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Home » News

I cittadini italiani imprigionati all’estero e dimenticati dallo Stato

Immagine di copertina

Sono 3.288 gli italiani detenuti all’estero, di cui 2.576 in attesa di giudizio e non sempre si hanno informazioni sul trattamento che ricevono in prigione

“A prescindere dallo status di colpevolezza o innocenza, esistono dei diritti fondamentali della persona che non possono essere violati. Scendiamo in piazza per lo stato delle carceri italiane e non ci preoccupiamo della situazione degli italiani prigioneri all’estero”. Lo dice a TPI Katia Anedda, fondatrice dell’associazione “Prigionieri del Silenzio” che si batte da oltre otto anni per i diritti dei detenuti in terra straniera.

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Il caso del blogger e documentarista Gabriele del Grande trattenuto in Turchia ha riacceso l’attenzione su quegli italiani che, per i motivi più svariati, vengono privati della libertà e rinchiusi nelle carceri di paesi che hanno politiche carcerarie molto diverse da quella italiana.

Il problema principale è che attualmente esistono 3.288 italiani detenuti all’estero, di cui 2.576 in attesa di giudizio. Non sempre si riesce ad avere rassicurazioni circa le loro condizioni e il trattamento che viene riservato loro.

Secondo l’ultimo censimento (giugno 2016 con riferimento al dicembre 2015) del Dipartimento del Ministero degli Affari esteri (Dgit) che si occupa degli italiani all’estero, i nostri connazionali attualmente rinchiusi in prigioni straniere è ripartito tra 687 condannati, 2.576 in attesa di giudizio o con procedimenti di appelli in atto, 34 in attesa di estradizione.

L’articolo continua dopo l’immagine con i dati forniti da “Prigionieri del Silenzio”.

Katia Anedda ha iniziato nel 2008 a battersi per i diritti dei detenuti all’estero fondando l’Associazione Prigionieri del Silenzio, dopo che il suo ex convivente, Carlo Parlanti, era stato accusato di stupro e in seguito condannato a 9 anni di reclusione negli Stati Uniti.

“L’associazione è nata dopo che il mio compagno era stato arrestato in Germania per una richiesta degli Stati Uniti. Mi sono ritrovata all’inferno” – racconta Katia – “nemmeno sapevo cosa fosse un consolato e ho avuto moltissime difficoltà a mettermi in contatto con gli avvocati e a ottenere giustizia. Nonostante gli sforzi ci sono voluti più di otto anni che Carlo ha scontato nonostante la sua innocenza”.  

La battaglia di Katia ha lo scopo di rendere più agevole il percorso di assistenza legale a queste persone che spesso si trovano in condizione di grande difficoltà.

“Il problema reale delle persone che vengono incarcerate all’estero è la distanza, la lingua spesso complessa da capire e da parlare, l’impossibilità di essere seguiti da un legale di fiducia o di poter comunicare con i propri parenti, i quali, a loro volta, sono costretti a ingenti spese di viaggi e traduttori per non far sentire abbandonati i propri cari”, spiega Anedda.

Non si discute quindi dell’innocenza o della colpevolezza dei detenuti, ovviamente, ma si accende una luce sul modo in cui si guarda a queste persone: “Molto spesso vengono dimenticate perché si pensa con leggerezza che se sono in carcere se lo sono meritato. Non è sempre così, però, e questo non giustifica mortificazioni, eventuali violenze o privazioni della dignità personale”, ripete la presidente.

“Anche quando è stato commesso un reato, la prigione deve togliere la libertà di reiterare l’illecito, ma non deve togliere la dignità o, peggio, infondere la paura di non uscirne vivo: sensazioni che i detenuti provano soprattutto nelle prigioni del Sudamerica, dell’Africa, della California”, precisa Anedda.

Fin quando si ha un parente che è detenuto in una prigione in Europa, la situazione è più semplice da gestire, ma quando la persona si trova nel Sudamerica, negli Stati Uniti, in Africa, inizia ad essere pesante sia dal punto di vista economico che della lingua. Inoltre, diverse ambasciate italiane nel mondo risultano chiuse. 

“Non c’è la giusta forza economica da parte del governo e forse nemmeno la capacità di seguire queste persone, non c’è molto interesse”, racconta Anedda, “sembrano troppo spesso lasciati al loro destino perché colpevoli di essere finite in carcere”.

“La famiglia ha difficoltà a interagire con gli avvocati e, d’altro canto, l’ambasciata non è stimolata dalla famiglia ad essere proattiva: se devi capire al meglio la situazione occorrono molti soldi. Io per farlo mi sono fatta un sacco di debiti”, precisa la fondatrice della onlus.

Ma le difficoltà non riguardano solo i familiari, anche gli avvocati che seguono le cause spesso non sanno come affrontare le situazioni giuridiche più controverse, in paesi dove il diritto non è applicato come in Italia: i gradi di giudizio sono diversi ed è difficile controllare l’operato degli avvocati locali a distanza. I consolati non hanno nemmeno la forza economica di essere presenti nelle prigioni, spesso situate lontane dai consolati”, spiega Anedda.

I casi pubblici

Il numero dei cittadini italiani che attualmente stanno scontando una pena in un carcere straniero è molto alto se si considera anche il numero delle persone, amici o familiari, che gravitano intorno al detenuto e che devono seguirne le vicende. Di questi, alcuni casi sono più noti alle cronache dei giornali, altri restano nel buio, spesso per volontà dei familiari che non vogliono esporre alla pubblica gogna i propri cari o che intendono tutelarsi da eventuali ritorsioni.

I casi 

Enrico Forti, condannato nel 2000 negli Stati Uniti per omicidio, si è sempre proclamato innocente.

Angelo Falcone e Simone Nobili, due ragazzi che sono stati in carcere tre anni in India con l’accusa di traffico di stupefacenti, sono stati assolti nel 2009. Avevano firmato un documento di autoaccusa in lingua hindi.

Roberto Berardi, imprenditore di Latina, incarcerato in Guinea equatoriale, è stato liberato il 9 luglio del 2015. Dal carcere aveva inviato le foto delle torture subite in prigione.

Carmine Sciaudone in Indonesia

Filippo e Fabio Galassi in Guinea equatoriale

Cristian Provvisionato è stato bloccato in Mauritania dall’agosto 2015 per una presunta truffa informatica subita dal governo locale da alcune società che vendono software-spia. La madre  Doina Coman, il 22 aprile ha iniziato una marcia di 250 chilometri da Siena verso Roma sulla via Francigena per richiamare l’attenzione sul caso del ragazzo trattenuto. “Mio figlio è prigioniero in Mauritania da 20 mesi, il ministero degli Esteri deve fare qualcosa per riportarlo in Italia. Ha perso trenta chili e dal primo maggio scatta lo sciopero della fame. Lo stato si muova per evitare un altro caso Regeni. Un’ulteriore salma da riportare in patria”, ha raccontato ai microfoni della stampa prima di lasciare Siena.

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