In Italia sempre più comuni sciolti per mafia, ma il nemico pubblico è ancora l’immigrato
Dal 2001 al 2017, di comuni ne sono stati commissariati circa 170 ogni anno. Dal gennaio all’agosto 2018 invece sono stati sciolti 119 consigli comunali, circa 15 al mese. Uno dei dati più alti dal 2001 ad oggi. L'approfondimento di Gregorio Staglianò
Tra le colline aride dell’entroterra calabrese, dove il tempo viene scandito dal frinio delle cicale e fra i paesaggi lacustri laziali, all’ombra della Capitale esistono delle realtà, lontane dal clamore mediatico e schiacciate dal silenzio burocratico che dovrebbero preoccupare, e non poco, il Ministero degli Interni: i comuni commissariati o sciolti ciclicamente per i mali che li affliggono, nei quali l’esercizio della democrazia vive sospeso sul filo del rasoio, in costante aumento.
Un Comune viene sciolto, secondo quanto disposto dall’articolo 141 del Decreto Legislativo n° 267 del 200 (Testo Unico delle leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali), con un provvedimento del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro degli Interni, allorché concorrano tre condizioni:
“a) quando compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico;
b) quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per le seguenti cause:
1) impedimento permanente, rimozione, decadenza, decesso del sindaco o del presidente della provincia;
2) dimissioni del sindaco o del presidente della provincia;
3) cessazione dalla carica per dimissioni contestuali, ovvero rese anche con atti separati purché contemporaneamente presentati al protocollo dell’ente, della metà più uno dei membri assegnati, non computando a tal fine il sindaco o il presidente della provincia;
4) riduzione dell’organo assembleare per impossibilità di surroga alla metà dei componenti del consiglio;
c) quando non sia approvato nei termini il bilancio
A queste tre macro categorie ne va aggiunta una quarta, forse la più importante per intensità di conseguenze che è regolata dall’articolo 143 del TUEL.
Un Comune viene infatti sciolto se “emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica”.
Si tratta dunque, di infiltrazioni mafiose. Infine non bisogna dimenticare che un Commissario può intervenire laddove si presentino delle irregolarità (mancata presentazione delle liste elettorali, mancato raggiungimento del quorum e così via) nei processi elettorali, fondamento essenziale nel ciclo vitale di un ordinamento democratico.
Dal 2001 al 2017, di comuni ne sono stati commissariati circa 170 ogni anno, circa il 2 per cento su 8.000 comuni italiani. Dal gennaio all’agosto 2018 invece sono stati sciolti 119 consigli comunali, circa 15 al mese.
Uno dei dati più alti dal 2001 ad oggi. Per fare un esempio, a circa 60 chilometri da Riace, avamposto degli incubi del Ministro degli Interni, il comune di San Luca è senza sindaco da 1.963 giorni, cioè dal 17 maggio del 2013, giorno in cui il consiglio è stato sciolto per ingerenze della criminalità organizzata.
A nulla sono serviti gli appuntamenti elettorali convocati – l’ultimo dei quali quest’anno: le liste elettorali non sono state presentate. La criminalità organizzata impedisce lo scandirsi e lo svolgimento del più elementare processo elettorale, in uno Stato di diritto, nel 2018.
Insieme all’esempio calabrese la stessa situazione si presenta ad Austis e Magomadas in Sardegna, e a Rodero in Lombardia, sintomo comunque della “colonizzazione mafiosa” di alcune porzioni del territorio settentrionale del Paese, descritta anche dall’ex ministro Minniti nel marzo scorso.
Ma rimaniamo nel Sud. Dopo il clamore suscitato dall’arresto del sindaco di Riace Mimmo Lucano per una presunta gestione illecita dei fondi destinati ai comuni aderenti alla rete SPRAR e dopo la relazione del Viminale che intimava un “trasferimento” dei beneficiari, sancendo di fatto la fine del progetto ideato del primo cittadino ai domiciliari – ora revocati -, il quadro che si delinea all’orizzonte rimane desolante: basti pensare a Bova o a Platì, due comuni del reggino sciolti ben tre volte dal 2011 fino ad oggi.
Probabilmente se il Ministro degli Interni dimostrasse la stessa solerzia esercitata nel chiudere l’esperienza riacese nel contrasto alle infiltrazioni mafiose in una terra cannibalizzata dalla ‘ndrangheta, non ci ritroveremmo a leggere che dal 2016 – ultimo anno da Ministro degli Interni di Alfano e il primo per Minniti, predecessore di Salvini – i commissariamenti per motivi legati al fenomeno mafioso sono aumentati del 162,50 per cento.
Grazie al puntuale lavoro di Avviso Pubblico sappiamo che dal 1991 ad oggi 59 comuni sono stati sciolti per mafia più di una volta: 24 di essi si trovano in Campania, 24 in Calabria e 11 in Sicilia.
I mali che affliggono l’Italia vengono distorti, decontestualizzati e plasmati dal programma politico della compagine che muove le leve del potere, che ha ottenuto il timone della nave cosciente di aver navigato in acque melmose, dove non era consigliabile avventurarsi.
Paura, intolleranza, odio diventano i tasti da premere per attivare una reazione emotiva irrazionale nella società, non scientificamente dimostrabile, statistiche alla mano. Ma anche quando se ne è in possesso, a poco servono, quando la smaniosa caccia all’immigrato, come in un italico maccartismo distorto e perverso, si dimostra cieca anche difronte ai dati e alla matematica.
E così l’uomo nero diventa il capro espiatorio di un classe dirigente che ha una manciata di idee poco concrete, al di là degli slogan confezionati per la campagna elettorale, per contrastare la criminalità organizzata con la quale un pezzo importante del Paese convive come se fosse una malattia terminale impossibile da curare.
La costruzione di un nemico, passa anche e soprattutto dalla sua de-umanizzazione, dal rivolgersi ad esso con una terminologia infima e gretta, in una scala valoriale e mentale gerarchicamente inferiore a quello che concepiamo come lo standard della normalità, del socialmente accettabile. Non più “persone”, ma “clandestini”, “immigrati”, talvolta derisi e ridotti ad un problema da risolvere sbrigativamente, lasciati in pasto alle viscere del paese, quello che confina la diversità a dei paragoni bestiali, animali, il paese con il dito sul grilletto, il paese che odia, ma il paese che vota.
Sì, quello che si reca alle urne convinto che il capro espiatorio escogitato ad arte sia effettivamente un’urgenza ingestibile, inebriato dalle migliaia di cinguettii di Twitter, narcotizzato dalla furbizia delle agende politiche.
Quando il nemico, di qualsiasi estrazione esso sia, viene de-umanizzato in questo modo, impiccato mediatamente in pubblica piazza, ecco che la violazione dei suoi bisogni, anche quelli più elementari, della sua dignità, quella inalienabile, viene d’un tratto tollerata e considerata necessaria alla libertà e alla sicurezza di tutti quelli diversi, di “noi”, a discapito del sempiterno concetto di “loro”, in eterna contrapposizione alla nostra identità.
E questo, chi amministra il potere, in Italia come negli States, lo sa bene.
A cura di Gregorio Staglianò