Premio nobel per la Pace, quando la solidarietà è solo ipocrisia
Il commento di Fiorenza Loiacono sull'idea di pace dubbia che asseconda il premio Nobel e il dilettantismo misto a indifferenza dell'Unione europea
“…Alfred Nobel, l’inventore della dinamite. Egli fu indotto a riparare i danni che la sua invenzione aveva provocato istituendo il premio Nobel per la pace, al fine di promuovere la comprensione tra le nazioni”
(S. Zweig, Il mondo di ieri, 1942)
Probabilmente non molti sanno che un premio così importante come il Nobel per la pace possiede un’origine compromettente. Come un’insanabile contraddizione, una sorta di irriducibile antinomia, che sembra riverberarsi nelle numerose polemiche e controversie che nel corso del tempo hanno accompagnato la sua assegnazione.
Nonostante il rimorso di coscienza alla base della sua creazione, il Nobel per la pace non ha risolto il suo dissidio primario: la presenza della dinamite, la crudeltà sugli esseri umani. Sin dall’inizio, senza intaccare la portata della forza agita sull’umanità (come direbbe Simone Weil), il Nobel ha assecondato un’idea di pace piuttosto dubbia. Emblematicamente, il profeta della nonviolenza, il Mahatma Gandhi, non ha mai ricevuto questo riconoscimento.
Secondo la volontà del produttore di armi Alfred Nobel, il premio per la pace deve essere conferito a chi nell’anno precedente “avrà lavorato di più o meglio per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti e per l’organizzazione e la promozione dei congressi di pace”.
La scorsa settimana a esserne insignito è stato il presidente colombiano Juan Manuel Santos, senza che la notizia abbia avuto particolare risonanza. La pace, così incompresa, sradicata e persino scontata, passa, come un incidente.
Talvolta sono gli stessi premiati a dimenticarsene o a dar prova di non conoscerla affatto. Il segretario di Stato americano Henry Kissinger, premiato nel 1973, incassò il Nobel nonostante il suo sostegno al golpe di Augusto Pinochet e la corresponsabilità nell’assassinio del presidente in carica Salvador Allende e di centinaia di migliaia di cittadini cileni.
Come ha ammesso lo scorso anno Geir Lundestad, direttore del Norwegian Nobel Institute, talvolta questo riconoscimento viene assegnato per incoraggiare un processo di pace o sulla base “delle intenzioni”, non certamente in relazione a risultati concreti.
Eclatante a questo proposito è stato il caso del presidente americano Barack Obama, il quale ha ricevuto il premio nel 2009 solo pochi mesi dopo l’inizio della presidenza.
Nel corso del suo duplice mandato alla Casa Bianca non sono mancate le azioni di guerra e la vendita di armi a paesi compromessi con il terrorismo, come l’Arabia Saudita, mentre lo sforzo per affrontare la questione israelo-palestinese è stato minimo, nonostante le dichiarazioni programmatiche iniziali.
A quale concetto di pace si riferiscono le commissioni deputate di anno in anno all’assegnazione del Nobel?
Forse a quello ben poco confortante citato da Hannah Arendt nell’opera Sulla rivoluzione (1963), divenuto ormai un manifesto delle operazioni militari occidentali: “Indubbiamente l’idea che la pace sia il fine della guerra, e che perciò una guerra serva a preparare la pace, è vecchia almeno quanto Aristotele e la pretesa che lo scopo della corsa agli armamenti sia quello di salvaguardare la pace è ancora più vecchia, ossia altrettanto vecchia quanto la scoperta delle menzogne propagandistiche”.
Dunque, il Nobel per la pace è talvolta assegnato nonostante la menzogna o sulla base di meriti circostanziati e temporanei.
A tale proposito, nel 2012 è stata premiata l’Unione europea, lo stesso organismo che oggi sigla accordi con feroci dittature, come quella egiziana di al-Sisi, erge muri e veti contro un’umanità disperata e inerme, abbandonata all’arbitrio del caso.
Nel 1917, in piena guerra mondiale, Antonio Gramsci scriveva che l’indifferenza opera potentemente nella storia, attraverso la sua brutale passività. Dei suoi effetti abbiamo oggi terrificanti dimostrazioni.
L’Unione europea ha davvero il coraggio di esporre nelle sue stanze il Nobel che le è stato assegnato?
Il 5 ottobre 2016, il New York Times ha pubblicato un servizio sulla morte dei migranti nel Mediterraneo o sulla loro fortuita salvezza dal titolo Stepping Over the Dead on a Migrant Boat, a cura di Rick Gladstone. Una foto in particolare è stata riportata dalle testate di tutto il mondo: in una barca innumerevoli corpi sono calpestati dai pochi sopravvissuti che tentano disperatamente di sottrarsi a quella fine.
Nonostante le numerose commemorazioni pubbliche dedicate in Europa alla Shoah, forse non tutti sanno che nelle camere a gas si moriva così. I più forti calpestavano i più deboli nel tentativo di aggrapparsi all’ultimo scampolo di vita, andando verso l’alto, dove il veleno era meno concentrato.
A differenza delle camere a gas, ermeticamente chiuse allo sguardo esterno, nel Mediterraneo si muore alla luce del sole, eppure l’indifferenza del mondo è la medesima.
Tra il cuore e i confini dell’Europa, tra il passato e il presente, molto poco è cambiato. Quale pace viene premiata? Quella della coscienza in placida armonia con se stessa di fronte all’umanità che cola a picco o quella del supposto riposo eterno destinato ai morti?
Nel condurre la sua riflessione, il New York Times procede ancora più indietro nel tempo, evidenziando l’impressionante analogia nella compressione dei corpi, nel colore della pelle, tra le imbarcazioni cariche di schiavi che tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo solcavano l’Atlantico e queste del nostro presente.
Nel 1945, il mondo inorridì di fronte alle prime immagini provenienti dai campi di sterminio, i laboratori di estirpazione dell’umanità rifiutata. Di fronte all’orrore molti sostennero di non aver mai saputo, di non essersi resi conto di quanto stava accadendo.
Oggi fotografie ad altissima risoluzione, prive di sbavature, addirittura a colori, sono trasmesse mentre la tragedia è in corso, diffuse istantaneamente a livello planetario. Nessuno può dire di non sapere. Eppure, ugualmente non si fa nulla.
L’indifferenza è radicata nella natura umana? È prevalsa l’abitudine all’imbarbarimento? La vile rassegnazione?
Un secolo fa, Antonio Gramsci scriveva che gli effetti disastrosi dell’indifferenza sono generalmente scambiati per fatalità (Indifferenti, 1917). Anziché riconoscere il peso della propria passività, si preferisce scrollare le spalle e accusare la sorte.
Il viaggio dei migranti nel Mediterraneo è oggi considerato una sorta di avventura, un gioco con il destino, dagli esiti “fatali”. Le conseguenze nefaste dell’indifferenza si moltiplicano quando a essa si aggiunge la mancanza di immaginazione, di fantasia pregna di forza morale da parte delle istituzioni.
Scrive Gramsci: “Nella vita politica l’attività fantastica deve essere illuminata da una forza morale: la simpatia umana; ed è [danneggiata] dal dilettantismo […]. Perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. [Le autorità] ignorano la realtà […] in quanto è costituita di uomini che vivono, lavorando, soffrendo, morendo. Sono dei dilettanti: non hanno alcuna simpatia per gli uomini. Sono retori pieni di sentimentalismo, non uomini che sentono concretamente. […] Non sanno rappresentarsi il dolore degli altri, perciò sono inutilmente crudeli”. (Una verità che sembra un paradosso, 1917).
Caratterizzata da una diffusa indifferenza, l’Unione europea è dunque anche caratterizzata da dilettantismo, governata da prosaici costruttori di muri e barriere, incapaci di estendere lo sguardo alle vite degli altri. Cento anni sono passati da queste parole, che illuminano il senso della politica, qualora voglia definirsi tale.
È nella fantasia, nell’immaginazione, e dunque nell’empatia, la chiave di volta della solidarietà umana. Non nel sentimentalismo vano, grottesco e piuttosto inutile che suole accompagnare le tragedie una volta avvenute.
In Italia si edificano abitazioni con la sabbia senza preoccuparsi di chi ci vivrà all’interno se un giorno verrà il terremoto; il governo non attua interventi riparativi per la messa in sicurezza del territorio nonostante la consapevolezza del pericolo. Ma a case crollate e morti avvenute, si organizzano imponenti catene umane di soccorso, carovane in partenza da ogni punto del paese, improvvisamente solidale, mentre le autorità sfilano in parata, esprimendo cordoglio profondo.
La simpatia umana è accordata ai morti, ex vivi ormai freddi e inermi. Come scrive Gramsci, il dilettantismo produce provvedimenti tardivi, a differenza dell’attenzione, che è puntuale e persino anticipa i bisogni degli esseri umani.
Il 3 ottobre l’Italia ha celebrato la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Quale strana condizione-contraddizione ci troviamo a vivere: una commemorazione viene istituita mentre la tragedia è in corso d’opera e continua a macinare disperazione e morte, una macchina che chi si trova in condizioni di sicurezza non tenta di arrestare.
Tra il 2014 e il 2016 circa 10.500 individui sono morti o sono risultati dispersi nel Mediterraneo, e ancora in migliaia continuano a morire; nessun intervento politico soddisfacente è stato attuato per porvi rimedio, eppure la cittadinanza si sposta velocemente sul piano ideale del ricordo.
Ci si sofferma a ricordare un’umanità che nel frattempo affonda fisicamente, perdendo la propria vita, un paradosso che restituisce la misura dell’impotenza di chi resta a guardare. Il presente viene affrontato in termini di passato, come qualcosa di già lontano.
la tendenza allo “spostamento”, a deviare cioè dal compito cui si è primariamente chiamati, è sempre più diffusa, un segno dell’incapacità di affrontare direttamente il problema, un meccanismo amplificato dalla dispersione di energie sui social network, sfogo immediato e rassicurante dell’attivismo politico, dove l’impegno è spesso solo illusorio.
Qualora i corpi dei migranti vengano recuperati, le identità restano sconosciute, spesso sostituite da un numero, mentre nei cimiteri siciliani si affastellano tombe senza nome. Raccogliere pietosamente corpi ormai privi di vita è l’intervento tardivo e sfacciatamente riparativo messo in atto dalla dilettantesca Unione europea.
“Qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso…” (quale consolazione può essere rispetto alla morte una lapide, ndr), verrebbe da chiedersi, una volta che a queste anime non è stata tributata altro che indifferenza. Certamente per questa umanità in dissolvimento, lo scambio solidale, la declinazione umanitaria degli amorosi sensi, non concessa in vita, non lo sarà nemmeno dopo la morte. All’Unione europea piace così.