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Home » News

Il suicidio di Di Maio: per salvare Salvini e il governo sta spaccando in due il M5s

Immagine di copertina
Luigi Di Maio e Matteo Salvini

L'analisi di Lorenzo Tosa

Ieri sera, nelle ore immediatamente successive ai risultati della consultazione online sul caso Diciotti, non ho resistito a curiosare sui social per vedere come avrebbero reagito i grillini di fronte a un voto che salva, di fatto, Salvini dal processo e i 5 Stelle dal tornare a fare quello che facevano prima: cioè nulla.

Ma che soprattutto segna, alle ore 21.54 ora locale del 18 febbraio 2019, la morte cerebrale del più grande e perverso esperimento politico che mente umana abbia mai teorizzato.

Intendiamoci. Non che mi aspettassi bandiere sventolate sui profili o significative scene di giubilo, tutt’altro, ma neppure quello che effettivamente ho trovato sulle bacheche delle risorse dimaiane più fedeli: un unico, profondo, maestoso, assordante, silenzio.

Persino i grillini, nel loro intimo, si sono accorti che non era serata da trenino e champagne.

Neppure gli arresti domiciliari di mamma e papà Renzi, che in altri tempi sarebbero stati celebrati fino a notte fonda con inesausto fervore manettaro, sono bastati a rianimare un popolo che a stento cominciava a elaborare i risultati appena giunti freschi freschi dal Blog delle Stelle: oltre 51mila votanti (record assoluto per la piattaforma Rousseau), di cui 31mila (il 59 per cento circa) contro l’autorizzazione a procedere e 21mila (attorno al 41 per cento) che si sono espressi a favore.

Un esito che ha restituito la fotografia di un Movimento forse mai così spaccato nella sua storia, lacerato al proprio interno da due correnti e due modi di intendere la politica che, se prima si limitavano ad esistere, oggi sono scritti lì nero su bianco.

Non è semplicemente Di Maio contro Fico, pragmatici contro ortodossi. È di più e oltre. Da una parte c’è chi è disposto a tradire valori fondanti e fondativi del Movimento pur di rimanere aggrappato al treno sovranista; dall’altra chi si illude di poter replicare, eternandoli, schemi politici che potevano andare bene per un V-Day o un banchetto per l’acqua pubblica ma che sfiorano il ridicolo tra i banchi di governo.

Il voto di ieri rappresentava il banco di prova naturale per pesare le ambizioni politiche di questa brigata di delusi e sognatori, per provare a contarsi, misurare lo spazio che separa le idee dalle azioni.

Quel 41 per cento dimostra che non erano solo mal di pancia, insofferenze e malumori. Non era solo uno spiffero ma una corrente vera e propria, dal peso specifico rilevante, che promette di coagulare attorno al presidente della Camera i malpancisti della prima ora e i dissidenti già fuoriusciti ed espulsi, pronti a uscire dal comodo ventre materno per ridare vita a un Movimento 1.0, saldamente riancorato ai territori e alle origini.

Un nuovo soggetto che sappia parlare sia ai populisti che alla sinistra barricadera (leggi alla voce De Magistris), magari – perché no – con un Grillo padre nobile riformattato in versione 2012.

Sempre in attesa di capire cosa farà Di Battista da grande, una volta esauriti i giovanili ed esotici ardori. Fantapolitica? Nient’affatto, il Grillexit è una ipotesi suggestiva ma concreta che negli ambienti pentastellati circola da anni. E il voto di ieri non ha fatto altro che rafforzarla e giustificarla.

Di sicuro ieri sera si è consumata una delle pagine più nere nella storia del Movimento 5 Stelle. Erano entrati sei anni fa in Parlamento per aprirlo come una scatoletta di tonno, sono finiti per salvare dal processo il leader del partito più vecchio della Seconda Repubblica.

Il tutto senza neppure il coraggio di assumersene la responsabilità politica, preferendo delegare la decisione a un esercito di compiacenti sudditi virtuali, proni ad ogni desiderata dei vertici.

Che brutta fine per quell’esercito di grillini che non si fidavano neanche del vicino di casa e vedevano complotti anche nel buco del lavandino, ma che, quando arriva un ordine dall’alto, diventano docili come agnellini.

Dopo che per anni hanno abbaiato alla luna per ogni immunità, ogni mancata autorizzazione a procedere, ieri, nel giro di poche ore, hanno salvato l’emblema stesso della casta oggi in Italia – e se stessi – dal processo forse più giusto, chiaro e luminoso degli ultimi decenni.

Ma quello che fa più male è che a perdere davvero, alla fine, sono stati i 177 migranti della Diciotti, per giorni presi in ostaggio, trattati come bestie, usati, strumentalizzati e che oggi si vedono negare anche quell’ultimo barlume di giustizia a cui ancora potevano aspirare.

È stato un voto strano, per certi versi surreale, dove ha vinto chi ha perso, e viceversa. Comunque finirà, Luigi Di Maio è il vero grande sconfitto, lontano ormai anni luce dalla base e sempre più isolato da quelle stesse persone che, anche grazie a lui, oggi occupano alcuni dei più prestigiosi posti di potere del nostro Paese.

Quello che ieri è accaduto a Renzi, sta capitando ora a Di Maio, come un Re Lear tradito dai suoi stessi figli e dalla sua smisurata ambizione. Scegliere di mandare la palla in tribuna, rifugiandosi pavidamente nel voto della base su un caso come quello della Diciotti, è un errore politico che pagherà a carissimo prezzo.

Al di là del singolo episodio, la strategia è tanto limpida quanto suicida: il capo politico sta cercando in ogni modo di mantenere il governo attaccato artificialmente alle macchine e salvare la poltrona, anche a costo di sconfessare se stesso e lasciare il pallino in mano a Salvini.

Senza rendersi conto che, presto o tardi, sarà proprio Salvini a staccare la spina all’esecutivo, lasciando l’alleato all’improvviso nudo, senza incarico, senza credibilità, senza alternative, senza più un partito né un proprio seguito personale.  Di Maio poteva scegliere se salvare la poltrona o salvare l’anima del Movimento. Ha scelto la poltrona, e per questo finirà per perdere entrambe.

Ancora una volta, alla fine l’unico vincitore è lui, Matteo Salvini, che è riuscito in meno di 24 ore nel doppio capolavoro di salvarsi da un processo dall’esito incerto e potenzialmente esplosivo e, al contempo, di spaccare definitivamente in due il M5S. Salvini è stato il detonatore perfetto di una bomba che attendeva lì da anni, pronta ad esplodere.

Questo è ciò che accade quando ti siedi al tavolo da poker con qualcuno che ha più esperienza di te, carte migliori e una strategia infinitamente migliore della tua. Da un momento all’altro ti ritrovi in mutande, senza neppure il tempo di capire com’è potuto succedere.

Possono girarci attorno quanto vogliono, ma la verità è che, nel momento stesso in cui un quesito del genere è stato anche soltanto messo in discussione, il Movimento 5 Stelle è già diventato tecnicamente un dead man walking.

Se cadrà il governo, tornarci un’altra volta, soli o accompagnati, sarà praticamente impossibile. Se il governo sopravviverà, il baricentro sarà sempre più spostato verso la Lega e schiacciato su posizioni indigeribili per la base grillina, in una sorta di “leghistizzazione” già in atto da mesi e che il voto di ieri ha, in pratica, istituzionalizzato.

Come se già tutto questo non bastasse, c’è anche chi mette in dubbio la credibilità, e dunque la validità stessa, del voto online e della stessa piattaforma Rosseau. La domanda che circola più insistentemente sui social è: “Chi ci dice che votano davvero e che non sia in realtà tutto manovrato dall’alto?”. Dubbio assolutamente legittimo.

Ma la verità è che, per l’ansia di cavalcare a tutti i costi la “grillinissima” cultura del sospetto, si corre il rischio di non cogliere il vero nocciolo di tutta la vicenda. Gli iscritti votano davvero, sarebbe persino troppo banale il contrario.

Il problema è che ogni singola volta che il “popolo della rete” viene chiamato ad esprimersi, la risposta è sempre già contenuta nella domanda, al punto che votare all’opposto diventa un atto di ribellione personale troppo faticoso e complesso per chi è stato educato ad accettare fideisticamente il verbo grillino.

Anche nel quesito sulla Diciotti, più ancora smaccatamente che altrove, abbiamo assistito a una vera e propria dichiarazione di voto subliminale (ma neanche troppo) contro l’autorizzazione a procedere per Salvini.

È l’ennesima conferma di come quella diretta non sia altro che la forma di democrazia più controllabile e manipolabile mai concepita. Non importa quanto sia valida un’idea, quanto sia coerente una posizione o una condotta, ma l’abilità con cui te la so raccontare.

Gianroberto Casaleggio, tanto per cambiare, è stato il primo a capirlo: se posso decidere la domanda, controllerò anche la risposta. Altro che Heller e Procuste, qui siamo tra Matrix e George Orwell, in una realtà parallela in cui i cittadini credono di votare quello che pensano e in realtà votano quello che gli viene detto di pensare.

Tanto, se anche dovesse andar male, si fa sempre in tempo a cambiare i risultati in corsa, come è già accaduto in maniera eclatante non più tardi di un anno e mezzo fa con le Comunarie di Genova. Anzi, di fronte a un tale lavaggio del cervello, c’è da domandarsi semmai come mai oltre 4 persone su 10 abbiano disobbedito al Blog.

E ancora: invece di chiedersi se il voto sia regolare o meno, la vera domanda è, piuttosto, se è accettabile che il primo partito italiano per numero di parlamentari prenda decisioni sulla base di un voto controllato e controllabile da parte di una società al 100 per cento privata.

Quella stessa società che, tutt’oggi, è finanziata dai cittadini italiani con 99.900 euro al mese (quasi 6 milioni di euro in 5 anni), attraverso le cosiddette “restituzioni” degli stipendi degli eletti, per finanziare una consultazione online vera come le labbra di Nina Moric, trasparente come un conto alle Cayman.

In pratica, chi sceglie 5 Stelle sta delegando, con il proprio voto, un soggetto privato a prendere, gestire e maneggiare decisioni fondamentali per la vita di questo Paese, senza che la stessa azienda risponda ad alcun vincolo costituzionale né ad alcun patto con gli elettori, in un cortocircuito democratico senza precedenti.

In fin dei conti, ecco cos’è e cos’è sempre stato Rousseau: quel sistema in cui migliaia di iscritti, senza alcuna conoscenza in materia né la possibilità di consultare le carte o farsi un’idea propria, votano su ogni tema possibile e immaginabile, e alla fine vince sempre Casaleggio.

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