’intero importo nelle mani dell’onorevole Giuseppe Zamberletti, allora commissario del governo per le zone terremotate del Sud, ideatore della Protezione Civile, perché non si perdesse nei meandri della malavita.
D. Perché continuare a perpetrare il grande errore?
R. Enzo mi scrisse dal carcere “Questi signori per salvare la loro faccia fottono me”. Il riferimento era ai due pm Felice Di Persia e Lucio di Pietro. Con i ferri ai polsi di Enzo, finirono su tutti i giornali. Furono definiti i “Maradona del diritto”. Si vantarono di non guardare in faccia nessuno, come se avessero arrestato Al Capone. No. Quello su Tortora è un crimine giudiziario, non un errore. Si poteva chiamare errore fino al primo interrogatorio. Appurata l’assenza di elementi di prova sulla colpevolezza, avrebbero dovuto ammettere lo sbaglio e scusarsi.
«È stato atroce, Francesca. Uno schianto che non si può dire. Ancora oggi, a sei giorni dall’arresto, chiuso in questa cella 16 bis, con altri cinque disperati, non so capacitarmi, trovare un perché. Trovo solo un muro di follia» (23 giugno 1983)
D. E le scuse arrivano, dopo il calvario e la scomparsa…
R. Prima di chiunque altro sono arrivate quelle dei pentiti. Dicevano che erano stati costretti a recitare una sceneggiatura. Sarebbe bello sapere chi l’avesse scritta. Come ho già detto, farabutti erano quando accusavano, farabutti rimangono adesso che chiedono perdono. Poi sono arrivate, tre anni fa, le scuse di Diego Marmo, il pm del processo di primo grado. “Tortora era un uomo perbene” ha dichiarato al giornalista che gli ha ricordato come in passato avesse utilizzato termini forti: durante il processo, lo definì “cinico mercante di morte”. Le scuse di Marmo sono state rispedite al mittente, perché tardive quanto inefficaci. E poi perché sono arrivate per intraprendere, finita la carriera della magistratura, quella politica. Il Sindaco di Pompei voleva nominarlo assessore alla legalità. Con l’aiuto di Piero Sansonetti, direttore del Dubbio, è stata fatta una campagna di informazione. Il Mattino ha pubblicato una mia lettera indirizzata al sindaco. Lo invitavo a rivedere questa posizione. Le scuse di Marmo sono arrivate perciò in questo contesto, come a chiedere la mia benevolenza.
D. Di recente sono arrivate anche le scuse del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Le ha apprezzate?
R. Le scuse di Bonafede sono ben accette perché Ministro della Giustizia. Però, il modo migliore per chiedergli scusa è quello di passare dalle parole ai fatti. E il fatto può essere intraprendere un percorso legislativo di riforme sulla giustizia, per cui Enzo volle battersi fino alla fine, come la divisione delle carriere. Alla Camera è depositata una proposta di legge di iniziativa popolare le cui firme sono state raccolte dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Rivedere la responsabilità dei magistrati, rivedere le condizioni delle carceri per renderle più civili, rimettere ordine su un principio costituzionale spesso disatteso che è la presunzione di innocenza. Questo pacchetto di riforme vorrei che venisse portato avanti nel nome di Enzo Tortora. Sarebbe un bel gesto per chiedergli scusa.
D. La rabbia nella lettera di agosto si trasformò in un dovere affinché la Storia non si ripetesse. Come ebbe inizio?
R. Quando Marco Pannella lo chiamò per proporgli la candidatura al Parlamento Europeo, Enzo gli rispose “Marco, tu sei pazzo a chiedermelo, io sono più pazzo ad accettare”. Enzo capì come fosse l’unica cosa da fare. Fu eletto e a Strasburgo portò la denuncia di quel sistema penale di cui finì vittima e della condizione delle carceri italiane. E quando mesi dopo ricevette la condanna, piuttosto che approfittare dell’immunità parlamentare, si dimise e tornò in galera, per continuare la battaglia giudiziaria. Anche questo fu un altro schiaffo a quella Corte che lo ritenne colpevole, ingiustamente. E quel male, quella “bomba al cobalto”, la dominò affinché partecipasse ad appuntamenti irrinunciabili: il riconoscimento della completa estraneità alla vicenda, l’accertamento dello stato delle carceri con il Partito Radicale e, in ultimo, tornare in Rai e dire al suo pubblico “Dunque, dove eravamo rimasti”. Un altro importante appuntamento fu il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, ma Enzo non fece in tempo a constatare l’evoluzione legislativa, perché morì.
«Signor Presidente della Repubblica, non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura» (Enzo Biagi, 7 agosto 1983, E io difendo Enzo Tortora, La Repubblica)
D. Quanto fu violento l’impatto con la realtà del carcere?
R. La vita di Enzo Tortora cambiò. Non fu più il conduttore di Portobello, la trasmissione della società bella. A questo non credette più. Enzo, con i Radicali, visitò l’Ucciardone, Poggioreale e altri istituti carcerari. Conobbe un’altra società, quella rifiutata, un’isola che non c’è. Quando qualcuno finisce in cella, tutti, o quasi, desiderano “che buttino le chiavi”. Non ci importa sapere se quell’individuo meriti il carcere davvero e non ci importa capire se quell’ambiente rispetti i limiti dei diritti umani. A trent’anni dalla morte di Enzo, il suo caso non ha insegnato nulla. Nessuna compagine politica, di destra o di sinistra, che abbia mai pensato di analizzarne la vicenda, come si fa in un caso clinico, stabilendo le cause per studiare la terapia.
D. Fuori da Regina Coeli, come mutò il rapporto con l’ambiente esterno?
R. “Il telefono ha smesso di squillare”, disse dopo l’arresto. Ma Enzo ebbe anche amici di cultura con cui confrontarsi. Indro Montanelli, Enzo Biagi, Leonardo Sciascia. Con quest’ultimo instaurò un bellissimo rapporto. Mentre era agli arresti domiciliari, a Milano, Sciascia venne in visita due volte. Non lo dimenticherò mai. Sentire parlare due uomini di questa levatura è un privilegio che pochi hanno.
D. Con Marco Pannella condivise la battaglia politica. Chi ha avuto e chi ha dato di più?
R. Ci fu un pareggio. Marco ripristinò la battaglia sulla giustizia, in un primo momento distrutta da Toni Negri; Enzo ottenne quel sostegno per la sua causa che, invece, il Partito Liberale non ebbe il coraggio di condividere, forse per convenienza, forse per timidezza, forse perché forza di governo, non lo so. Il rapporto tra Enzo e Marco, nato all’epoca della campagna divorzista, si consolidò molto, anche affettivamente. Marco arrivava in casa nostra a qualunque ora del giorno e della notte. Ma la proposta di candidarlo alle Elezioni europee del 1984 fu lanciata da Francesco Rutelli, all’epoca Segretario del Partito Radicale.
«Ieri sera è venuto a trovarmi Montanelli: è stato terribile. Ma lui è stato molto caro. Solo ci si sente, non so come dirti, umiliati fino al midollo» (15 settembre 1983)
D. In che modo Tortora e Sciascia si conobbero?
R. Enzo gli scrisse dopo la lettura de Gli zii di Sicilia, opera che apprezzò molto, avviando perciò una corrispondenza. Sciascia lo ricordo molto spiritoso. Disse di non conoscere Enzo perché non guardava la televisione, mentre lo conosceva la sua famiglia: “Quella lettera è valsa molto agli occhi delle mie figlie”, disse. Con chi condivideva un’idea, Enzo nutriva il desiderio di mettersi in correlazione.
D. Un comunicatore appassionato, davanti e anche dietro le telecamere?
R. Sentiva il desiderio grande di comunicare, nel bene o nel male: come disse negli anni Settanta che la Rai era un “jet set guidato da un gruppo di boy scout”, rischiando di vedersi stracciato il contratto, così doveva scrivere a un autore quando il libro gli piaceva. Per esempio, scrisse una lettera a Sebastiano Vassalli per via del volume Sangue e suolo, una denuncia sulla condizione degli italiani a Bolzano, tanto che poi lo conoscemmo e insieme andammo in Trentino. Nella sua carriera televisiva, Enzo Tortora riuscì ad arrivare al successo grazie alla forza delle sue idee. Non chinò mai la testa davanti al potere. Quando lavorava alla trasmissione, amava di più discutere con un operatore o con l’ospite che proponeva la propria invenzione piuttosto che con il pezzo grosso.
D. Mi dica, quale ricordo custodisce di un momento felice insieme al suo compagno e Leonardo Sciascia?
R. Fu un grande privilegio averlo avuto ospite a pranzo insieme alla moglie. Io amo molto cucinare e, naturalmente, la cucina più facile per me è quella calabrese. Ricordo che in quell’occasione preparai la caponata, che adoro. Ci fu una discussione tra me e la moglie di Leonardo Sciascia sull’origine del piatto: io sostenni che fosse calabrese, lei sostenne che fosse siciliana.
D. Chi prevalse?
R. Più che la voglia di affermare la mia convinzione, valse il senso di ospitalità e accettai che la caponata fosse siciliana. Ma continuo a dire che è calabrese.
D. E Sciascia da che parte stava? Della moglie, suppongo.
R. No. Lasciò a noi donne condurre questa discussione.
Come rilevato dal sito ErroriGiudiziari.com, dal 1992 a oggi, si registrano oltre 26mila casi di ingiusta detenzione.