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Cosa succede ora che ha vinto il No al referendum costituzionale

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Matteo Renzi rassegnerà oggi le dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica Mattarella, che deciderà se nominare un governo tecnico o sciogliere le camere

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato stanotte le sue dimissioni dopo la vittoria del No al referendum sulla riforma costituzionale.

Il leader del Pd ha detto che oggi pomeriggio si recherà al Quirinale per rimettere l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. I risultati – ancora parziali – sul voto segnano una sconfitta per il fronte del Sì, che ha raggiunto circa il 40.9 per cento dei voti contro il 59.2 per cento del No.

La conseguenza più scontata di questo risultato è che la costituzione resterà com’era e non diventeranno realtà le modifiche proposte da Renzi e dal ministro per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi. Il Senato resterà elettivo e continuerà ad avere gli stessi poteri della Camera, il Cnel rimarrà in vigore e non saranno modificate le competenze legislative delle Regioni.

— LEGGI ANCHE: I due referendum costituzionali del passato in Italia

Ma le conseguenze della vittoria del No sono anche politiche. Con le dimissioni del premier il capo dello Stato deciderà quali saranno i prossimi passi, e dopo le dovute consultazioni deciderà se sciogliere le Camere andando al voto anticipato, o nominare un governo tecnico che porti il paese alle elezioni del 2018.

Il voto anticipato

La prima possibilità è quella invocata dalle opposizioni, in particolare dal Movimento cinque stelle.

Nonostante i membri del gruppo guidato da Beppe Grillo abbiano in passato duramente criticato l’Italicum, la legge elettorale attualmente in vigore per la Camera, ora chiedono di andare a votare proprio con quella legge. Se si andasse alle elezioni, il Senato sarebbe invece eletto con il Consultellum, vale a dire la precedente legge elettorale, nota come Porcellum, dalla quale sono stati eliminati i vizi costituzionali rilevati dalla Corte costituzionale.

Tuttavia l’ipotesi delle urne risulta quella meno gradita al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha lasciato intendere di avere a cuore la stabilità politica del paese e vorrebbe quindi evitare altri mesi di campagna elettorale e di scontro politico.

Scartata l’ipotesi di un Renzi-bis

Secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa, durante una telefonata di Renzi a Mattarella, con cui il premier anticipava al presidente la scelta di rassegnare le dimissioni, il capo dello stato ha proposto di inviare il governo alle Camere per verificare l’ipotesi di un Renzi-bis. Ma il premier ha nettamente rifiutato, dicendo che le dimissioni che presenterà al Colle sono irrevocabili.

— LEGGI ANCHE: Perché personalizzare il referendum è stato un errore strategico ma non politico

Il governo tecnico o di scopo

L’ipotesi più probabile è quella di un governo tecnico o di scopo, che riceva dal presidente della Repubblica il mandato di completare l’approvazione della legge di bilancio del 2017 e di fare una nuova legge elettorale. Ad assumere questo incarico potrebbe essere una figura istituzionale, come il presidente del Senato Pietro Grasso, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio o il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Quest’ultimo, che oggi ha annullato il suo viaggio a Bruxelles, sarebbe un garante della stabilità per i mercati e le banche.

Ma c’è anche chi fa i nomi di Dario Franceschini o Romano Prodi, figure gradite ai democratici e che potrebbero ottenere quindi la fiducia delle Camere, dove la maggioranza è ancora quella del Partito democratico.

Le conseguenze per il Pd

Dopo la sconfitta referendaria cambieranno gli equilibri anche all’interno del Pd, dove una nutrita minoranza di cui fanno parte anche l’ex segretario del partito Pierluigi Bersani e l’ex premier Massimo D’Alema si è schierata contro la riforma costituzionale in campagna elettorale. La situazione sarà più chiara dopo la riunione della direzione convocata per martedì 6 dicembre, durante la quale Renzi potrebbe lasciare anche la guida del partito oppure ricandidarsi per un eventuale congresso.

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