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Home » News

Perché è importante la direzione del PD di oggi

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Al centro del dibattito la frattura della minoranza del partito, che minaccia di votare no al referendum costituzionale di dicembre

Oggi lunedì 10 ottobre alle ore 17 si terrà a Roma la direzione del Partito Democratico. La direzione nazionale è l’organo che si occupa di stabilire l’indirizzo politico del partito e questa sua riunione, oltre a sembrare destinata a essere particolarmente tesa, potrebbe portare ad alcune parziali modifiche della linea del partito o a una spaccatura netta con la sua minoranza.

Al momento, l’azione politica del Partito Democratico è concentrata principalmente sul referendum costituzionale che si terrà il 4 dicembre e che avrà come oggetto il Ddl Renzi-Boschi. Nei giorni immediatamente precedenti questa direzione, diversi esponenti legati alla minoranza del PD, come l’ex segretario Pierluigi Bersani e l’ex capogruppo alla camera Roberto Speranza, hanno dichiarato che se dovesse essere approvata la riforma costituzionale e se la legge elettorale voluta dal governo, l’Italicum, non dovesse cambiare, in Italia si assisterebbe a un cambiamento della forma di governo.

LEGGI ANCHE: Cos’è e cosa prevede il referendum costituzionale

Questi no, vincolati soprattutto a mancate modifiche della legge elettorale, andrebbero ad aggiungersi a quelli di altri storici esponenti del PD che, diversamente da loro, non sembrano disposti a trattare: si tratta dell’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema e l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino.

La risposta di Renzi non è tardata ad arrivare: il giorno dopo l’uscita dell’intervista in cui Bersani ha dichiarato il suo possibile voto contrario al referendum, il premier era ospite al programma televisivo L’Arena, su Rai Uno, dove ha dichiarato come la riforma costituzionale non sia stata scritta da lui da solo a Rignano sull’Arno, ma sia stata approvata da sei voti del parlamento, e che ogni forza politica ha presentato migliaia di emendamenti che sono stati a loro volta messi ai voti.

Non ha inoltre mancato di notare come nei tre passaggi alla camera, Pierluigi Bersani, che ricopre la carica di deputato, abbia in tutti e tre i casi votato a favore della riforma.

Bersani nella stessa intervista ha inoltre fatto emergere un personale malessere nell’approvare tale riforma con i voti di Area Popolare (il gruppo parlamentare formato da Nuovo Centrodestra e UDC) e ALA (il gruppo invece legato al senatore Denis Verdini), due gruppi distanti dalla tradizione di sinistra. Anche a questo Renzi ha risposto – in diverse occasioni – come per vincere il referendum sia necessario raccogliere voti anche dagli elettori del centrodestra e come la costituzione sia una legge fondamentale che riguarda tutti.

LEGGI ANCHE: Cos’è l’Italicum, spiegato senza giri di parole

Stando a queste premesse, la direzione del 10 ottobre potrebbe trasformarsi in un passaggio cruciale. Due dichiarazioni di esponenti di spicco del PD la hanno mostrata bene: da un lato il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che ha mostrato come “la minoranza usa il referendum contro Renzi per una battaglia politica che si dovrebbe fare in altre sedi”, dall’altro l’ex presidente del partito, Gianni Cuperlo, che ha detto come il PD sia sull’orlo di una scissione e stia solo a Renzi lavorare per sanarla.

Nella direzione Renzi potrà dunque portare avanti due linee: o fare alcune concessioni alla minoranza, sperando di contenere in questo modo il loro dissenso, o tenere duro sulla propria linea, facendogli notare che è sempre stata la linea del partito e che loro stessi hanno votato questa riforma costituzionale.

In quest’ultimo caso, difficilmente gli esponenti della minoranza cambierebbero la propria posizione e, con tutta probabilità, voterebbero no al referendum, aprendo ulteriori scenari: una resa dei conti nel partito dopo il voto di dicembre, qualsiasi dovesse essere il suo risultato, o una scissione.

Nel frattempo, il capogruppo alla camera del PD, Ettore Rosato, ha cercato di sanare la frattura in un’intervista a Repubblica, chiarendo però che se una parte della classe dirigente cercherà la divisione, rischierà di buttare a mare una riforma per cui si lavora da trent’anni.

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