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Home » News

“Gli italiani stanno mangiando pomodori intrisi del sangue delle vittime di caporalato”

Immagine di copertina

Un'indagine della Procura di Lecce denuncia che i pomodori raccolti dal bracciante Abdullah Mohamed, vittima di caporalato e poi morto, sono stati rivenduti ad alcuni grandi marchi

Quando Abdullah Mohamed è morto, il 20 luglio del 2015, il termometro nei campi di Nardò, in Puglia, segnava 40 gradi.

Abdullah era un bracciante sudanese di 47 anni, raccoglieva pomodori, non aveva cappello né guanti, non una bottiglietta d’acqua, o una tettoia sotto alla quale ripararsi.

Le sue braccia facevano parte del numeroso esercito che compone il proletariato agricolo: uomini che si spostano di regione in regione seguendo le fasi di raccolta dei prodotti ortofrutticoli.

È la manodopera a basso costo sfruttata dai caporali.

Per il reato di caporalato oggi esiste una legge (cosa prevede), la 199 (che ha riscritto l’articolo 603 bis del codice penale), introdotta anche grazie a persone come Yvan Sagnet, promotore del primo sciopero dei braccianti stranieri in Puglia con il quale è riuscito ad accendere i riflettori sul fenomeno.

Anche Paola Clemente è morta mentre lavorava nei campi, il 13 luglio del 2015, nelle campagne di Andria. Stava raccogliendo uva.

Dopo il suo decesso, sei persone furono arrestate nel corso di un’operazione della guardia di finanza e della polizia, coordinata dal magistrato tranese Alessandro Pesce. Truffa ai danni dello stato, illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro: la nuova legge contro il caporalato non ha fatto sconti.

Oggi anche l’indagine preliminare sulla morte di Abdullah si è chiusa, e ha disposto il rinvio a giudizio per il caporale Elsalih e per Giuseppe Mariano, titolare dell’azienda agricola per la quale Abdullah stava lavorando. Entrambi sono accusati di omicidio colposo e caporalato.

L’indagine, coordinata dalla procuratrice Paola Guglielmi, ha accertato che fino al 2015 i pomodori raccolti senza contratto e sotto caporale da Abdullah venivano consegnati ad alcune delle più grandi aziende italiane di trasformazione del pomodoro in pelati, sughi pronti e polpe, titolari di marchi molto noti: Mutti, Conserve Italia (Cirio) e La Rosina.

“Oltre alle responsabilità penali di cui risponderanno le due persone rinviate a giudizio, ho ritenuto giusto far sapere all’Italia che esistono delle responsabilità – esclusivamente – morali di chi indirettamente mette sul mercato questi pomodori definiti propriamente ‘insanguinati’. I grandi marchi sono a conoscenza di quanto accade, l’Italia deve sapere”, spiega a TPI la procuratrice Paola Guglielmi.

La piccola impresa locale rassicura la grande ditta nazionale, come faceva appunto l’impresa di Mariano. Nella scheda di adesione al piano di qualità di Conserve Italia si dichiara “di non utilizzare lavoro minorile o forzato, di garantire la salute e sicurezza dei lavoratori, di rispettare le norme in tema di orari e retribuzione”.

Le ditte lambite dall’inchiesta di Lecce tengono a precisare che i controlli avvengono solo sui documenti forniti dai produttori locali, e non certo nei campi.

Ma, come spiega la procuratrice, “le grandi aziende richiedono una dichiarazione dai singoli produttori, ma non la controllano. Attestano di non sfruttare, di non sottopagare e di non violare le normative di sicurezza, ma poi i controlli non vengono effettuati. Loro dicono che spettano agli organi competenti”.

Il meccanismo – cosa c’è dietro

“La grande distribuzione organizzata (Gdo) ha di fatto imposto i prezzi di vendita dei pomodori e di molti altri prodotti ortofrutticoli”, spiega a TPI Yvan Sagnet.

“Quando la Gdo impone un prezzo che non è più frutto di una contrattazione, vuol dire che una parte del sistema produttivo non è più in grado di sostenere i costi del lavoro. Le ricadute si hanno così sull’anello più debole della catena, i braccianti appunto, che vengono sfruttati per garantire al grande marchio il prezzo più basso di acquisto del prodotto da trasformare”, spiega Yvan.

Se anche le piccole-medie imprese che riforniscono i grandi marchi, che a loro volta riforniscono i grandi distributori, volessero ribellarsi e chiedere prezzi più alti, la concorrenza dei prodotti importati dai paesi stranieri renderebbe vano questo tentativo: “Basta acquistare i pomodori dalla Cina, o le arance dal Maghreb”.

“Le aziende si nascondono dietro un’assenza di normativa, ecco perché nella legge 199 avevamo chiesto, oltre a una parte repressiva, anche di introdurre uno strumento di prevenzione, con un sistema di controlli efficienti”, spiega.

L’unico obiettivo è massimizzare i profitti. L’agroalimentare è l’unico settore che porta sempre segno positivo: 7 per cento in più rispetto al 2016, 25 miliardi di fatturato per i primi otto mesi dell’anno.

“Il settore cresce, come ha sottolineato anche il ministro Martina, ma parallelamente i diritti dei lavoratori e il fatturato delle pmi diminuiscono e il caporalato permane”.

“Come mai il settore cresce dal punto del vista del Pil mentre i profitti dei piccoli produttori e dei lavoratori diminuiscono? C’è un problema di ridistribuzione degli utili. Se fino a 30 anni fa i ricavi erano distribuiti 1/3 a Gdo, 1/3 ai trasformatori e 1/3 ai lavoratori, oggi 2/3 vanno alla Gdo, e resta poco per tutti gli altri”.

E Yvan prosegue: “In questi anni mi sono reso conto che affrontare i caporali e le aziende che se ne servono significa agire sugli effetti e non sulle cause”.

“È inammissibile che non arrivino gli ispettori del lavoro a fare i controlli mentre i lavoratori sono sfruttati. In Italia esiste una certificazione biologica dei prodotti e non una certificazione etica: è assurdo, vige una cultura dell’impunità”.

TPI è aperta a raccogliere eventuali repliche o precisazioni

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