Quando lo stato si gira dall’altra parte: ecco chi si occupa davvero dell’accoglienza dei migranti in Italia
I migranti, da soli, difficilmente riescono ad inserirsi efficacemente nelle maglie dell'accoglienza. Per risolvere il problema si attivano spontaneamente migliaia di cittadini. Ecco le loro storie
R. è partito dal Togo nel 2014, dove era perseguitato per le sue idee politiche. È arrivato in Italia pochi mesi dopo, ma l’asilo ancora non l’ha ottenuto.
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Secondo i dati dell’Eu Justice Scoreboard 2017 della Commissione europea, la macchina della giustizia civile italiana è la quarta più lenta in Europa, con 393 giorni di media per ogni procedimento.
Per i rifugiati, gli ostacoli per ottenere la protezione sono tanti, come spiega l’avvocatessa Antonietta Cozza, impegnata in numerosi ricorsi contro le decisioni delle commissioni territoriali per il riconoscimento della tutela internazionale.
“Il verbale della commissione è redatto in italiano; prima di essere firmato viene letto ad alta voce nella lingua del migrante, che però spesso non capisce. L’impellenza della situazione lo porta però a firmare in ogni caso.
Quando, mesi dopo, la questura gli inoltra la notifica della decisione, le motivazioni indicanti il rigetto della domanda sono solo in italiano; solamente le modalità con cui si può fare ricorso sono indicate nelle lingue veicolari (inglese, francese, arabo)”.
La scarsità di mediatori può mettere in serio pericolo i richiedenti asilo: a Roma qualcuno ha cercato traduttori all’ambasciata dello stesso stato da cui stava scappando, come racconta Andrea Costa, coordinatore degli attivisti del centro di accoglienza occupato Baobab Experience.
“Il 14 marzo 2014, a Lomé, nel cuore di una riunione locale del mio partito politico (Alleanza Nazionale per il Cambiamento) sono stato vittima di un’aggressione da parte della polizia” racconta R.
“Molti di noi sono stati arrestati, incarcerati e torturati, altri ancora sono tuttora dispersi. Io sono riuscito a scappare, nonostante una ferita grave al piede sinistro. La motivazione che la polizia ha dato all’intervento è che la riunione aveva lo scopo di mobilitare e infuocare i giovani per destabilizzare il paese”.
Dopo un viaggio estenuante e pericoloso, durante il quale è stato imprigionato per due mesi senza assistenza medica in Guinea Equatoriale, il 28 settembre 2014 R. è arrivato in Italia.
“Ho fatto richiesta di asilo politico all’aeroporto di Malpensa, dove hanno verificato il mio visto. Ho passato una settimana alla stazione di Milano, dopo sono partito per Cuneo e anche lì mi facevano girare in tondo senza una meta.
È a Cuneo che qualcuno mi ha parlato di un’associazione chiamata HPS, che si trova Bologna. Arrivato a Bologna, ho passato qualche giorno alla stazione. Lì mi hanno rubato il passaporto e una chiavetta USB chiusi nel sacco di plastica che utilizzavo come cuscino per dormire”.
A causa della mancanza dei documenti e dei file contenenti le foto della sua ferita, la sua storia è stata ritenuta poco credibile dalla commissione, che gli ha negato la protezione. Ora ha fatto ricorso, e aspetta la pronuncia definitiva.
Per chi non entra automaticamente negli hub di prima accoglienza i problemi non si fermano però alla fase processuale: trovare cibo, vestiti, assistenza legale e medica, o anche solo l’ufficio giusto in cui fare richiesta può essere difficile, se sei solo.
A sorpresa, però, è raro che questo accada: dove non arriva lo Stato, ci sono spesso singoli cittadini e associazioni che decidono di dedicarsi all’accoglienza, anche a tempo pieno.
Sono circa 800 le realtà che nel 2017 si sono iscritte al Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati, un centinaio in più che nel 2015, e il passaparola tra connazionali indirizza i nuovi arrivati verso le realtà più efficienti.
Tra le Onlus, Refugees Welcome permette a privati, sostenendoli finanziariamente, di accogliere in famiglia un richiedente. Ottenuta la protezione internazionale, infatti, le sfide non finiscono.
“Oggi è ancora un sogno pensare che un rifugiato possa andare su un sito di annunci e trovare casa” racconta Maria Cristina Visioli, membro della segreteria nazionale di Refugees Welcome.
“Spesso i migranti restano nel limbo del centro di accoglienza per anni, molti soffrono di depressione. Fuori dal centro non ci sono posti di lavoro né posti per dormire, e nessuno affitta agli stranieri”.
Per questo motivo sul sito internet di Refugees Welcome ognuno può registrarsi come rifugiato, persona ospitante o volontario, e contribuire all’accoglienza attraverso la piattaforma.
Meno evidente ma altrettanto determinante è l’operato spontaneo dei singoli cittadini.
Come Nawal Soufi, 29 anni, italo-marocchina e residente a Catania, ma sempre in movimento per soccorrere come può chi arriva per mare.
Su Facebook, dove ha pubblicato i suoi contatti, si definisce “attivista per i diritti umani e collaboratrice indipendente durante la fase di soccorso dei migranti”.
Premio cittadino europeo 2016 e Arab hope maker 2017, ha deciso di usare il denaro vinto per finanziare i ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo dei migranti che rischiano il rimpatrio.
Quando squilla il telefono Nawal attiva gli ingranaggi dell’accoglienza: contatta Ong, Guardia Costiera, istituzioni, e lancia un passaparola virtuale attraverso numerosi gruppi Facebook.
“Ogni volta che qualcuno viene a sapere di un migrante in difficoltà lo scrive sul gruppo e chi è nella zona si attiva” racconta Raffaella Piazzi, che collabora con varie realtà impegnate nell’accoglienza sul territorio bolognese.
La maggior parte delle sue iniziative parte però proprio dai gruppi Facebook collegati a Nawal. “Quando qualcuno incontra un migrante in difficoltà viene dato l’allarme sul gruppo e chi può si attiva, facendo partire un tam-tam di attivisti in risposta a quell’esigenza specifica.”
Da solo, però, l’impegno dei volontari non può bastare. Nonostante le buone intenzioni, non sempre i cittadini sono formati o coordinati con le autorità, e rischiano quindi di fare errori. “Serve la collaborazione delle istituzioni, altrimenti l’impegno diventa di ventiquattro ore al giorno”
Andrea Costa, di Baobab Experience, sottolinea l’importanza di queste reti sociali:
“Investire in accoglienza è investire in sicurezza: se non ci sei te, prima dello Stato arriva la malavita. Accogliere significa togliere manovalanza a criminalità e fondamentalismi”.
Molto spesso il nostro sistema di accoglienza, per com’è oggi, si limita a tentare di soddisfare le esigenze primarie delle persone, “ma questo non basta: si tratta di persone che hanno subito il trauma dell’abbandono della propria famiglia e, spesso, violenze durante il viaggio.
Hanno bisogno di un aiuto psicologico, bellezza, buon cibo: altrimenti fra qualche anno avremo un’intera generazione di migranti con gravi disturbi”.
Roma è una delle uniche grandi città d’Europa senza centri HUB di prima accoglienza.
Per questo motivo un gruppo di cittadini ha deciso di occupare il centro di accoglienza Baobab, quando il Comune ha smesso di riconoscerlo come tale a causa del suo incredibile sovraffollamento.
Qui, grazie al lavoro dei volontari e alle donazioni dei cittadini, i migranti ricevono cure mediche ed assistenza psicologica, e possono intraprendere attività ludiche, artigianali e sportive.
“Vogliamo mostrare loro che, a fronte del viaggio disumanizzante che hanno affrontato, in Europa c’è anche qualcuno che ha voglia di accoglierli”.